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SAN FERDINANDO (RC): PROFUMO DI MARE, SAPORI DI CALABRIA

di GREGORIO CORIGLIANO

“Vinisti?” Si. E “quando vinisti?” Ieri sera. “E quando tindi vai?” Non lo so. “Veni e mangi a casa mia?” Queste, in sintesi, le prime parole che ascolto quando arrivo nel luogo dell’anima per le vacanze. Costa smeralda, Billionaire? Ma quando mai? Vuoi mettere il posto dove gli odori, i sapori, gli sguardi ti appartengono e cambiarli con il lusso che secondo me vacanza non è? Anche quest’anno è stato così.
Sono arrivato in tarda mattinata a San Ferdinando di Rosarno e, prima di ogni altra cosa, la voglia è stata, dopo qualche salutino familiare, di guardare il mio mare, bagnarmi i piedi, stendermi al sole e salutare i vicini di ombrellone che io, per la verità, non porto mai. Preferisco una sediolina, sedermi e leggere uno- due giornali. Il tempo di acclimatarmi. Ed abitando a venti metri-venti dal mare nella casa che fu dei miei genitori e che adesso è rimasta a noi tre figli, rientro per la doccia d’obbligo,nel cortile, poi mi sdraio sulla veranda a controllare lo smart-phone, poi mi avvicino al desco. La colf, bravissima, Nathalia, ucraina, aveva preparato per noi, uno spaghetto con panna e nduja. Squisito. Conciliava  la pennichella. Fino a quando? Fino quando “me sceto, diceva il mio compare Franco Bucarelli, voce e storico inviato speciale del gr2 per trenta e più anni. Adesso in pensione. Cioè, senza orario fino a quando mi sveglio. E cosi, tutti giorni. La lettura dei giornali, almeno tre, per iniziare, poi la prosecuzione alla sveglia. Un po’ ancora sdraiato a letto e se il caldo non era di quelli terribili, sulla veranda che da su un grande giardino pieno di verde curato dal mio amico Ciccio Scarfò, con molta cura.
La sdraio, che adopero venti giorni all’anno, è sempre la stessa da almeno dieci. Io non amo cambiare. Anche le poltrone, le sedie e le lampade sono sempre le stesse che sistemo io stesso il primo giorno che arrivo. Alle venti, non prima per via del caldo, esco e vado o sul lungomare o in piazza. A seconda di come sono predisposto. Se vado prima in piazza, sul lungomare vado dopo cena. In piazza? A far che? Ad incontrare i miei amici di infanzia e qualcuno  acquisito di recente. Basta attendere e nel volgere di un’ora arrivano tutti. Ed allora, dopo il “quando vinisti” i saluti di rito. Come va, come non va, ti fermi molto, fa il bagno in genere. Stasera che e dove mangi. E poi via alle chiacchiere consuete, in linea di massima sempre le stesse. Da anni. Primo discorso. Ci sono belle donne? Ci sono turisti? Il paese è migliorato? E poi via con il classico  “ti ricordi?” di prammatica.


Ed i ricordi sono di persone e di cose. Il primo a tirare fuori il dialetto dell’anima, è Ciccio, che pur vivendo a Parma, da quaranta anni, è quello che ricorda il dialetto alla perfezione, anche quello non più in uso. “Vieni a casa mia stasera?” Ti faccio una “mpagghiata”. E cos’è. E “di undi veni i Bolzanu?” Poi ho scoperto che si trattava, più o meno, di una insalata di ortaggi cotti, imbevuti di olio. L’inserimento di Ciccio il grande non arriva in ritardo. “Venite a casa mia, vi faccio vedere io come si cucina e come si mangia. Detto fatto, tre o quattro amici selezionati andiamo “Chez Ciccio” e da dove vengo vengo dal mulino. Prelibatezze  a scelta. Tutto preparato da lui, Ciccio il grande. Il patriarca.. Ma tutto in regolare silenzio. Nessuno deve sapere.
Ad un certo punto si inserisce Ercolino, chirurgo in pensione che avendo una memoria di ferro, ricorda soprannomi e detti del paese che risalgono al 1955. “Vi ricurdati come chiamavano a chidu chi vindia u vinu? I Figghioli. Come è possibili che c’era u Bromu? E faceva finta di incazzarsi quando gli davamo questo appellativo, invece si divertiva? E la  moglie che faceva la pipì in piedi. E giù risate! Poi ci sono state, quest’anno le new entry. Piero di Piacenza, che si divide tra l’Emilia e la Calabria viaggiando in macchina ed è costretto a cucinarsi da solo. E Damiano, divorziato? Ha scoperto il gusto di facebook e si diverte e chiede al nipote Agostino, leader del social più in auge con “quelli che ti amo o quasi lercio”, che ci informa degli ultimi fatti del giorno. Quando, con Giacomo Giovinazzo, non ti invita a mangiare fino a scoppiare nelle campagne di Limbadi.
E poi c’è ancora Nandu Carcarazza che ha sempre bisogno di compagnia per avviare gli irrigatori. E chi ci va? Il mio amico Ciccio da Parma, che ricordando il padre, si commuove pensando alle arance che  non ha più. Ed è comunque felice, perche la coltivazione costa troppo. Poi tutti insieme ricordiamo quelli che c’erano l’anno scorso e non ci sono più. A partire da Renato, la cui moglie, di Oslo, viene ogni giorno nel paesello, con Denise e Grethe. Ciccio il grande e Ciccio il parmigiano, sono i “mastri della serata”. Con occhio svagato guardiamo le ragazze che sostano in piazza. Solo l’occhio. Altre cose sono ricordo del tempo che fu e che non ritornerà. Ci sono altre new entry, ma che non mi vengono in mente. A parte Meluzzu zulù che divide l’anno tra Torino, il luogo dell’anima, l’estero. Però sa tutto, anche delle amiche che vengono da Firenze per le vacanze. Ed anche più. Quando Ciccio glielo consente cucina lui. Ma Ciccio, ingrato, non è mai soddisfatto. Michele si mangia la frutta nella limba. Micucccio, ricorda le cose che ha fatto quando era alla guida dell’amministrazione comunale. E si sofferma sui particolari. Tutti in piazza, arrivati in macchina, anche se loro case distano dall’unica panchina centinaia di metri. Poi sul lungomare. Per? “ U cameduzzu i focu”, e per la festa dell’Immacolata, la cui effigie dai pescatori viene portata in acqua per benedire il pescato, o di Santa Barbara. Le due uniche feste che, nel luogo dell’anima tengono banco. E trenta giorni passano così, con noi che ci divertiamo con poco. Senza lussi, senza Briatore, senza balli, ma solo revocando quel passato che non torna più. Nemmeno quello del Lido La Playa, dovuto ai fratelli Loiacono, che è stata la stagione dei nostri amori estivi. Insomma, aveva ragione Cesare Pavese nella “Luna e i falò”: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che, anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

(Gregorio Corigliano, giornalista e scrittore, è stato caporedattore RAI a Cosenza)