La petizione pubblica per intitolare l’Aeroporto di Lamezia a Corrado Alvaro

Venerdì 17 marzo, alle 11.30, in Consiglio regionale, saranno presentati i risultati della petizione per intitolare l’aeroporto di Lamezia Terme a Corrado Alvaro. L’iniziativa è promossa da Gianluca Passarelli, prof. ordinario alla Sapienza, e da Paride Leporace, giornalista e scrittore.

L’appello (allegato) è stato pubblicato dai principali giornali e siti calabresi nonché da siti nazionali, raccogliendo l’adesione di firme di celebri scrittori, prestigiosi intellettuali, esponenti della politica, cittadini amanti di Alvaro e della Calabria.

«I luoghi esprimono simboli e quindi significati, identità e storie – si legge nella petizione –. Gli aeroporti, come le stazioni dei treni, sono spesso “non-luoghi”, dove lo spaesamento individuale è accentuato. In assenza di riferimenti storico-sociali-culturali definiti, identificati, riconosciuti e riconoscibili, la a-spazialità accentua processi di depauperamento civico e sociale».

«L’àtopon, un luogo di ciò che è senza luogo – si legge ancora – diventi toponimo di una comunità spaesata, ma che cerca riferimenti collettivi. Non si tratta di mera metonimia, di maquillage, di marketing dei luoghi. Viceversa, l’intento è proprio sottrarre al vuoto dei codici, delle etichette campaniliste o delle sigle fantasiose, quanto dovrebbe richiamare immediatamente, ossia senza intermediazioni e subito, il senso di appartenenza e la comune identità. Da rivendicare con orgoglio, senza chauvinismo, tanto più essa sia capace di “viaggiare nello spazio e nel tempo”».

«Corrado Alvaro, i suoi scritti, le sue parole, rappresentano il più alto esempio di quella “calabresitudine” alta da riaffermare – continua il testo della petizione –. Consacrare un luogo quale l’aeroporto principale della Regione, alla figura nobile, prestigiosa e illustre di Alvaro, rappresenterebbe un segnale assai positivo».

«Scrivendo della sua Calabria – viene ricordato – Alvaro descriveva un luogo di transito, una stazione ferroviaria: “Ci trovavamo sul marciapiedi della stazione d’una linea secondaria, in attesa del treno, cioè dell’elettro treno, come si chiama. C’era qualche studente che tornava a casa dall’esame sbrigato presto, un prete, giovani professionisti, avvocati attempati e vecchi notai che andavano alle loro visite settimanali della clientela di provincia, qualche coppia di sposi, di cui una vestita di nero, la donna stretta in una guaina che faceva risaltare la pelle d’un bianco di camelia”».

«Basta sostituire treno con aereo per vedere con gli occhi e con l’immaginazione il grande traffico di persone, storie, cose che transitano quotidianamente in aeroporto. Secondo Alvaro «… il calabrese “vuole essere parlato”. Bisogna parlargli come a un uomo che ha sentimenti, doveri, bisogni, affetti: insomma, come a un uomo.» Anche la Calabria ha un particolare bisogno di essere parlata, e vuole che si parli di Lei attraverso il suo figlio più prodigioso. Confidiamo che presto il nome di Alvaro viaggi da e per l’aeroporto principale quale veicolo di cultura e identità», conclude la petizione. (rcz)

SEGNO D’IDENTITÀ CULTURALE: S’INTITOLI
AEROPORTO LAMEZIA A CORRADO ALVARO

di PARIDE LEPORACE e GIANLUCA PASSARELLI – Oltre 200 persone hanno firmato la petizione promossa da me e dal docente universitario Gianluca Passarelli, petizione che chiede di intitolare l’aeroporto di Lamezia Terme a Corrado Alvaro.
L’aeroporto è intitolato a Santa Eufemia, e con il rispetto che si deve ai santi, ci sembra in realtà più che una scelta che tiene conto di un sentimento di fede, un omaggio legato al quartiere dove fu realizzata la struttura. Una dicitura iperlocalista e mai entrata nell’immaginario collettivo di calabresi e viaggiatori che ignorano il suo toponimo.

La Calabria ha bisogno di segni simbolici unificanti per superare campanilismi che hanno sempre diviso la nostra Regione.
Abbiamo espresso la nostra idea di Alvaro nel nostro appello. Ci conforta che l’idea sia sostenuta dal sindaco di S.Luca Bruno Bartolo, dai giornalisti Matteo Cosenza e Filippo Veltri, da Vito Teti uno dei migliori interpreti di Alvaro nella modernità, dal cantautore Peppe Voltarelli, da Tonino Perna, il quale ha dichiarato: «Credo che Corrado Alvaro rappresenti non solo il più grande scrittore calabrese ma anche un uomo che ha saputo essere fino in fondo calabrese e cittadino del mondo»

Auspichiamo che prosegua la mobilitazione e che sia utile ad un confronto su Corrado Alvaro e sul nostro essere calabresi del XXI secolo.I luoghi esprimono simboli e quindi significati, identità e storie. Gli aeroporti, come le stazioni dei treni, sono spesso “non-luoghi”, dove lo spaesamento individuale è accentuato. In assenza di riferimenti storico-sociali-culturali definiti, identificati, riconosciuti e riconoscibili, la a-spazialità accentua processi di depauperamento civico e sociale.
L’àtopon, un luogo di ciò che è senza luogo, diventi toponimo di una comunità spaesata, ma che cerca riferimenti collettivi.
Non si tratta di mera metonimia, di maquillage, di marketing dei luoghi. Viceversa, l’intento è proprio sottrarre al vuoto dei codici, delle etichette campaniliste o delle sigle fantasiose, quanto dovrebbe richiamare immediatamente, ossia senza intermediazioni e subito, il senso di appartenenza e la comune identità. Da rivendicare con orgoglio, senza chauvinismo, tanto più essa sia capace di “viaggiare nello spazio e nel tempo”.

Corrado Alvaro, i suoi scritti, le sue parole, rappresentano il più alto esempio di quella “calabresitudine” alta da riaffermare. Consacrare un luogo quale l’aeroporto principale della Regione, alla figura nobile, prestigiosa e illustre di Alvaro, rappresenterebbe un segnale assai positivo.
Scrivendo della sua Calabria, Alvaro descriveva un luogo di transito, una stazione ferroviaria: «Ci trovavamo sul marciapiedi della stazione d’una linea secondaria, in attesa del treno, cioè dell’elettro-treno, come si chiama. C’era qualche studente che tornava a casa dall’esame sbrigato presto, un prete, giovani professionisti, avvocati attempati e vecchi notai che andavano alle loro visite settimanali della clientela di provincia, qualche coppia di sposi, di cui una vestita di nero, la donna stretta in una guaina che faceva risaltare la pelle d’un bianco di camelia».

Basta sostituire treno con aereo per vedere con gli occhi e con l’immaginazione il grande traffico di persone, storie, cose che transitano quotidianamente in aeroporto.
Secondo Alvaro «…il calabrese “vuole essere parlato”. Bisogna parlargli come a un uomo che ha sentimenti, doveri, bisogni, affetti: insomma, come a un uomo».
Anche la Calabria ha un particolare bisogno di essere parlata, e vuole che si parli di Lei attraverso il suo figlio più prodigioso.

Confidiamo che presto il nome di Alvaro viaggi da e per l’aeroporto principale della regione quale veicolo di cultura, identità. (ple – gp)

CHI VOLESSE ADERIRE FIRMI QUI: https://www.change.org/p/intitolazione-a-corrado-alvaro-dell-aeroporto-di-lamezia-terme?redirect=false

 

IL RICORDO / Giusy Staropoli Calafati: l’11 giugno di 66 anni fa moriva Corrado Alvaro

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – L’11 giugno 1956, esattamente 66 anni fa, in una notte di pioggia battente sopra i tetti di Roma, quasi al principiare dell’estate capitolina, moriva nella sua casa di piazza di Spagna, Vicolo del Botttino n. 10, lo scrittore di San Luca, Corrado Alvaro. All’età di 61 anni, nel pieno della maturità umana e letteraria, ci lasciava uno dei più grandi autori del ‘900 italiano ed europeo. Quasi una vita dietro l’uomo e le parole dell’uomo, il suo nesso tra l’essere e il non essere, la convivialità tra la terra e il cielo, le affinità tra le radici e i frutti. Il paese che trattiene e la città che chiama, il conflitto tra la civiltà contadina sospesa e opprimente e il progresso attivo e galoppante. 

“E ora che gran parte della vita è vissuta, che cosa ti dirò ancora per ingannarti? Ma che cosa dirò per ingannare me stesso? Perché certamente ho ingannato non soltanto te, ma anche me. Senza volerlo, s’intende. Non avrei mai potuto pensare che ci sarebbe toccato di vivere al tramonto d’un mondo. Proprio, ti chiedo scusa. Certo è ridicolo che io ti chieda scusa del tempo, del secolo, dell’epoca, del mondo come va. Ma ogni uomo è responsabile del suo tempo”.  

Alvaro colpito da un brutto male, si spegne nel centro del mondo, a Roma, Caput Mundi, lontano dalla sua Calabria, in città, distante dal suo paese. Ma il paese per quelli come Alvaro è il mondo. Le radici, le uniche sole lenti per poterlo osservare. 

Non soffre i finali, Corrado Alvaro, nella vita come nei suoi scritti è sempre reale, affronta, non fugge, e si affida al tempo ovunque egli decide di far traghettare i corpi e le anime che in essi vivono. 

La notte dell’11 giugno del ‘56, è una lunga notte. Piove su Roma, accanto allo scrittore morente, Cristina Campo, la donna(poetessa e scrittirce) che con Alvaro stringe una forte e intensa amicizia proprio negli ultimi mesi della sua vita, a ridosso dell’aspettata morte. È ella infatti che lo accompagna al trapasso. È Cristina che veglia Alvaro disteso nel suo letto, in attesa insieme a lui che la sua “quasi una vita” si faccia “una vita intera”.

Il 28 maggio del ’56 Cristina Campo scrive alla sua amica Margherita Pieracci: “Cara Mita […] Alvaro non sta né meglio né peggio. Vado ogni giorno a vederlo. Spesso l’affidano a me, nel pomeriggio. Non parla che poco, ma ci intendiamo con gli occhi. Ciò che riesce a dire è importante. […] Anch’io gli dico certe cose. Spesso lo faccio ridere: e quando ride chiude gli occhi ed è bello. – come un intaglio cinese – quelle poche parole che dice sono scelte, da scrittori. Quando gli do un sorso d’acqua e gli chiedo se è fresca mi sussurra: ‘Perfetta’… Dorme con un sorriso un po’ ironico, sapiente. Io, nella poltrona, leggo un suo libro. Da un lato il corpo, assopito, lontano. Dall’altra lo spirito appassionato che parla. Tutto è come un papiro lacerato, un frammento: lo spazio vuoto terza dimensione e ciò che rimane di una eloquenza, una forza da far tremare”.

Alvaro aspetta il suo turno. È come un bosso. Il legno duro e compatto, simbolo della fermezza, della perseveranza e dell’immortalità. Il simbolo perfetto del ciclo della vita. 

La malattia che lo logora è tutto ciò che Dio ora ha dirgli. Almeno così sembra. Egli lo ascolta Dio, fa tesoro dei suoi misteriosi sussurri, dei miti e suggestivi racconti, dei soffi che gli attraversano il corpo a tratti già spento. 

Alvaro, come ogni uomo malato, anche ad occhi chiusi, rivede tutta la sua vita, domandandosi per cosa sia stato punito. E va alla ricerca dei suoi errori e delle sue colpe. È un uomo, ed è nell’ultimo atto lecito delle domande che contempla la sua esistenza. 

Scrive Leonida Repaci nell’Omaggio a Corrado Alvaro a un anno della sua morte: […] Questi grandi spiriti non si lascian chiudere nelle tombe, ma sono liberi di prendere qualunque forma, montagna mare stella vigna ulivo quercia. Diventa natura e canto, erba e luce, risacca bionda e stormire di ulivo alla brezza che viene dal mare. […] Egli farà la croce sul pane che esce caldo dal forno, si chinerà sulla culla a sorridere al bambino che nasce. Poi il giorno che la Calabria-madre si sveglierà dal suo incubo, si vedranno le foreste camminare ingemmate e immemori dell’antico incendio di Antonello. Tra queste foreste in prima fila, quercia o ulivo secolare, sarà Alvaro. Al canto della terra risorta egli unirà la sua voce fatta di un verde sussurrio di foglie.”

66 anni fa, quando la pioggia batteva in notturna sui tetti di Roma, come fosse un lungo applauso alla notte di Medea, Alvaro lascia le sue mani ormai appassite in quelle ancora giovani di Cristina Campo, e saluta la vita. 

[…] Ero là tutta l’ultima notte, per molte ore sola con lui. La Signora, quella notte, non era in grado di assisterlo. Ebbe il grande eroismo (per una donna della sua tempra) di rimanere quasi sempre distesa, nella sua stanza, pregando. Fu una notte molto lunga ho ancora negli orecchi il brusio della pioggia e il tuono del suo respiro fino alle 4,50. […] Non so dirle se n’è andato sereno. Dalle 20,30 non era più cosciente (non almeno alla nostra presenza). Se n’è andato ad occhi chiusi, dopo una lotta che appariva una suprema concentrazione. […] Aveva quando è spirato, la febbre a 41,7. Lo tenevo tra le mie braccia, già esanime mentre la donna che ci aiutava gli infilava il pigiama azzurro: e ancora bruciava, bruciava tutto come i bambini che dormono con la febbre…

All’alba era tutto in ordine. La signora ha potuto vederlo nella sua bellezza, giovane come ai tempi del loro matrimonio. Lo ricopriva una coperta bianca, il sole giocava fra le rose del comodino. […] “Come un luogo sacro e amato, qualcosa di terribile e maestoso che ci ha fatto soffrire…”. La Signora lo baciava sulle labbra, gli diceva con un sorriso: arrivederci caro.”

La nenia della Campo per Alvaro come quella di mamma Antonia per il figlio Corrado. Roma piccina e raccolta sotto il cupolone, come San Luca appoggiata sulla schiena della montagna. I colli come l’Aspromonte. Il cielo lo stesso su entrambi. La morte identica in ogni parte di essi.

[…] E quando l’uomo non troverà un nuovo sapore, non farà una nuova scoperta, in ogni suo atto, quando d’ogni sua azione prevederà l’esito finale, allora la vita è veramente finita, allora è la morte. (c.a.)

L’11 giugno del 1956, la Calabria perde con Alvaro, di tutte le sue cime, la più alta (Leonida Repaci). Il mondo perde l’uomo mediterraneo e lo scrittore europeo. 

Ieri era l’11 di giugno. Nessuna “Requiem si primavera”. Ricordo Alvaro nella sua dimensione di uomo e di intellettuale, di scrittore, di drammaturgo, regista e giornalista. E mi rattrista non tanto l’assenza fisica a cui la sua opera letteraria ben supplisce (uno scrittore non muore mai), quanto la consapevolezza che egli continuerà a morire l’11 giugno di ogni anno, fino a quando a ricordarlo, oltre i riconoscenti e gli estimatori, non sarà la scuola italiana, inserendolo tra gli autori del ‘900 da far studiare ai nostri ragazzi nei programmi di letteratura italiana. 

Finalmente, disse, potrò parlare con la Giustizia. Ché ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio. (da Gente in Aspromonte)

(gsc)

LA CALABRIA HA UN CUORE E QUESTO BATTE
A SAN LUCA NEL NOME DI CORRADO ALVARO

«San Luca torna finalmente a essere la patria di Corrado Alvaro e null’altro. Un punto di riferimento fermo, da dove originano importanti stagioni di pensiero». Così la scrittrice calabrese, Giusy Staropoli Calafati, sulla sua pagina Facebook, riferendosi alla piccola cittadina aspromontana che diede i natali a uno de più grandi scrittori italiani ed europei del ‘900. 

Giusy Staropoli, racconta, come fosse una pagina di diario, il suo primo viaggio a San Luca. Una narrazione intensa in cui viene sviscerato l’amore per la Calabria che, nel paese di Alvaro, secondo la scrittrice vibonese, trova il suo completamento. Il sindaco Bruno Bartolo e la sua amministrazione, rimangono rapiti dalle parole usate dalla scrittrice nei confronti della città alvariana. 

Se la Calabria ha un cuore questo batte a San Luca. Qui nacque Corrado Alvaro.

L’amministrazione, guidata da Bruno Bartolo,  infatti, già a lavoro per ridare un volto nuovo alla città, spesso sfregiata da stereotipi e pregiudizi, fa propria la frase di Giusy Staropoli Calafati, inserendola nella cartellonistica che da qualche giorno campeggia all’ingresso del paese. Scommettere su Alvaro, significa credere in una rinascita collettiva, culturale e di pensiero, possibile. San Luca vuole giocarsi tutto. E scommette su sé stessa.

Giusy Staropoli Calafati, pioniera della letteratura calabrese, impegnata da anni nella diffusione del pensiero e delle opere dei più grandi autori del ‘900, promotrice del Manifesto per lo studio nella scuola italiana degli autori calabresi, da Corrado Alvaro a Saverio Strati, rappresenta per la Calabria un punto di riferimento importante, centrale, per la ricoperta identitaria attraverso il pensiero, la poetica e le opere dei più importanti geni letterari calabresi. 

Attraverso la frase della Staropoli, Corrado Alvaro torna, dunque, a San Luca, con la consapevolezza della sua gente, come pensiero, idea, progetto, identità. E se serviva un punto preciso da cui ripartire, finalmente, crediamo sia stato trovato. 

«Alvaro deve tornare sui banchi di scuola – dice Giusy Staropoli Calafati –. Ne hanno bisogno la Calabria e l’Italia. Vinceremo insieme questa battaglia. Per il bene di tutti. Partendo da San Luca verso il resto del mondo. Dove, se servirà, pianteremo altri cartelli come fossero bandiere»

“Nella mia infanzia, fino a nove anni, al mio paese sono stato felice. Il paese mi pareva grande, mi pareva tutto il mondo”. (Corrado Alvaro). (aer)

Con la scrittrice Giusy Staropoli Calafati sulle tracce di Corrado Alvaro

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI  – Raggiugo San Luca in auto. Attraversate le prime case, arrivo davanti al palazzo comunale. In cima  all’edificio sventolano le bandiere dell’Italia e dell’Europa. Ve ne fosse stata una per il Mediterraneo, sono certa l’avrei trovata lì a fluttuare insieme alle altre.

Il sole perfora le pietre. La prima quindicina di Luglio fa sudare sempre le camicie. La Calabria non si smentisce. La calura della montagna supera l’afa del mare. San Luca si presenta così, cotta e cocente. Accatastata nuda sotto il cielo. Con la temperatura altissima del ventre gravido delle madri in travaglio, e quella della pancia piena dell’Aspromonte. Con la felce e il leccio, il pino nero e il faggio.

Avevo atteso questo giorno da sempre. E nell’attesa che contempla il viaggio, sempre lo avevo elaborato nella mia mente e nel mio cuore con carichi suggestivi e intimi di immaginazione ed emozionale creatività, su ciò che vi avrei trovato. Su chi vi avrei incontrato. Sui fatti che avrei ascoltato e ogni cosa che mi avrebbe sorpreso. E lo avevo fatto percorrendo a occhi chiusi le vie più strette e più piccole, sentendo venir da lontano le voci delle donne che erano quasi tutte madri, e soprattutto illustrando a me stessa, come fosse un’anteprima fotografico, le gradinate che mi avrebbero condotta laddove sulla cartina geografica che accompagnava il mio viaggio, era stato posto un cerchio rosso per indicarvi la meta.

La casa comunale di San Luca era stata ripopolata dai suoi uomini dopo anni di perforante vuoto, e altrettanti in cui i sanluchesi si erano lasciati trascinate nell’oblio, dalla gratuità del pregiudizio del resto del mondo, che di questa gente era stato in grado di annientare sogni e  speranze. Da San Luca tanti erano partiti, e l’assenza ancora pesava, e le porte chiuse a tratti impedivano addirittura di respirare, ma altrettanti avevano deciso di restare. 

Perché non c’è terra più abbondante di quella del paese, che se tanto la scarti in Patria te la ritrovi altrove.  Ed erano anziani ed erano bambini. E io vi ho trovati gli uni e gli altri. Gli uni con l’umanità nello sguardo, gli altri con sorrisi eccitati verso un futuro a cui nessuno intende più rinunciare.

A ricevermi il sindaco Bartolo.

Un uomo alto appena un palmo e mezzo della mano, con la geografia del suo paese scolpita sopra il suo volto. Una mappa di rughe aggrovigliate e di solchi, pari a quelli che il tempo aveva disegnato sopra il viso bruno di Corrado Alvaro. Segni di devozione e di fede a quella civiltà contadina a cui San Luca, attraversandola, sentivo non aveva mai rinunciato.

Il rispetto che avverto nei miei confronti, non è un prodotto tipico dei luoghi, ma un sentimento che gli uomini e le donne del paese nutrono verso la vita.  Mi sento a casa. Accolta come quando torno da mia madre.  San Luca è la casa del Mediterraneo e dell’ Europa. Una finestra sempre aperta sopra il mondo.

La tempra dei suoi uomini non mi sorprende.  È la stessa della mia terra. Di quella Calabria che non frammenta i luoghi, ma li appunta tutti, come accade con le medaglie al valore sopra il petto degli uomini, su quella tela che da secoli fila anch’ella come la bella Penelope.

San Luca è una nuova Itaca. Il mio viaggio non è un semplice viaggio di andata verso il paese, ma una sorta di necessario ritorno a casa.

Dopo l’accoglienza istituzionale, lascio la casa comunale. La vera San Luca non è lì che dimora. Bisogna raggiungere il cuore del paese. È qui che batte il muscolo vitale della mia terra.

San Luca è stretta, intima e silenziosa. Non pronuncia verbo. Osserva, ma soprattutto ascolta. Mi segue, anzi maternamente mi accompagna.

Raggiungo la chiesa. Il centro del paese è tutto qui. Qui è cominciato tutto.  Mi ero documentata. Il 18 ottobre del 1592, un evento alluvionale catastrofico aveva colpito Potamìa, e le 57 famiglie superstiti avevano raggiunto questo lembo di terra, posto al centro tra la fiumara Bonamico e la Santa Venere, e proprio nel giorno in cui la chiesa venerava il suo terzo evangelista, San Luca.

Una piccola piazzuola governa lo spazio esterno della chiesa. I mie occhi però cadono a destra dell’edificio sacro. Vi scorgo una casa alta quanto una torre. E a sinistra dei balconi, un’epigrafe marmorea: “Qui nacque Corrado Alvaro”.

Lascio andare avanti il sindaco e tutti quelli che sono con me. “Arrivo subito”, dico. Invece mi attardo sulle scale antistanti la casa. Ho bisogno di stare un attimo da sola. Concedermi proprio qui, in questo momento, l’intimità di uno spazio. L’emozione è forte. Il sentimento che provo, un misto perfetto di orgoglio e senso altissimo dell’onore.

Corrado Alvaro è la Calabria che ho dentro di me da sempre. Mi sento come le sue spose: una gentile colomba.

Il nome di Alvaro mi appare come un segno distintivo identitario che non è solo di San Luca, ma di tutta la Calabria. Perchè se la Calabria ha un cuore questo batte a San Luca. Un nido appoggiato sulla schiena della montagna, dove l’Aspromonte è un sentimento narrato dalle storie degli uomini.

Dove abitano ancora il passato, il presente e il futuro della Calabria. E dove ancora restano gelosamente custodite le verità di una terra amabile della quale Corrado Alvaro fece delle buone lenti per guardare il mondo. 

Se solo la Calabria riconoscesse in questo nido aspromontano, il dolore e la passione dell’uomo ramingo del meridione, ecco che sì, si potrebbe parlare di rivoluzione. 

A San Luca si devono la vita e la morte della Calabria. Eppure si dimentica spesso che il cielo sopra questa montagna è lo stesso cielo è trapunto di stelle altrove. E che la vita qui non è un alibi ma un destino. 

Se il figlio del maestro Antonio, per esempio, non fosse nato al paese, non sarebbe divenuto un uomo d’Europa. E il Mediterraneo non avrebbe conosciuto mai il suo paese. Certo non è mai stata bella la vita dei pastori in Aspromonte, ma vi sono stati e vi sono ancora, anche qui, padri come quello di Alvaro, a cui Iddio oltre che l’intelligenza ha donato l’ingegno e il dono del discernimento. E all’arresa, a cui il disagio sociale spesso condanna, non si sono mai piegati. Alvaro nasce dalla rivoluzione del padre. In un mutamento a cui Antonio punta per i suoi figli ma anche per il resto del paese. La montagna doveva poter dare speranza, aprire varchi, e non chiudere sentieri o seppellire i resti dei suoi corpi nei greti dei fiumi. 

Mio padre, sosteneva Alvaro, fu a ogni modo l’uomo che diede l’avvio, nel mio paese, alla fuga per mutare condizione. […] Il paese era abituato all’emigrazione. […] Ma un’emigrazione intellettuale nessuno l’aveva mai pensata. 

E fu lui la prima intelligenza a prendere un treno di lungo viaggio. Dalla periferia fitta della sua San Luca, allo spazio indefinito della città di Frascati. In un collegio di Gesuiti, la cui dottrina impartitagli contribuisce parimenti allo studio sui libri, alla formazione dell’uomo e dello scrittore. Dell’uomo Europeo e dello scrittore Mediterraneo. Luoghi sulle cui sponde viaggerà in maniera indefinita la vicenda letteraria dello scrittore di San Luca.

Alvaro lascia San Luca “per sempre” a soli dieci anni. Ritornerà per la morte del padre nel 1941. Dopo, mai più. Durante le sue visite al fratello prete e alla madre anziana, preferisce osservare il paese al di qua della Bonamico. Ed è proprio a Saverio Strati, all’epoca ancora giovane studente universitario, che Alvaro si confessa su questa difficile scelta, in un incontro tra i due, avvenuto a Caraffa del Bianco.

“È da molto che non va al suo paese?”, gli chiede Strati.

E Alvaro risponde: “E’ da molti anni, né ci voglio mai più tornare… Ho un bel ricordo di quel paese, e non mi piace sciuparlo. Lì sono stato felice, durante la mia fanciullezza, e desidero conservare per sempre questo ricordo”.  

Nonostante oggi Alvaro manchi fisicamente dal mondo da tanti anni, e quest’anno sono già 70 dalla pubblicazione di Gente in Aspromonte, io a San Luca, ho ritrovato l’Alvaro perduto. 

Ci sono Sud che vanno visti per essere compresi. Vanno affrontati per essere capititi, facendoli diventare perfetti affluenti nel fiume del mondo. E San Luca non è solo Sud, ma è mondo. Ed è qui che io ho compreso che non vi è più tempo da perdere. Antonello, di Gente in Aspromonte, è stato ascoltato dai carabinieri, ma forse non parlato per bene, come voleva Alvaro. E allora non resta che prendere oggi, la parola, per conto suo. Per conto di quella San Luca che va assolutamente riconosciuta luogo di tutti e non terra di ‘ndrangheta. Condannando non solo il disagio sociale che porta Antonello a commettere il fatto pur di vedere lo Stato mettere piede dalle sue parti, ma la  società, soprattutto politica, che non offre occasioni e non concede scelta. Ricordando che se a San Luca vive ancora Antonello dell’Argirò, al di fuori vaneggia tutta la società miserabile.

Il mio viaggio nella San Luca di Alvaro, è stato un’esperienza che mai dimenticherò, anzi che spero di replicare tante altre volte. 

Grazie alla città di San Luca per la straordinaria accoglienza; al sindaco Bartolo per la disponibilità, all’assessore Cosmo per il sostegno, a Sebastiano Romeo della Fondazione Alvaro per esserci stato e per i doni preziosi di cui ha voluto omaggiarmi. A Corrado Alvaro, maestro e padre di questa terra, il mio grazie più grande, per avermi permesso, in punta di piedi, di entrare nella casa della sua fanciullezza ed avermi parlato nel silenzio di quasi una vita. Con le mie dita a sfioro con le sue, su quella vecchia macchina da scrivere nera e miracolosa. (gsc)

Nucera: Corrado Alvaro sia presente nelle scuole d’Italia

«Corrado Alvaro deve essere presente nei testi scolastici delle scuole calabresi e di tutta Italia». È quanto ha dichiarato Giuseppe Nucera, leader del movimento La Calabria che vogliamo, che ha raccolto l’appello della scrittrice Giusy Staropoli Calafati e si è rivolto alla Regione Calabria, chiedendo di  dare «spazio a chi ha onorato la storia della Calabria e insegniamo ai nostri giovani chi sono le eccellenze culturali della nostra terra. La storia e le opere di Corrado Alvaro non possono rimanere nascoste e quasi sconosciute alle giovani generazioni».

Nucera, infatti, accompagnato dalla Calafati, nei giorni scorsi era a San Luca, dove ha incontrato il primo cittadino, Bruno Bartolo, insieme ad alcuni consiglieri ed assessori comunali. Nucera e Calafati hanno visitato la casa di Corrado Alvaro, luogo simbolo dello scrittore, nato proprio a San Luca.

Garantire risalto alla figura di Corrado Alvaro nelle scuole di tutta Italia e offrire sostegno alla società calcistica del San Luca, alle prese con fase particolarmente momento difficile. Questi i temi alla base del dialogo avuto da Giuseppe Nucera con il sindaco Bartolo.

Per Nucera, infatti, «La società calcistica del San Luca, dopo aver ottenuto il prestigioso traguardo della serie D e aver difeso con orgoglio la categoria, è stata consegnata all’amministrazione comunale».

Giuseppe Nucera, quindi, invita la popolazione calabrese ad offrire sostegno nei confronti del club giallorosso.

«Lo sport mette assieme le migliori energie – ha detto ancora Nucera –. Tutti i risultati sono raggiungibili quando si mettono in campo passione, orgoglio e caparbietà. Lo abbiamo visto in questi giorni con la Nazionale italiana di calcio, lo stesso è avvenuto in questi anni a San Luca. Questo patrimonio di valori umani e sociali non va assolutamente disperso».

«Da imprenditore e cittadino calabrese – ha concluso Nucera – farò il mio dovere, invito tutti a fare lo stesso e offrire un contributo alla causa calcistica di San Luca. Teniamo alta la bandiera del club giallorosso, non lasciamo soli i giovani e gli sportivi di San Luca, una cittadina che con orgoglio guarda al futuro con la volontà di proseguire nella crescita sociale ed economica». (ig)

L’11 giugno di 65 anni fa moriva Corrado Alvaro uno dei più grandi scrittori del ‘900

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – L’11 di giugno, ogni anno, si ricorda  la morte di uno dei più grandi scrittori italiani del ‘900, Corrado Alvaro. Nel 1956, Alvaro, consumato da un brutto male, moriva nella sua casa romana, lontano dalla Calabria, dalla quale, nonostante tutto, non aveva levato mai lo sguardo

 L’aspromontano, l’uomo del mondo. Il padre di “Gente in Aspromonte”, il figlio del maestro Antonio. 

Se solo Antonio Alvaro, non fosse stato un maestro elementare, forse suo figlio Corrado non sarebbe diventato uno scrittore. La Calabria ha spesso accoppiato il destino dei figli a quello dei padri, e con Alvaro non si è affatto risparmiata. Ha reso, anzi, alla letteratura mondiale, il suo più grande riconoscimento, consegnandogli un grande genio delle lettere.

In Aspromonte, la montagna dei pastori e dei torrenti, Antonio Alvaro aveva fondato una scuola serale per contadini e analfabeti, e proprio da lui, il figlio ricevette la prima istruzione. Corrado doveva imparare dai libri, e acquisire conoscenza e capacità dallo studio. Dalla sua formazione sarebbe dipesa la sua vita. E Antonio, che l’Aspromonte lo aveva sofferto e anche sopportato, lo sapeva bene. Gli studi andavano dunque approfonditi. Portati decisamente a termine.

Concluse le scuole primarie, a soli dieci anni, il piccolo Alvaro intraprende il primo grande viaggio della sua vita. Una partenza che diviene assoluta metafora, dell’ancora tanto attuale viaggio che i giovani calabresi intraprendono oltre regione per garantirsi quel futuro che, da allora ad oggi, la Calabria non è ancora in grado di promettere a nessuno. Antonio vuole che Corrado continui gli studi. L’istruzione impartitagli, non era che il punto di partenza, di un percorso che, nel giovane figlio, avrebbe dovuto innestare il processo necessario atto alla crescita forte, dell’uomo che si accingeva a diventare. 

A Frascati, nel Lazio,  vi era un prestigioso collegio gestito dai Gesuiti. Un centro di studi prestigioso, in grado di garantire al giovane Corrado ciò che suo padre Antonio sperava e sognava per lui.

Il Collegio Mondragone, era un realtà d’eccellenza nel panorama scolastico italiano. Dal 1865, ospitava studenti. Anche Corrado Alvaro, che al collegio Mondragone deve l’approfondimento della sua formazione.

Ma quanto e cosa si conosce della vita di Alvaro ai tempi di Mondragone? Chi frequentava Corrado? E cosa rappresentò per lui quell’esperienza?

Ci sono alcuni aspetti inediti della vita dello scrittore sanluchese, risalenti all’epoca collegiale, che rendono omaggio soprattutto al giovane Corrado e alle sue prime tenere amicizie. Aneddoti sconosciuti fino ad ora, ma che testimoniano quanto, a Mondragone, Corrado Alvaro visse, nonostante la nostalgica lontananza dal pese, un periodo felice e indimenticabile della sua vita. 

Il collegio che ospitò Alvaro, oggi non esiste più. L’attività di Mondragone cessò nel 1953. Ma a Frascati, vive Emanuela Bruni (giornalista e scrittrice, prima donna capo del cerimoniale di Stato – Presidenza del Consiglio dei Ministri), che insieme alla sua famiglia, è custode di tracce importanti, della presenza di Corrado Alvaro tra gli studenti di Mondragone. 

L’incontro con Emanuela è capitato. Non ci siamo cercate, ma ci siamo trovate. Trovate e parlate di Alvaro. Il giovane che per anni frequentò la casa della sua famiglia, a Frascati.

Emanuela vive a tutt’oggi, nei luoghi di alvariana memoria. E in lei riaffiorano spesso i ricordi custoditi nei racconti familiari con cui le veniva narrato il rapporto tra il giovane Alvaro e la famiglia Ambrogioni-Celli.

Alvaro, come egli stesso scrive in un articolo del Corriere della Sera del ’54, a Mondragone era un semplice convittore. Egli infatti frequentava il collegio esclusivamente nelle ore scolastiche, e soggiornava poi nel palazzo di fronte la casa di Maria Ambrogioni, bisnonna di Emanuela, la quale avrà un ruolo affettivo importante nella vita del giovane calabrese. 

Antonio Alvaro, essendo a conoscenza dei rapporti che il figlio, aveva soprattutto con la signora Maria, si mostrò sempre riconoscente agli Ambrogioni-Celli. In una lettera, risalente circa al 1909, egli stesso ringrazia Maria per il trattamento riservato al figlio, e per essere stata per Corrado, e per altri figlioletti studenti come lui, quasi una madre.

Emanuela, di quegli incontri così datati con il giovane Alvaro, certamente non è testimone diretta,   ma i racconti che dalle figlie di Maria, le venivano narrati, quando era bambina, l’hanno sempre resa partecipe di questa storia. Seppure le prozie, sorelle della nonna, compagne di gioco di Corrado Alvaro, quando Emanuela era bambina, oramai anziane, andavano mano mano morendo.

Di tracce del rapporto di Alvaro con i giovani e le giovani di casa Ambrogioni-Celli, ne esistono ancora. Alcune risalgono all’incirca al 1936/1937. Allora, Alvaro, inviò al suo amico Gaetano Celli, figlio di Maria, e prozio di Emanuela, uno scritto breve (che la famiglia Celli conserva ancora) in cui si dice molto dispiaciuto per la perdita della cara signora Maria, alla quale Alvaro si sentiva molto affezionato.

Ma c’è una storia nella storia che, nonostante tutto, Emanuela non dimentica, e porta impressa nelle sua mente. Un racconto fatto proprio dalle sue prozie, e confermato poi anche dalla nonna. Tramandato a tutti come la leggenda di casa Ambrogioni- Celli.

Il giovane Corrado si era perdutamente innamorato di una delle figlie di Maria. La giovane si chiamava Ester. A ella, lo studente di Mondragone, scriveva spesso lettere molto innamorate. Di un amore puro e fanciullo, libero e liberale. Un’infatuazione di cui Alvaro lascia anche traccia, in una delle sue opere letterarie più importanti. Ne L’Età Breve infatti, Alvaro, narra di una giovane ragazza di cui si innamora a distanza e idealmente, e a cui manda diverse lettere, in cui però a essere riportate non sono esplicite dichiarazione di affetto, ma versi di bellissime poesie, molte delle quali di poeti francesi.

Ma che fine hanno fatto le lettere che il giovane Corrado scriveva a Ester Celli?

Emanuela questo lo sa bene. Di questa seconda parte della storia infatti, seppur bambina, è attiva protagonista. 

Quando morì Ester, Emanuela aveva solo 10/11 anni. Troppo piccola forse per comprendere bene certe cose, ma grande abbastanza per ricordarne altre. Che se l’inizio della leggenda di casa Embrogioni-Celli, le venne raccontato, il finale, lo racconta lei stessa.

Ester, prima di morire, aveva affidato le sue ultime volontà alla governante di casa. Una donna molto umile e sincera. E di cui ella si fidava molto. Era stata chiara con lei. – Alla mia morte – le aveva detto – dovrai dar fuoco e incenerire tutti i miei documenti. E purtroppo, tra quelle carte, vi erano anche lettere di Corrado Alvaro.

Emanuela ha assistito personalmente al rogo, con la stessa curiosità dei bambini della sua età, ovviamente. Ma c’è un cruccio, che quasi la tormenta. Avrebbe potuto trattenere almeno le lettere che Alvaro aveva scritto a Ester, ma solo se a quell’età non fosse stata ignara di ogni valore storico, culturale e letterario che quegli scritti rappresentavano.

L’amore nella vita dell’uomo può avere tanti volti e tanti nomi. Nella vita di Alvaro ora sappiamo che ebbe anche il volto e il nome di Ester Celli. Magari un passaggio veloce, un sentimento breve, di quelli che ti sfiorano appena, ma che comunque lasciano traccia. 

Mondragone resta dunque il luogo della formazione totale di Corrado Alvaro. È qui che si sviluppa l’uomo. In un luogo che non si fa soltanto meta di studi, ma si pone soprattutto come evoluzione di affetti.  E se per gli amanti di Alvaro, i critici, gli studiosi, Mondragone, resterà per sempre il luogo appassionato degli studi dello scrittore, da oggi, per noi, sarà anche lo sfondo della storia d’amore, tra la bella Ester e il giovane Corrado. 

Ci sono storie intime, come questa, che poterle condividere è bellissimo. E ancora, diventano tracce importanti che sottopongono a nuove analisi critiche i suoi protagonisti Specie quando si tratta di uomini o donne, che hanno fatto la storia dell’Italia. 

Corrado Alvaro, scrisse un pezzo importante della storia del paese. Raccontò la Calabria, l’Europa, ma anche l’uomo nelle sue più assolute necessità, la guerra, il bisogno, la fame, la società, la politica. Ragioni che impongono la conoscenza della sua vita, ma soprattutto della sue opere. Ognuna delle quali, risulta profondamente intrisa di valori, strategie di sopravvivenza, tradizioni, identità. 

Corrado Alvaro scriveva che per conoscere l’Italia, bisogna conoscere l’Italia Meridionale. E oggi, a 65 anni dalla sua morte, da scrittrice e da calabrese, mi piace ricordare, con questo racconto, a me e a voi, che per conoscere la storia e la letteratura italiana, bisogna conoscere Corrado Alvaro.

Ricordare Alvaro, nella quotidianità della vita che scorre e avanza inesorabilmente, in Calabria e anche altrove, è un atto di coraggio, ma soprattutto un’autentica presa di coscienza. Un dovere che va oltre ogni esigenza.  

Mai finirò di ringraziare Emanuela Bruni per aver voluto, in via esclusiva, dare a me e a voi,  lettori di CalabriaLive, l’occasione di conoscere, questo passaggio inedito straordinario della vita di Alvaro, di cui la sua famiglia ne è preziosa custode. 

La vita dei grandi uomini è sempre piena di sorprese, anche lì dove non te le aspetti. Quando pensi di conoscere tutto. Corrado Alvaro ha lasciato al mondo tanto di sé. Da oggi anche il suo fanciullo amore per la bella Ester. (gsc)

GLI INTELLETTUALI CONTRO IL GOVERNO:
CALABRIA È DI NUOVO TERRA DI CONQUISTA

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Egregio Presidente Conte, scrivo da una regione la cui tunica viene giocata a sorte per l’ennesima volta. E le folle insistono a voler scegliere Barabba, a conferma che Cristo davvero si è fermato a Eboli.

La Calabria ancora una volta terra di conquista. Si continua a succhiarle il sangue da ogni parte del suo corpo nudo, mentre con occhi fragili e agonizzante, chiede aiuto. Si vuol rendere sazio solo chi ha sete (di potere, di quattrini e di vendetta). Si continua a violentarla con la pratica immorale della ripetizione, senza farle neppure prendere fiato, mentre con voce fioca, grida aiuto. Si vuol soddisfare la smania di chi ha il disio di provar piacere.

Così, nella minimizzazione di una terra voluta sempre serva, ogni atto di violenza carnale alla Magna Grecia, ha il suo complice. E verrà scritto sui libri di storia il suo nome. E saranno più d’uno quelli a cui verrà chiesto il conto. Più d’uno, saranno i banditi pronti a levarle via la purezza degli ulivi, il volo casto della rondine marina, il candore dei bianchi calanchi.

La scrittrice Giusy Staropoli Calafati
La scrittrice Giusy Staropoli Calafati

Dopo che con il nostro sangue abbiam fatto l’Italia, caro Presidente, insistete a volerci privare dei diritti essenziali, calpestandoci la dignità, ed eliminandoci dalla nostra stessa storia. Ma se cadiamo noi, cadrà l’Italia intera. Siamo gli arti inferiori su cui si regge la Nazione. Se si piegano le gambe, viene giù tutto il corpo. Nessuno si salva da solo. Proprio così, nessuno si salva da solo.

Noi, esistiamo, Presidente Conte. I calabresi, esistono. Nell’onestà, nel sacrificio, nel lavoro, dallo Jonio al Tirreno, Dall’Aspromonte al Pollino. Con le forze e le debolezze, i sogni e le speranze. E al contrario di come fece Antonello dell’Argirò, che bene e saggiamente seppe raccontare Corrado Alvaro in Gente in Aspromonte, noi non ce ne staremo più qui, in cima ai monti, o giù per la marina, ad attendere la giustizia, affinché, col tempo suo, decida di arrivare. Le andremo incontro. Oggi più che mai. Perché se la politica, ancora una volta, si arroga il diritto di scegliere tra Gesù e Barabba, e Cristo lo inchioda e Barabba lo libera, il Covid non ce la fa a far differenze. Dove prende, coglie. E se coglie quaggiù, ancor più di quanto già non stia facendo, di scrivere ai postumi non avremmo altro tempo.

Questa è terra nostra, signor Presidente, non di nessuno. Ci avete visti piangere, quando in fila come soldati, alle stazioni, con il fazzoletto in mano, salutavamo i padri, e i parenti, è vero. Ora invece ci vedrete disposti solo a lottare. Nessuno può morire perché qui, tra gli ulivi, non ci sono abbastanza ospedali. Il Re è stato lasciato nudo troppe volte.

Da calabrese vorrei poter dire che Cristo non si è fermato a Eboli. Eppure la bufera che si abbatte sulla mia terra, testimonia che qui forse non vive nessun Dio. Il Governo centrale ci premia con l’invio di commissari su commissari. Cotticelli, Zuccatelli. Ferite sopra le ferite, senza farne rimarginare mai neppure una. E allora bisogna interrompere una volta per tutta la continuità massacrante che da un decennio a questa parte ci ha logorati soprattutto come esseri umani. E proprio per questo, ho deciso di scriverle questa lettera aperta. Perché nessuno di noi può più stare a guardare. Un giorno accadrà che i nostri figli, i figli nostri, ( e con buona grazia del Cielo i miei son quattro) ci chiederanno il conto per ciò che abbiamo fatto. Con qualunque carica abbiamo ricoperto, anche la più banale, o magari la più scontata. E in quel tribunale che sarà il loro futuro, caro signor Presidente, dovremo saper rispondere tutti.

La Calabria va saputa prendere, messa nelle mani di chi ne sa del Sud. Abbiamo uomini e donne che neppure lei immagina. Abbiamo menti, eccellenze, capacità, uomini coraggiosi e incorruttibili. Perché bisogna attingere sempre a graduatorie forestiere riportando in essere, ancora una volta, un programma troppo delineato, già previsto, con cui si arriverà in via definitiva a privare un popolo della sua dignità, e anche della vita? Perché?

A esser servi non ci siamo mai stati, Presidente Conte. Siamo insorti a Melissa, a Reggio Calabria, a Catanzaro. Quando ci mancava la farina, quando ci rubavano le olive, e certe volte anche le terre. A ogni pietra d’inciampo, quando siamo caduti, ci siamo sempre rialzati.

Calabria. In punta allo stivale, ma non al cuore.

Vorrei tanto che per un solo attimo Cesare Pavese, forestiero al confino nella desolata Brancaleone, le dicesse, come fece con sua sorella Maria, chi sono i calabresi e quanto vale la terra di Calabria. Amata e dannata, terra.
Vorrei che glielo dicessero Umberto Zanotti Bianco, Edward Lear, Paolo Orsi. Nessuno può operare, curare, dirigere e tanto meno commissariare una terra che non conosce. Un popolo che poco o niente rispetta. Che non gli è né conoscente, né affine.
Corrado Alvaro diceva il calabrese va parlato, ascoltato, voluto bene. Ma nessuno lo ha fatto. Eppure il maestro insegna e gli allievi imparano. Voi no. Ci avete sempre costretti, per fame, (e ora anche per salute) a essere briganti. A emigrare. E continuate a farlo. A volte con sdegno, altre solo per un piglio. Peggio dei signori (gnuri) che torturavano la vita dei coloni, schiavizzandoli per il pane o magari per la penicillina.
Ma son finiti quei tempi, caro Presidente. È finita l’ignoranza, l’analfabetismo… Ora anche qui ci sono i libri, quelli che li scrivono. Ci sono l’intelligenza, la scelta, le idee, i valori, il coraggio e anche il doppio della lotta di ieri. I Calabresi non ci stanno più alle barbarie di un’Italia che ha sempre approfittato del suo Sud. L’era del latifondo è ormai passata. L’abbiamo combattuta e anche vinta. E ora, questa in cui liberamente vorreste bivaccare, e con maggiore forza di prima lo ribadisco, è terra nostra, non di nessuno.

I Proci hanno finito le risa porche e maledette, e pure la pacchia antica dei calici e del vino. Ulisse torna a Itaca. Ulisse è il nostro orgoglio, caro signor Presidente, Itaca, la nostra terra.

Venite, venite a vedere, a capire, a sentirci parlare, a dirci che da domani non dovremo più soffrire.

Venite a dirlo agli anziani, ai bambini.
Venite a dire ai giovani che possono restare. E che la soluzione non è più partire.
Venite, se ce la fate.
“Sono calabrese, ma sono figlia d’Italia anch’io”.

(gsc)

CALLIPO, LE DIMISSIONI: «L’INUTILE DUBBIO
DI ESSERE ONESTI», COME DICEVA ALVARO

di FRANCESCO RAO – “La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che essere onesti sia inutile”. Così asseriva Corrado Alvaro quando, nel 1947, si dimise dalla direzione di un giornale di Destra, “il Risorgimento di Napoli“, in quanto il personale disaccordo con la linea editoriale non rendeva possibile il protrarsi della collaborazione. Ritenendosi di Sinistra, l’approccio dello scrittore, originario di San Luca, con quella realtà editoriale, era  del tutto inconciliabile.

Nella giornata dedicata ai Santi Pietro e Paolo, le dimissioni annunciate da Pippo Callipo hanno rappresentato un fulmine a ciel sereno. Tutto ciò, dopo pochissimi mesi dalle ultime elezioni regionali è divenuto un pretesto per avviare “sotto gli ombrelloni” una inaspettata discussione politica. Non è mia intenzione entrare nel merito della riflessione praticata dal noto imprenditore Calabrese. Le scelte saranno state più che ponderate. Penso anche che il dibattito avviato, a seguito della diffusione della notizia, rifletta lo stato asimmetrico che attualmente regna nel sistema politico italiano dove è più indispensabile stare sul pezzo, utilizzando slogan che il giorno dopo saranno scaduti e non ricordati più da nessuno che affrontare con determinazione e concretezza le problematiche economiche e sociali dei Cittadini. Nell’esercizio della mia personalissima libertà di pensiero e senza voler dare seguito ad alcuna polemica, seppur non sia stato elettore di Pippo Callipo, riconosco il valore intriso nella scelta che lo stesso ha compiuto, decidendo di volersi dimettere dalla carica di Consigliere regionale della Calabria. Ho letto attentamente le sue motivazioni. Ho anche letto quanto asserisce la maggioranza. Da educatore esprimo un segno di soddisfazione nel vedere lo spessore dei valori manifestati da una persona che nella vita ha coronato i suoi sogni perché la mattina non ha atteso la sveglia per alzarsi dal letto e non ha nemmeno sviluppato il proprio lavoro per mera volontà di essere soltanto ricco.

Nell’etica imprenditoriale di questa persona, è stata da sempre apprezzata la bellezza del rapporto umano, paragonabile a quello di un’azienda di famiglia, dove i collaboratori non sono estranei ma componenti di un nucleo di persone capaci a gioire e soffrire nella stessa misura di come vive ogni gioia e dolore, familiare ed aziendale, il titolare in prima persona. In altri tempi, a fronte di una circostanza analoga, l’atteggiamento del politico sarebbe stata quella di creare ostruzionismo continuando a ricoprire la carica – nel caso di Callipo la permanenza in Consiglio regionale non avrebbe fatto maturare indennità e/o vitalizio -. A questo punto, il fortissimo segnale di un disaccordo palesato dall’ex candidato PD alla carica di Presidente della Regione Calabria, potrebbe anche risiedere nell’aver avvertito le fortissime difficoltà di natura socio-economica, rilevate dallo stesso in questi ultimi mesi a causa dell’emergenza Covid-19. La crescente insofferenza dei Calabresi e le varie vicissitudini personali, vissute nell’esercizio della funzione, con buona probabilità, avranno ferito lo spirito imprenditoriale dell’uomo che avrebbe voluto fare tanto ma, improvvisamente è stato triturato dalla macchina burocratica del sistema ed ha ritenuto percorrere la strada che riporterà lo stesso, al quale è riconducibile il suo nome ad una delle più importanti aziende della Calabria, ad occuparsi ancora di quel mondo che ha saputo premiare un piccolo particolare umano ancora presente in alcune persone che, seppur giunti nel Terzo Millennio, desiderano continuare a difendere la prospettiva della mission ed il peso della vision praticate nella quotidianità semplicemente perché sono parti indivisibili della propria vita come lo è la corazza per la tartaruga.

Adesso tocca ai Calabresi riflettere a lungo su questa vicenda, evitando cortesemente di giudicare. Personalmente, esprimo ammirazione per Pippo Callipo perché ha saputo anteporre a tutto l’identica visione che ebbe Corrado Alvaro quando decise di volersi dimettere da direttore di un giornale per disaccordo.

A volte è difficile comprendere alcuni gesti. Perciò è meglio attendere in silenzio la sentenza del tempo. (fr)

Francesco Rao, è un sociologo e si occupa di formazione e realtà giovanili. È originario di Cittanova

REGGIO – La conferenza su Corrado Alvaro

26 ottobre 2018 – Oggi pomeriggio, a Reggio, presso la biblioteca comunale “Pietro De Nava”, si svolgerà la conferenza dal titolo “Corrado Alvaro, l’uomo calabrese, l’intellettuale europeo: dal San Luca al Sud del Mondo”.
L’evento è stato organizzato dal Centro Internazionale Scrittori della Calabria, nell’ambito del ciclo “Miti e suggestioni nelle grandi voci del Sud del mondo”.
Relaziona Paola Radici Colace, prof. Ordinario di Filologia Classica presso il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università di Messina, e presidente onorario e direttore scientifico del Cis.
Corrado Alvaro (San Luca, 15 aprile 1895 – Roma, 11 giugno 1956) è stato scrittore, sceneggiatore, traduttore. Come critico di teatro ha scritto per i più importanti quotidiani nazionali, Corriere della sera, Il Messaggero, Popolo di Roma e numerosi altri. Alvaro è stato il più grande meridionale ad avere illustrato con le sue opere la realtà europea unita alla tradizione culturale calabrese. (rrc)