SVIMEZ, DOVE VANNO LA CALABRIA E IL SUD
CRESCITA DEBOLE E DIVARIO IN AUMENTO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Dove andrà la Calabria, se continua a registrare numeri bassi e negativi? La domanda sorge spontanea, leggendo i dati del report Dove vanno le regioni italiane della Svimez, in cui è emerso come il Pil della nostra regione, nel triennio 2023-2025, crescerà solo dello 0,40%, portando un esiguo contributo alla crescita del Sud.

All’incontro hanno partecipato Luca Bianchi, direttore generale della Svimez, Fedele De Novellis, partner Ref, Stefano Prezioso, vicedirettore Svimez, Alessandro Fontana, direttore del Centro Studi di Confindustria, Alessandra Faggian, docente di Economia applicata al Gran Sasso Science Institute.

Un dato, quello presentato dall’Associazione, che non si discosta troppo dalle previsioni provvisorie dell’Istat, che indicava a dicembre 2023 una variazione del Pil calabrese del 3,2%. Guardando il dato del Mezzogiorno, secondo le stime della Svimez, la Calabria in sostanza nel prossimo triennio raggiungerebbe la stessa cifra del Sud, ossia il 3,5.

Un dato preoccupante, considerando che la nostra regione ha tutte le carte in regola per essere motore di sviluppo del Mezzogiorno. Eppure, secondo le stime di Svimez, il tasso di crescita sarà solo dello 0,8%, seguito da Basilicata (0,7%) e Molise (0,5). Andando più nello specifico, la Calabria, per il prossimo triennio, contribuirà alla crescita cumulata del Pil dello 0,25% per le spese Pa, dello 0,04% per l’export, dello 0,37% con la spesa delle famiglie e dello 0,10% con gli investimenti.

Preoccupano, poi, i dati relativi sul valore aggiunto delle imprese strutturate, ossia multinazionali estere e italiane, gruppi domestici italiani, con i dati del 2020: è solo del 39,8% contro il 44,9% del Mezzogiorno e del 57,3% dell’Italia.

Anche per quanto riguarda gli addetti alle unità locali per mille abitanti, in Calabria se ne registrano solo 152,9 contro i 194,1 del Mezzogiorno e i 292,2 dell’Italia. Preoccupano, infine, i dati riguardanti il bilancio della popolazione residente: Quello complessivo è -149.056, quello migratorio -94.892 e quello naturale -54.164.

«Nel corso degli ultimi anni – si legge nel Rapporto – l’economia italiana, al pari delle altre economie europee, è stata sottoposta a una serie di shock straordinari – legati alla pandemia e alla crisi energetica – cui sono corrisposte reazioni altrettanto eccezionali delle politiche, sia quella fiscale che quella monetaria. Ciascun territorio ha risentito di tale instabilità in maniera diversa, a seconda del grado di esposizione a tali shock della propria struttura produttiva».

«D’altra parte, i differenziali di crescita fra le diverse macroaree sono stati nel complesso contenuti – viene spiegato – un risultato che in parte deriva dal fatto che alcuni shock hanno colpito settori presenti, pur in maniera non uniforme, sull’intero territorio nazionale, ma che può essere spiegato anche con le misure compensative adottate dalla politica di bilancio per sostenere le imprese e le famiglie che di volta in volta sono state colpite nelle varie fasi della crisi. In definitiva, nel corso degli ultimi anni, nonostante le difficoltà che hanno attraversato il sistema economico, le politiche hanno avuto successo nel prevenire un ulteriore allargamento dei divari territoriali».

«Dalla pandemia – continua il Rapporto – sono derivati effetti differenziati sui settori manifatturieri. Alcune filiere hanno subito conseguenze permanenti, penalizzando soprattutto le regioni dell’Italia centrale. Anche i settori dei servizi privati sono stati caratterizzati da una elevata instabilità, in particolare nelle attività assoggettate alle misure di distanziamento sociale, quindi nei settori degli alberghi e ristoranti e negli spettacoli. Tali andamenti sono stati condivisi dalle diverse regioni, ma hanno naturalmente avuto impatti maggiori nei territori a vocazione turistica che, dopo essere stati più penalizzati dalle chiusure imposte a seguito della pandemia, hanno poi registrato una fase di recupero più vivace».

«Le risorse del Superbonus sono state assorbite in misura maggiore dalle regioni del Centro-Nord. Gli effetti del ciclo degli investimenti in costruzioni sulla crescita sono stati però maggiori al Sud, dato il peso più elevato delle costruzioni sull’economia. Un altro aspetto significativo delle tendenze recenti, a sua volta legato al ciclo delle costruzioni, è rappresentato dalla crescita dell’occupazione, che è rimasta vivace, nonostante la decelerazione dell’economia. Tale andamento ha caratterizzato tutte le aree del Paese, ma è risultato più intenso nelle regioni del Mezzogiorno. I rincari dei prezzi osservati nel 2022 e nel 2023 hanno interessato con particolare intensità alcune componenti del paniere dei prezzi, come l’energia e l’alimentare, che incidono in misura maggiore sulle fasce di reddito inferiori. Una conseguenza è stata l’impatto maggiore degli aumenti dei prezzi sul potere d’acquisto delle famiglie del Mezzogiorno. Dalla fine dello scorso anno le tensioni inflazionistiche hanno iniziato a rientrare. Nel 2024-25 la riduzione dell’inflazione avrà effetti di segno opposto a quelli osservati nel corso del passato biennio, restituendo potere d’acquisto in misura maggiore alle famiglie delle fasce di reddito inferiori e ai territori più deboli del Paese».

La Svimez, poi, ha evidenziato come «la recente revisione del Pnrr ha ridimensionato gli investimenti pubblici e incrementato i contributi alle imprese; tuttavia, l’apporto delle risorse messe in campo resta significativo, specie nel Sud dove queste da sole contribuiscono per quasi due terzi alla spesa complessiva prevista in investimenti pubblici nel biennio 2024-2025. Molto dipenderà dalla capacità delle amministrazioni di portare a termine i programmi di spesa».

«Le prospettive sono caratterizzate da una fase di crescita molto debole – viene spiegato – in parte spiegata proprio dal percorso di normalizzazione delle politiche, monetarie e fiscali, che sta orientando le scelte dei Governi europei. Il 2023 è stato per l’economia italiana un anno di decelerazione, con una variazione del Pil modesta, prevista intorno allo 0,7 per cento che si declina, a scala territoriale, in uno 0,9 per cento nelle regioni settentrionali, dello 0,6 per cento nelle regioni del Centro, e allo 0,4 per cento nel Mezzogiorno. Le tendenze per il 2024-25 sono segnate ancora da ampi margini di incertezza».

«In questo contesto, il 2024 dovrebbe far registrare, sempre a scala nazionale – si legge ancora – una live contrazione rispetto all’anno precedente (+0,6%), seguita l’anno successivo da una modesta accelerazione (+1,1%). Eppure, questa crescita relativamente contenuta in buona parte dipende dall’implementazione del Pnrr, specie al Sud. Ci attendiamo che le tendenze delle principali ripartizioni territoriali mantengano dei differenziali fra le macroaree relativamente contenuti, come già osservato negli anni scorsi. Ad ogni modo, anche se la tendenza generale è una relativa vicinanza tra le varie circoscrizioni, questo non elemina alcune differenze strutturali andate consolidandosi nel corso del tempo».

«Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, al Nord, dovrebbero crescere di più, in particolare queste tre regioni quando riparte la domanda estera “giocano un’altra partita” rispetto al resto del Paese. Toscana e Lazio continuano ad allontanarsi da Umbria e Marche al Centro; anche il Sud al suo interno vede percorsi differenziati. Per certi versi, è qui che risiede la vera sfida del Pnrr: aggredire nei territori più in difficoltà da tempo quei nodi che ne ostacolano la crescita a saggi comparabili con le regioni più dinamiche. Interrompendo, così, la frammentazione dei percorsi di sviluppo regionali che si è consolidata da inizio millennio fino alla pandemia».

«Emerge, come è normale aspettarsi, una correlazione negativa piuttosto netta tra il tasso di crescita del Pil e l’indice di precarietà. Nelle regioni in cui la crescita è stata relativamente più intensa (i.e. Trentino Alto-Adige, Lombardia, Emilia-Romagna, ecc.) l’indice di precarietà assume valori più contenuti, e viceversa (come in Calabria, Sicilia, Sardegna). La bassa crescita, quindi, agisce anche sulla qualità dell’occupazione, oltre che sulla quantità di lavoro attivata. A sua volta, ciò dà luogo a un feed-back sulla crescita stessa. In regioni nelle quali la domanda interna ha assunto un’importanza preminente nell’orientare la congiuntura, come quelle meridionali e/o del Centro, una maggiore quota di occupazione precaria implica una capacità reddituale aggregata anch’essa relativamente minore. La spinta sulla domanda, in definitiva, ne risulta depotenziata».

la Svimez, poi, ha voluto porre l’attenzione sul fattore demografico, «che ha acquisito un peso crescente nell’orientare la performance dei singoli territori, specie se valutata con l’indicatore Pil pro capite precedentemente richiamato. Questo indice, infatti, oltre a risentire della minore/maggiore capacità di produrre reddito è influenzato, per l’appunto, dalle fluttuazioni della popolazione, in particolare quella in età lavorativa». (ams)

 

ZES UNICA, UNA SVOLTA PER MEZZOGIORNO
TRA INNOVAZIONE E SVILUPPO SOSTENIBILE

di VINCENZO CASTELLANOL’importanza della Zona Economica Speciale (Zes) Unica nell’orizzonte economico e di sviluppo del Mezzogiorno è un tema che, negli ultimi giorni, ha catalizzato l’attenzione politica e mediatica, segnando un passo decisivo verso la concretizzazione di una visione di crescita e innovazione. La recente riunione della cabina di regia per la Zes Unica, presieduta dal Ministro Fitto e alla quale hanno partecipato Ministri e rappresentanti delle otto Regioni interessate (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna), nonché l’Upi e l’Anci, rappresenta un momento di svolta nel percorso di attuazione di questa ambiziosa iniziativa.

Al centro dell’incontro, la predisposizione del Piano strategico triennale della Zes Unica, che si pone come obiettivo principale quello di definire una politica di sviluppo capace di integrarsi armoniosamente con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) e con le programmazioni nazionali e regionali dei fondi strutturali europei. Questo piano strategico avrà il delicato compito di indicare gli investimenti e gli interventi prioritari, i settori da promuovere e quelli da rafforzare, applicando un regime semplificato dell’autorizzazione unica, con l’intento di rendere più agile e attrattivo il contesto imprenditoriale.

L’approccio adottato dalla cabina di regia, che prevede la convocazione di appositi tavoli tematici per avviare un confronto costruttivo con tutti i principali attori, pubblici e privati, inclusi le associazioni di categoria, sottolinea la volontà di un coinvolgimento trasversale e partecipativo. Questa metodologia di lavoro mira a garantire che il Piano strategico sia il risultato di un’analisi condivisa delle esigenze territoriali e delle potenzialità di sviluppo, nel rispetto delle specificità locali e delle vocazioni produttive delle regioni coinvolte.

La Zes Unica rappresenta, dunque, una leva strategica per il rilancio economico del Sud, offrendo un’opportunità unica di attrazione degli investimenti, di creazione di nuove opportunità di lavoro e di stimolo per l’innovazione e la competitività delle imprese. In questo contesto, la decisione di trasferire, a partire dal 1° marzo, le funzioni svolte dagli otto Commissari straordinari alla Struttura di missione Zes segna l’avvio di una nuova fase operativa, che vedrà l’implementazione concreta delle strategie e degli interventi previsti dal Piano.

L’attenzione rivolta alla semplificazione amministrativa, attraverso l’adozione dell’autorizzazione unica, è un aspetto fondamentale che può significativamente contribuire a ridurre i tempi e i costi per le imprese, incentivando così l’avvio di nuovi progetti e la realizzazione di investimenti in aree cruciali per lo sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno.

In conclusione, l’impegno profuso nella realizzazione della Zes Unica e nel suo Piano strategico triennale si configura come un elemento chiave per il futuro delle regioni del Sud Italia, proiettando queste aree verso un orizzonte di crescita sostenibile e inclusiva. La sinergia tra governo, regioni, enti locali e parti sociali sarà determinante per trasformare le sfide in opportunità, assicurando che il Mezzogiorno possa giocare un ruolo di primo piano nello scenario economico nazionale ed europeo, valorizzando al meglio le sue risorse e le sue competenze. (vc)

[Vincenzo Castellano è dottore commercialista e Founder Zes Consulting]

 

L’ITALIA PUNTI SULLA CALABRIA E SUL SUD
PER UNO SVILUPPO “EURO-MEDITERRANEO”

di MIMMO NUNNARIDopo la visita al porto di Gioia Tauro della presidente del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni si può tirare qualche somma sul futuro della Calabria.

Non che la premier abbia portato molti doni o disegnato prospettive interessanti per la regione terminale d’Europa, tuttavia sono da incorniciare le sue nette sincere parole sul porto di Gioia Tauro: «È un gioiello, il primo porto italiano e il nono europeo per traffico merci. Noi però siamo una piattaforma in mezzo al Mediterraneo, quel mare che è il punto di contatto tra l’Indopacifico e l’Atlantico. Noi siamo in mezzo, con un porto che sta nella punta di questa piattaforma. E allora il nono posto in Europa non è l’obiettivo massimo a cui possiamo ambire. Molti passano da Rotterdam e Amsterdam banalmente perché non abbiamo le infrastrutture».

Dobbiamo partire da qui nel tirare le somme della visita di Meloni in Calabria, fidandoci del ruolo di sentinella degli interessi della regione che sta svolgendo il presidente della Giunta Roberto Occhiuto, che – ora o mai più – ha la grande occasione di proiettare la Calabria nel Mediterraneo, in quel mare dove si può trovare il filo della della rinascita di una vecchia e dignitosa regione del Sud, perché questo la Calabria è.

Con i suoi 800 chilometri di costa, che nel tratto del basso Tirreno ospita il porto di Gioia Tauro e più a sud lo Stretto, da sempre crocevia del mondo, la Calabria, isole di Sicilia e Sardegna a parte, è la regione più di tutte immersa nel vecchio “mare nostrum”: il mare dove tutta la storia dell’umanità è scritta. Circa 5000 anni fa un uomo fenicio, di nome forse Onoo, fu il primo ad avventurarsi con coraggio tra le onde, con una specie di canoa, forse per fuggire dai suoi nemici, oppure perché curioso di scoprire nuove isole e nuove terre che stavano oltre la linea dell’orizzonte.

Da allora, è cominciato il viaggio nel mare che si chiama Mediterraneo. A raccontarlo questo “viaggio”, significa narrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Iugoslavia e poi realtà antiche, ancora vive, a fianco dell’ultramoderno; oppure, immergersi negli arcaismi dei mondi insulari e, allo stesso tempo, stupire di fronte all’estrema giovinezza di metropoli antiche che da secoli sorvegliano e consumano il mare. Qualcuno, dice che nel sud del Mediterraneo accade ciò che nel Sud Italia accade da due secoli almeno: stessa eredità di antiche civiltà, stesso crepuscolo e destino, nel collocarsi nella storia dalla parte del torto.

E la Calabria, di questo Sud Mediterraneo, è indiscutibilmente e storicamente il centro. Quando la presidente Meloni da Gioia Tauro guarda all’Africa e al Mediterraneo, può essere certa che l’Italia il suo Mediterraneo lo ha in casa: con la Calabria, che rappresenta – messa giù in fondo allo Stivale – l’avanguardia dell’Occidente verso l’Oriente e l’Africa del Nord. La Calabria è geograficamente, storicamente e culturalmente, il territorio più vicino a quel grande teatro di dimensioni mondiali, a quel piccolo universo davanti al quale, come ha scritto domenica Lucio Caracciolo su la Repubblica: «L’Italia è quasi isola, esposta per ottomila chilometri al mare da cui importiamo le materie prime che non abbiamo e con cui esportiamo le merci che sostengono la nostra economia. La Penisola prospera finché il Mediterraneo è libero e aperto, soffoca se scolora in campo di competizione o peggio di battaglia fra potenze avverse».

L’Italia dunque ha bisogno del Mediterraneo e tutte le ragioni suggeriscono, perciò, rapporti non solo economici, ma anzitutto dialettici, culturali e di sfida sociale con la realtà mediterranea, e la Calabria, con le sue Università, le sue imprese eccellenti, il suo immenso patrimonio culturale, può legittimamente candidarsi a svolgere questo ruolo di punta di diamante del Sud nel Mediterraneo.

Tutte insieme, le regioni meridionali, in prospettiva mediterranea, possono rivestire, nell’Unione Europea, quel ruolo che Francesco Compagna, un illuminato meridionalista, in tempi lontani, indicava nella definizione di geopolitica come “Mezzogiorno d’Europa”. Gli scenari (incerti) del futuro, saranno difficili da gestire, senza un’accorta politica mediterranea e sarà l’Italia – se le sue visioni glielo consentiranno – a dover svolgere un ruolo importante in un processo di sviluppo euro-mediterraneo che comporterà certamente dei costi, ma che avrà innegabili convenienze.

Ma, senza puntare sulla Calabria, e sul resto del Sud, ogni visione, ogni progetto, rischiano il fallimento. (mnu)

LA MANCANZA DI VISIONE DELLA POLITICA
SUL VALORE DEGLI AEROPORTI PER IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – Centonovantasette milioni di passeggeri nel 2023. Il presidente di Assaeroporti, Carlo Borgomeo, ha commentato: «il 2023 si è chiuso con quasi 200 milioni di passeggeri, un record assoluto per gli aeroporti italiani, un’importante soglia psicologica raggiunta. Si conferma una straordinaria voglia di volare, a riprova della resilienza del nostro comparto, che è in ottima salute e resta strategico per il Paese».

Certamente il fatto che la gente si muova potrebbe essere un indicatore di benessere. Ma se vogliamo andare a indagare sui dati possono anche essere interpretati in maniera più articolata e complessiva. Se confrontiamo infatti i dati degli aeroporti italiani con quelli degli aeroporti francesi ci accorgiamo che la Francia ha 30.000 passeggeri meno in un anno. Circa 160 milioni e se consideriamo che il reddito pro capite francese è più alto di quello italiano qualche domanda ce lo dobbiamo fare.

Infatti il grande traffico aereo può derivare, oltre che da una capacità economica maggiore dei paesi interessati, anche da altri due fattori: il primo è quello di una mobilità all’interno del paese particolarmente elevata dovuta al fatto che vi sia una sviluppo economico diseguale che porta, come accade in Italia, molta gente a viaggiare da un lato all’altro, perché si sposta dalla sua residenza al lavoro. Magari non giornalmente ovviamente, ma avendo parenti, amici, radici, in una parte e il lavoro in un’altra i viaggi diventano abbastanza numerosi e frequenti. 

Tale visione è confortata dai dati degli aeroporti meridionali che rappresentano, con i circa 60 milioni di passeggeri, quasi un terzo del traffico complessivo. Tale dato è anomalo e non è collegato al reddito pro capite, ma alla popolazione. In realtà, avendo un reddito pro capite che è la metà di quello del Centro Nord, dovrebbe avere un traffico di gran lunga inferiore, invece unico dato rispetto a tasso di occupazione, export pro capite, a tasso di povertà e potrei continuare a lungo, dati che sono ovviamente a dimostrare un diverso sviluppo, il numero di passeggeri invece é in linea con la popolazione ed evidenzia che è così alto proprio perché vi è questa mobilità interna dovuta alle migrazioni.

Il secondo aspetto, che mette in evidenza, é la carenza di alternative ferro aria o gomma aria. Cioè il fatto che le movimentazioni attraverso le ferrovie e attraverso le strade sono così carenti che l’unico mezzo disponibile diventa l’aereo. 

Tale riflessione è confermata abbondantemente dallo stato delle infrastrutture del Sud, abbandonate da anni da parte di Rfi, ma anche di Anas, che scontano un ritardo ventennale rispetto ai collegamenti del Centro Nord. Ormai da Roma a Milano si utilizza spesso l’alta velocità ferroviaria come è noto a tutti, mai da Roma a Palermo. Tali riflessioni possono aiutare a cambiare visione adesso che il Piano Nazionale degli Aeroporti, di prossima pubblicazione, deve definire le  linee strategiche per il comparto. Perché le riflessioni fatte possono aiutare  a individuare le esigenze dei nuovi scali. 

Perché evidentemente, considerato che per completare una linea di alta velocità velocità ferroviaria o un’autostrada sono necessari 10 anni e costi incredibilmente alti e che invece per fare un aeroporto bastano pochi mesi, e poco più del costo di 2 km di autostrada, se non si considerano i tempi burocratici necessari per le autorizzazioni, che teoricamente potrebbero essere ridotti, si potrebbe pensare a soluzioni provvisorie che consentano di collegare i territori più  periferici e marginali, in modo da potenziare le loro possibilità di sviluppo, in attesa di quelle infrastrutture stradali e ferroviari che possano rendere inutile una struttura aeroportuale, che come si apre potrebbe pensarsi anche che possa chiudersi, laddove le esigenze di collegamento aereo venissero meno.

L’esempio più calzante che spiega e dimostra che il ragionamento è corretto è quello delle esigenze aeroportuali di Agrigento. Cittadina che è distante oltre due ore da qualunque scalo aeroportuale e che, per i prossimi 10 anni, é certo che non avrà un’alta velocità ferroviaria né un’autostrada che la collegherà agli aeroporti più vicini. Nel frattempo però, nel 2025, sarà capitale della cultura. La sua Valle Dei Templi è un tesoro che aspetta soltanto di essere scoperto adeguatamente da un pubblico che arrivi da tutte le parti del mondo. Considerato che, se adeguatamente valorizzata,  potrebbe rientrare nei primi 10 posti che ognuno nella vita non deve perdersi, come le piramidi d’Egitto per esempio,  Petra, Machu Picchu, le cascate del Niagara, le piramidi Maya, il Partenone o il Colosseo. 

E certo una vera utilizzazione e scoperta può avvenire solo se vi sono dei collegamenti adeguati. La riserva più importante che viene posta, quando si parla di aeroporti, è quella di un traffico minimo che ne consenta la sopravvivenza, senza che vada in passivo. 

Ma è chiaro a tutti che il ragionamento va fatto non a bocce ferme, né pensando che gli aeroporti debbano servire per il collegamento dei residenti con Roma e Milano. Ma capendo perfettamente che si tratta di strutture al servizio soprattutto dell’incoming, cioè quei collegamenti che possono portare i tanti ricchi europei, che sono costretti a vivere  in posti dove, e per sei mesi, sono sotto lo zero, a venire a svernare o a viaggiare per vedere località  dove ai primi di  febbraio la primavera inizia  e inonda di bianco una Valle Dei Templi che festeggia la sua sagra del mandorlo in fiore, normalmente ignorata dalla Rai pubblica, davanti ad un Tempio della Concordia, in una area archeologica  tanto ben conservata da far invidia alla zona archeologica del Partenone. 

Bene, a parte il fatto che con accordi con compagnie tipo Ryanair anche scali come Trapani riescono ad arrivare al milione e mezzo di passeggeri che dovrebbe essere quel dato che consente un break even di utili, bisogna capire che gli aeroporti in alcune realtà possono anche costituire una struttura di servizio all’economia, che anche se può perdere qualche milione di euro in un anno, come succede ai trasporti locali o ad altre utilities, se poi mette in movimento un volano che porta ad una complessiva crescita del sistema economico, può essere una scelta che nella globalità é conveniente. 

Poi considerando come spesso la politica distribuisce mance e mancette, risorse per sagre della ricotta o del carciofo che non hanno alcun significato economico, ci rendiamo conto come le risorse che possono essere dedicate ad un’aeroporto, se non servono per  l’assistenza sociale a disoccupati che vengono assunti per avere un posto non per fare un lavoro, allora la visione può anche essere differente. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

NELLA COERENZA DELLE CONTRADDIZIONI
SOLO LA CHIESA HA CAPITO L’AUTONOMIA

di MIMMO NUNNARI – C’è un aspetto non considerato nella polemica che si è accesa sulle conseguenze che comporterà l’introduzione dell’Autonomia differenziata se mai arriverà al traguardo e non riguarda solo la divaricazione Nord Sud che inevitabilmente si accentuerà malgrado le ipocrite rassicurazioni della Lega il movimento nato separatista che ha sempre avuto l’obiettivo di disarticolare l’unità morale sociale e politica del Paese.

Il traguardo sogno della Padania poco più di trent’anni dopo passando da Bossi a Salvini potrebbe ora essere raggiunto, paradossalmente con l’aiuto determinante di FdI: la forza politica erede di movimenti di destra e post fascisti che fino a poco tempo fa innalzavano orgogliosamente la bandiera dell’antiregionalismo e della patria unita.

Senza andare troppo indietro nel tempo, quando Giorgio Almirante, segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano, affermava che le Regioni sarebbero state “carrozzoni clientelari e di potere” e votò contro la loro istituzione, insieme a liberali e monarchici, basterebbe adesso ricordare quando nel 2014 l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni allora esponente di Alleanza Nazionale presentò in Parlamento un progetto di riforma costituzionale – insieme al collega Edmondo Cirielli, l’attuale viceministro degli Esteri – che prevedeva l’abolizione delle Regioni tout court.

È questa l’Italia: il Paese delle conversioni per opportunismo e per convenienza, del trasformismo e degli intrighi. Aveva ragione lo scrittore Guido Morselli: “Negli uomini, non esiste veramente che una sola coerenza: quella delle loro contraddizioni”.

È questa l’Italia alla perenne ricerca di stabilità e identità: Il Paese dove non si è mai riuscito a saldare moralmente e culturalmente – con un visione suprema dello Stato –  territori dalla Sicilia alle Alpi.

Oggi, sembra che tutti in Parlamento abbiamo dimenticato – anche i “45” senatori di centrodestra del Sud che hanno chinato il capo come i sudditi – che il fanatismo e l’egoismo delle leghe nordiste è un veleno che corrode la solidarietà di cui il Mezzogiorno e le aree più deboli hanno bisogno.

Solo la Chiesa sta parlando con chiarezza: “È questo un modo per diventare più solidali, sapendo del grande divario che c’è tra una parte e l’altra d’Italia”? ha commentato il segretario di Stato Vaticano cardinale Pietro Parolin dopo il voto del Senato. E pochi giorni prima un avvertimento pesante era giunto da Matteo Maria Zuppi presidente della CEI: “Attenti i vescovi del Sud sono sul piede di guerra”.

La questione non è solo ciò che un domani potrà accadere ma ciò che sta già accadendo oggi, con uno scenario politico parlamentare terreno di scontro duro, come nell’epoca post risorgimentale e con i giornali nazionali che sulla scia di questa contrapposizione si schierano a favore o contro una causa, a sostegno o contro le forze politiche, tornando a quel vizio d’origine del giornalismo italiano che ha condizionato a lungo la sua funzione e il suo sviluppo, non solo nel ventennio fascista. Si sta facendo un tipo di giornalismo votato alle cause da sostenere, delle parti politiche da assecondare, e poco attratto dall’esigenza di informare con correttezza con il fine precipuo di comunicare notizie e di interpretare i gusti e le esigenze dei lettori e di informare a tutto campo. Anche per questo i giornali nazionali continuano a perdere lettori. Un secolo e mezzo dopo l’Unita’, i mezzi della comunicazione risentono ancora di quel vizio d’origine che malauguratamente si riflette nelle vicende storiche del Paese, anch’esse, per mancanza di visioni, tornate all’epoca dei contrasti e delle fratture politiche che allontanarono e oggi ancora allontanano il Mezzogiorno dall’Italia e dall’Europa, delegittimando i valori etici-politici dello Stato unitario. (mnu)

CARA GIORGIA, LA STAMPA SI È SCORDATA
DI CHIEDERLE DI MEZZOGIORNO E DI PONTE

di SANTO STRATI – Non abbiamo potuto partecipare per ragioni di salute alla conferenza stampa di fine anno (posticipata a ieri) della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e nel caso, probabilmente non avremmo avuto la fortuna di essere selezionati (per sorteggio) tra i 45 giornalisti ammessi a porre una domanda (senza diritto di replica). Ma una domanda fuori tempo massimo la formuliamo lo stesso: sul Ponte – che è l’evento clou dell’attività del Governo di quest’anno – non ha nulla da dire? Ha affidato al vicepremier Salvini l’intero onere di organizzare, pianificare, programmare e portare a termine la cerimonia di inizio lavori (luglio 2024) ma, fino ad oggi, non abbiamo mai trovato esposta a chiare lettere la sua posizione sull’Opera più colossale del Millennio. Lei è favorevole o perplessa (certo non contraria…) al Ponte? Perché non ha mai apertamente dichiarato che cosa pensa a tal proposito? Il sospetto – ce lo conceda cara Presidente – è che ci sia, sotto sotto, una furbata colossale: lasciando la patata bollente in mano a Salvini avrà la possibilità – in caso di successo – di ascriverne i meriti al Governo, in caso di flop potrà indicare nel vicepremier il responsabile del fallimento. È perfida, come considerazione, lo sappiamo, ma glielo avremmo chiesto senza alcuna indulgenza, pretendendo una posizione chiara, una risposta che dia il segnale di una precisa presa di responsabilità sulla questione Ponte dello Stretto.

Ancora, a malincuore, abbiamo dovuto osservare, nelle tre e passa ore di incontro, che nessuno dei 45 giornalisti che hanno posto altrettante domande ha trovato di qualche interesse chiederle cosa intende fare il Governo per il Mezzogiorno, soprattutto alla luce dell’entrata in vigore della Zes unica, ma in particolar modo dopo l’assurda gabella ETS che condanna i porti italiani (e in particolar modo quello di Gioia Tauro che sta mostrando segnali di grande crescita). Ma il Sud non è materia d’interesse dei giornali e i media italiani, più che altro sono impegnati a riempire di gossip le proprie colonne o gli schermi, dimenticando che «se non riparte il Mezzogiorno non riparte l’Italia».

Tant’è, ma l’unico accenno al Sud ha riguardato il grande dolore della tragedia di Steccato di Cutro. Ma in una conferenza stampa di fine anno i lettori (per mezzo dei giornali e dei giornalisti) non vogliono sapere di (pur apprezzabili) sentimenti di sofferta condivisione del dolore, bensì amerebbero capire quali sono le intenzioni di un Governo che aumenta le tasse sui pannolini e pensa che chi guadagna 20mila euro al mese sia un riccone da spennare in tasse.

No, si è parlato di futilità e tutto ciò a suo vantaggio. Con questa opposizione e gran parte della stampa italiana che chiede, con timidezza, quali sono gli obiettivi primari non ha da temere nulla: altro che spettro della crisi, a Palazzo Chigi ci starà per decenni.  (s)

L’OPINIONE / Giovanni Giordano: Senza vero rinascimento del Mezzogiorno non rinasce l’Italia

di GIOVANNI GIORDANODefinitivamente archiviata la lunga estate e finalmente aperte le porte alla stagione invernale, è opportuno, per noi di Confapi e Maavi, fare qualche considerazione. Il primo dato rilevante è che il settore turistico non solo è in vita, ma gode anche di ottima salute!

Il trend dei primi sette mesi dell’anno è stato straordinario, salvo poi avere una significativa frenata, da agosto in poi, a causa di tristi eventi climatici seguiti da un’inflazione record, dal caro voli e dalla complicata questione del personale mancante. Un nodo, quest’ultimo che in alta stagione ha fatto fibrillare non poco l’intero settore. Stranamente sono stati gli stranieri i veri protagonisti della stagione estiva passata, trainando la ripresa del turismo e colmando – in un certo senso – il divario negativo dei flussi domestici orientati, invece, verso mete turistiche meno costose rispetto all’Italia. Le presenze straniere nei mesi tra giugno e agosto hanno raggiunto cifre ragguardevoli confermando l’Italia, e non solo il Sud, come meta ricercata dai turisti di tutto il mondo. Bando comunque a facili trionfalismi, resta indispensabile, ancor di più, un approccio pragmatico per capire cosa non ha funzionato e cosa fare per far ripartire al meglio la macchina turistica non ancora settata ai livelli pre-pandemici.

A nostro avviso vogliamo evidenziare – fra i tanti – tre punti essenziali da eseguire: un tavolo operativo di concertazione e programmazione permanente, sia a livello regionale che nazionale e con la presenza opportuna di tutte le rappresentanze del settore; ripensare tutto lo sviluppo dell’Italia e soprattutto del Sud in ottica turistica. Promuovere le professioni vecchie e nuove del turismo, definendo i ruoli specifici di ciascuno e rivedendo i contratti dei lavoratori del turismo in una prospettiva di miglioramento e di adeguamento agli standard europei, per rendere anche più appetibili le stesse professioni.

Nello stesso tempo, non si può non alleggerire fiscalmente le imprese del settore e in particolari quelle stagionali soffocate da una esagerata e asfissiante pressione fiscale. Questi aspetti tecnici non sono dati secondari per la crescita turistica del nostro Paese. Essere una terra unica per bellezza, come confermato di recente al Forum Internazionale del Turismo di Baveno, non è più sufficiente, anche se oltre tale dato si aggiunge il fatto che il nostro Paese è tra quelli in cui tutti vorrebbero abitare. Le condizioni bioclimatiche sono uniche al mondo per effetto di una straordinaria biodiversità rappresentata per esempio da 7000 differenti vegetali, 58000 specie di animali, 1800 vitigni, 997 tipi di mele, 140 tipi di grano. L’Italia possiede il 70% del patrimonio artistico e culturale, il rimanente 30% è sparso nel resto del pianeta. In poche parole, ci troviamo in un paradiso unico e sembriamo non accorgercene, dimostrando scarso apprezzamento e rispetto verso il nostro Paese. A questo si aggiunge la condizione claudicante in cui imperversa sempre il Meridione e in particolare la Calabria. Se da una parte il Pnrr ci viene in soccorso dall’altra sta a noi non sprecare questa ultima occasione.  

La presenza della Presidente del Parlamento Europeo, Roberta Métsola, nelle aree del Sud, può essere un segno di vicinanza e di una volontà politica verso le regioni più in difficoltà. 

È da qui che deve partire il cambio di rotta, con un Mezzogiorno d’Italia finalmente risanato da una cultura spesso arcaica, recuperato da una esasperata differenza infrastrutturale e definitivamente unificato al resto del Paese, superati gli sterili antagonismi.

Senza un visibile rinascimento del Mezzogiorno non ci potrà essere un completo rinascimento dell’Italia.

È il momento di costruire un nuovo futuro per tutti. Custodire la nostra terra è il primo gradino tangibile della volontà di contribuire per parte nostra anche alla custodia dell’umanità e – di conseguenza – dell’intero creato. Voltare pagina è imperativo. (gg)

[Giovanni Giordano è Vicepresidente Nazionale Confapi Turismo e Cultura, Presidente Confapi Turismo e Cultura Calabria e Delegato Regionale MAAVI  (Movimento Autonomo Agenzie di Viaggio Italiane]

CON ZES UNICA, UN MEZZOGIORNO DIVERSO
NON INTERVENTI SPARSI, MA COORDINATI

di ETTORE JORIO – Il Mezzogiorno espunto dalla Costituzione revisionata nel 2001 è rientrato dalla porta principale delle politiche solidaristiche e agevolative del Governo. Lo ha fatto con il DL per il Sud n. 124/2023, divenuto da poco legge dello Stato (legge n. 162 del 13 novembre scorso).

Un Mezzogiorno diverso dal solito

Tuttavia, il Mezzogiorno è stato (ri)concretizzato in una composizione geografica monca di quella parte del Lazio a sud di Frosinone, che godette più che altrove dei benefici erogati dalla allora Cassa del Mezzogiorno.

Insomma, un Mezzogiorno ad otto che comprende Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, sotto l’effigia di Zes Unica.

Una ratio, quella di costituire una Zes unica nazionale, che dà un ampio riconoscimento alle ragioni che imposero ai Padri costituenti di renderlo elemento interiorizzato della Carta costituzionale. Ciò nella logica di volere dare attuazione ai valori della solidarietà e di una rinnovata attenzione a favorire una tangibile unità economica nazionale attraverso il ricorso ad una programmazione di risorse comunemente destinate dall’UE alle regioni in ritardo.

Una regola ripristinata che, da una parte, consentirebbe uno sviluppo comune alle anzidette Regioni costrette così ad esercitare politiche favorevolmente aggressive contro le cause dei ritardi che ne hanno rallentato la crescita e, dall’altra, alleggerirebbe attraverso il conseguimento, nel tempo, dello sviluppo il peso della perequazione gravante sull’imposizione generale a compensazione della attuale povertà di gettito fiscale territoriale.

Una occasione per accelerare, ma non in curva

Una condizione teoricamente ideale che impone, finalmente, investimenti, caratterizzati da una unicità progettuale e una crescita unitaria, difficile da conseguire ma più possibile rispetto a ieri.

Le domande da porsi sono diverse.

Prioritariamente cosa significhi Zes Unica e cosa comporti. Zes Unica per il Mezzogiorno, oltre che recuperare l’errore di averle istituite per dividere di più quanto negativamente differenziato, è funzionale a generare un sistema di governance monolitico, basato su una struttura unica nazionale funzionale a semplificare e razionalizzare gli interventi, attraverso politiche di coordinamento. Ciò senza alterare minimamente l’autonomia delle Regioni e degli enti locali. Questi infatti rimarranno sempre i protagonisti delle opportunità di investimento. Un ruolo difficile a comprendersi se non si tiene nel debito conto di che cosa sia nel concreto lo strumento operativo denominato Piano strategico di sviluppo della Zes che reca, a valle, consistenti benefici fiscali e semplificazioni procedurali per le imprese che decideranno di insediarsi ivi e per quelle già esistenti. Alla luce di siffatte agevolazioni, la Zes Unica si rende garante di politiche coordinate che specializzino i singoli territori regionali, sulla base delle loro peculiarità territoriali e delle infrastrutture liberamente programmate attraverso anche il ricorso alle risorse del Pnrr.

Dubbi comuni

Vengono pertanto a porsi degli interrogativi più specifici ai quali fornire le risposte adeguate. Essi riguardano: le modalità di sviluppo del progetto industriale della ZES Unica; la sua direzione affidata ad una Cabina di regia istituita presso la Presidenza del Consiglio con funzioni di indirizzo, coordinamento, vigilanza e monitoraggio, cui competerà al suo esordio la redazione del regolamento di organizzazione dei lavori; la sua durata; i settori, eventualmente privilegiati, di intervento produttivo e quelli esclusi; l’entità e il percorso, infine, di godimento delle agevolazioni incentivanti e delle semplificazioni amministrative.

Il piano industriale è dimostrativo della visione strategica di somma, nel senso di riassunzione delle linee delle Regioni tradotte in una azione unitaria e coordinata della durata di un triennio, a partire dall’1 gennaio 2024. I settori di intervento strategico sono tutti quelli capaci di sviluppare e rafforzare, in modo organico, la capacità produttiva del Mezzogiorno, rendendolo massimamente attrattivo per  le nuove iniziative, specie di grande portata, determinanti un sensibile incremento del patrimonio produttivo, culturale e naturale. Gli incentivi e le facilitazioni sono segnatamente interessanti, atteso che riguardano importanti crediti di imposta godibili a seguito degli investimenti realizzati e sostegni finanziari ai relativi progetti avviati dalle imprese finalizzati a generare incremento nell’area della ZES Unica.

Tra le semplificazioni amministrative presiede l’autorizzazione unica per l’avvio delle attività produttive e il riconoscimento, a tutto il 2026, dell’anzidetto credito di imposta, previsto nella misura massima consentita dalla Carta degli aiuti a finalità regionale 2022-2027 notificata all’UE (di gran lunga più consistenti di quella scaduta 2014-2020), operante a fronte dell’acquisizione di beni nuovi strumentali alla produzione. Tali benefit erariali saranno differenziati, maggiori per Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, medi per Basilicata, Molise e Sardegna, più bassi per l’Abruzzo

Autonomia nella programmazione e condizioni diseguali tra Regioni ordinarie e a statuto speciale

La costituzione della Zes Unica pone tuttavia la necessità di una considerazione, che è primaria per il suo buon esito. Essa riguarda le attività che ciascuna Regione dovrà svolgere in termini di definizione delle proprie politiche, garanti della rispettiva autonomia e – per quanto riguarda la Sardegna e la Sicilia – della loro specialità statutaria, e dei limiti che imporrà il progetto di sviluppo unitario della Zes Unica alla loro programmazione ordinaria. Un evento che, così come se ne discute di sovente, sembra assumere sempre di più la previsione di un acconto alla costituzione di una macro-Regione del Mezzogiorno. Una osservazione che assume però una maggiore preoccupante importanza per la velocità del suo esordio, prevista per l’inizio del prossimo anno, e la brevità del godimento relativo, peraltro in netta coincidenza con gli interventi del Pnrr, dei quali invero si sa poco o nulla. Al riguardo, un problema sarà quello di affrontare il tema delle gare già in via di perfezionamento da parte delle vecchie Zes regionali o comunque di loro interessamento (si veda NT+Enti Locali&Edilizia del 16 novembre scorso).

Un altro tema da affrontare, e presto, sarà quello di riconsiderare la previsione applicativa della Zes Unica con quella attuativa del regionalismo differenziato, che potrebbe offrire l’occasione alle anzidette Regioni ordinarie di ragionare su una rivendicazione comune delle materie soggette a differenziazione in modo da raggiungere una sorta di omogeneità legislativa con quelle a statuto speciale. Una necessità, questa, per dare più legittimazione al Ponte sullo Stretto da parte della Regione Calabria.

Quanto alle previsioni occupazionali ad hoc risultano interessanti: circa 2.500 unità, di cui 71 al Dipartimento per le politiche di coesione di Palazzo Chigi e 266 a tempo determinato, a fronte delle quali insorge qualche sospetto sulla idoneità delle procedure assunzionali. (ej)

(Ettore Jonio è avvocato, professore all’Unical, editorialista de Il Sole 24 Ore)
[Courtesy Il Sole 24 ore – Norme e Tributi]

L’OPINIONE / Vincenzo Castellano: Il ruolo della Zes unica, infrastrutture e alta velocità

di VINCENZO CASTELLANOLa recente pubblicazione della legge di conversione del decreto Sud in Gazzetta Ufficiale segna un’epoca di grandi aspettative e speranze per il Mezzogiorno. Con l’istituzione di una zona economica speciale (Zes) unica, prevista a partire dal 1° gennaio 2024, si apre un nuovo capitolo nello sviluppo economico di quest’area storica del Paese. Questa legge, numero 162 del 13 novembre 2023, rappresenta un passaggio chiave per rilanciare le regioni del Mezzogiorno, offrendo una struttura più unificata e semplificata per le attività economiche e imprenditoriali.

La nuova legge si concentra sulle misure di semplificazione amministrativa, cruciali per attrarre investimenti e stimolare l’attività economica. L’autorizzazione unica per l’avvio di attività economiche, industriali, produttive e logistiche è un cambiamento significativo, destinato a ridurre la burocrazia e a rendere il Mezzogiorno una meta più allettante per gli imprenditori.

Il credito d’imposta previsto dalla legge per le imprese che investono nella Zes unica è un altro pilastro fondamentale. Coprendo regioni come Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna, Molise e le zone assistite dell’Abruzzo, questa iniziativa incentiva gli investimenti in beni strumentali nuovi, cruciale per la crescita e l’innovazione.

Il Piano strategico triennale per la Zes Unica, in allineamento con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), definirà i settori prioritari e le linee d’azione per lo sviluppo della zona. Questo aspetto assicura che gli sforzi siano coerenti con gli obiettivi nazionali più ampi, garantendo un impatto duraturo.

L’istituzione della Zes unica è solo una parte di un disegno più ampio che comprende anche il potenziamento delle infrastrutture, come la realizzazione dell’alta velocità ferroviaria e del ponte sullo stretto di Messina. Questi progetti infrastrutturali sono essenziali per migliorare la connettività del Mezzogiorno con il resto dell’Italia e dell’Europa, facilitando gli scambi commerciali e attirando ulteriori investimenti.

L’alta velocità e il ponte sullo stretto non sono solo simboli di modernizzazione, ma strumenti attivi per ridurre il divario economico e sociale tra il nord e il sud del paese. La loro realizzazione potrebbe trasformare significativamente il panorama economico del Mezzogiorno, rendendolo più accessibile e integrato nel contesto nazionale e internazionale.

In questo scenario, la Zes unica funge da catalizzatore per gli investimenti e per la semplificazione del tessuto imprenditoriale. L’obiettivo è creare un ambiente in cui le imprese possano prosperare, sostenute da politiche fiscali favorevoli e da un quadro normativo semplificato.

Diciamolo con convinzione: il Mezzogiorno si trova di fronte a un’opportunità storica di riscatto economico e sociale. La combinazione di infrastrutture avanzate, politiche di incentivazione come il credito d’imposta e la semplificazione amministrativa offerta dalla Zes unica, può effettivamente essere la chiave per sbloccare il potenziale a lungo latente di questo straordinario territorio. È un percorso che richiede impegno, visione e coordinamento, ma le premesse per una rinascita economica del Sud Italia sono più solide che mai(vc)

[Vincenzo Castellano è dottore commercialista e Founder di Sud Zes Consulting]

ENERGIE DEL SUD PER SCRIVERE IL FUTURO
IL CAPITALE UMANO È MOTORE DI SVILUPPO

di SANTO STRATI – Tra storia e innovazione, emergono opportunità, risorse e ostacoli dal V incontro di Sud e Futuri (rigorosamente al plurale) la tradizionale convention della Fondazione Magna Grecia guidata dall’on. Nino Foti. Un “pensatoio” (negli Usa direbbero ThinkThank) che si rivela sempre più prezioso per la grande mole di interventi e contributi a carattere trasversale destinati a chi governa, a chi spettano le decisioni funzionali allo sviluppo o, ahimè, all’inevitabile decrescita ove poco accorte. Vale per tutto il Mezzogiorno, ma vale in modo ancor più specifico per la Calabria ed è triste, alla fine di una tre giorni intensa e proficua, constatare che le idee ci sono, mancano gli esecutori, ovvero la classe politica decisoria che, evidentemente, non non solo non produce iniziative importanti per crescita e sviluppo, ma, disgraziatamente, non sta ad ascoltare idee e proposte che rivelano intelligenza e vivacità di giudizio in quanti credono allo sviluppo possibile.

L’incontro di Castellabate e Paestum è il segnale che esiste una parte d’Italia capace di coinvolgere (grazie alla Fondazione Magna Grecia) teste pensanti a respiro internazionale, in grado di provocare, proporre e suggerire modalità esecutive che non richiedono scostamenti di bilancio o nuove voci di spesa, ma, al contrario, indicano il percorso ideale, la strada maestra, per superare gli ostacoli e risvegliare il Mezzogiorno dal torpore a cui l’hanno costretto da troppo tempo politici inetti e una classe dirigente poco incline a occuparsi di Sud. Eppure tutti continuano a ripetere il mantra «se cresce il Sud cresce il Paese», però poi, nei fatti, la concretezza latita e rimangono solo una serie di buone intenzioni, con le incompiute cui ci hanno abituato negli ultimi 50 anni.

Per questa ragione, il thinkthank della Fondazione Magna Grecia merita un’attenzione particolare da parte della classe politica oggi al governo (ma l’opposizione non faccia ostruzionismo solo per avere la visibilità sempre più scadente) e può offrire solidi argomenti di discussione per avviare una seria riflessione su ciò che non è stato fatto e quello che invece è necessario portare a compimento. In fretta, senza indugi e traccheggiamenti di comodo, perché il Paese non può più aspettare. L’ansia deriva dal PNRR, una montagna di soldi (ahimè, in parte a debito, andranno restituiti), che mette a disposizione i denari necessari per la ripresa, ma esige progettualità e concretezze, non fumosi programmi che non arriveranno mai a compimento (né tantomeno saranno finanziati.

La corsa più rilevante della tre giorni è l’esigenza di puntare sul capitale umano del Mezzogiorno, sulle sue straordinarie risorse umane, svalorizzate e mal utilizzate, quando, in realtà queste energie sono la parte propulsiva di un motore di sviluppo che nessuno è capace di mettere in moto.

Le ragioni di questa inadeguatezza sono state sviscerate, analizzate e sezionate, in modo scientifico, da un parterre di relatori di altissimo livello che ha avuto la possibilità di confronto con ben tre ministri dell’attuale Governo: Eugenia Roccella (famiglia), Raffaele Fitto (Coesione e sviluppo e Gennaro Sangiuliano (Cultura).

I temi sono stati quelli relativi al mancato sviluppo. Si è iniziato parlando di denatalità e spopolamento: ma quale incentivazione c’è per i giovani a creare una famiglia, a mettere su casa e riempirla di figli, quando fare un figlio  significa, nella stragrande maggioranza dei casi, per la donna rinunciare al lavoro e a importanti sbocchi professionali, e per l’uomo assumersi un impegno di spesa che potrebbe rivelarsi insostenibile, con le intuibili conseguenze per una serena crescita del bambino. Si sono chiesti i nostri governanti perché i giovani si sposano sempre di meno (difatti, si è alzata l’età media delle nozze)? La risposta è sconfortante: la grande maggioranza non ha i soldi per affrontare un matrimonio (e parliamo di nozze semplici, senza sfarzo). Se non c’è la copertura dei genitori, sposarsi diventa una nuova, insostenibile, situazione di debito. Quindi, sì alla convivenza (non ci sono spese accessorie), ma dalla precarietà di coppia è difficile anche solo ipotizzare di far crescere la famiglia. Mancano in primo luogo l’assistenza dello Stato (che non investe sulle nuove generazioni) e si avverte l’assenza di un welfare destinato proprio a motivare e incentivare la natalità. Basti guardare nei vicini Paesi europei come viene affrontato il problema: fino a poco tempo fa c’era pure l’iva sui pannolini e sul latte della prima infanzia. Ma dove vivono i nostri governanti? La ministra Roccella assicura che sta facendo salti mortali per cambiare le cose, ma non basta l’impegno solitario (e meritorio) della titolare del dicastero: serve la decisa e precisa convinzione del Governo che occorre davvero un nuovo modo di affrontare il problema denatalità.

E lo stesso vale per lo spopolamento: con lo smart working i nostri giovani potrebbero tornare a vivere nei luogi di nascita, tra il mare e la mointagna, circondati dagli affetti familiari e adagli amici, se solo non ci fosse il gap della Rete che non c’è. Lasciamo pe run momenti da parter i problemi di mobilità – anche se importanti – ma se il collegamento a internet si ferma  pochi mega, come si fa a lavorare in remoto?  Le relazioni della tre giorni offrono idee, spunti e proposte operative.

E che dire del panel dedicato agli investimenti al Sud? Basterebbe la dichiarazione di qualche giorno fa del Presidente della Confindustria Carlo Bonomi a Cosenza: «La Calabria è nel mio cuore», rivelando un snetimento che è comune a molti industriali del Nord che vorrebbero delocalizzare e aprire nuove imprese nel Mezzogiorno. Ma c’è qualcosa che interrompe il  circuito virtuoso che motiva la voglia di fare impresa: il problema (per mutuare un termine usato nelle connessioni di rete) è l’ultimo miglio. Come ha osservato Antonello Colosimo parte attiva di FMG, «l’investimento nel Mezzogiorno nasce come problema dall’unità di Italia e nel 2023 ha le stesse connotazioni. Manca l’ultimo miglio perché non riusciamo a fare progetti, manca la fase di ricerca e sviluppo. Abbiamo un problema di raccordo statuale delle iniziative. Bisogna, quindi, attrarre intelligenze. C’è bisogno di più Stato e più semplificazione».

In altre parole, non si possono attendere mesi per ottenere un parere (non l’autorizzazione, attenzione!) da un ufficio comunale per poter avviare un progetto esecutivo. E non bastano le buone intenzione della Zes di ridurre al minimo la burocrazia, quando poi si inciampa in lungaggini inutili e deprimenti per poter mettere appena la prima pietra del futuro stabilimento. La legge 482 ha prodotto solo investimenti farlocchi (lo testimoniano i tantissimi capannoni abbandonati), al contrario della prima Cassa per il Mezzogiorno dove l’intelligenza di chi la guidava ha favorito crescita e sviluppo in territori dimenticati da Dio e dagli uomini. Poi sappiamo com’è andata a finire, con  un’eredità mal continuata per poco dalla Agenzia per il Mezzogiorno.

Come si fa ad attrarre investimenti? Secondo il ministro Fitto la Zes unica per il Sud farà da volano. Peccato che nessuno gli abbia spiegato che la Zes unica (che non riguarda più solo le aree destinate alle infrastrututre industriali e al terziario, ma l’intero territorio del Mezzogiorno, senza distinguo alcuno) non offre decontribuzione, ma solo crediti di imposta, utili in modo straordinario, per le multinazionali e le grandi imprese del pubblico che fatturano centinaia di milioni e, quindi, hanno un bel po’ di tasse da farsi restituire, ma non offre alcun incentivo all’attività d’impresa, soprattutto alle piccole e medie aziende che sono il tessuto connettivo dello sviluppo e creano occupazione vera. Non c’è un centesimo per sostenere l’avvio d’impresa, ma – si dirà – non è questo l’obiettivo alla base delle Zes, ma non si può ragionare solo in termini di investimenti multimilionari, bisogna guardare al territorio e alla possibilità di creare occupazione e con esse ulteriore indotto. Il decreto si può ancora modificare, speriamo in meglio.

Il meglio di questa tre giorni però riguarda la cultura: con lo sfondo del tempio di Nettuno a Paestum, Sud e Futuri ha dato la parola a sovrintendenti, direttori di musei, specialisti del marketing culturale per offrire idee e contributi esecutivi a quello che è il comparto più importante per lo sviluppo del Mezzogiorno, naturalmente vocato a “mercificare” (nel senso più nobile del termine) l’unicità e la straordinarietà di un patrimonio culturale che il mondo ci invidia.

Non è vero che con la cultra non si mangia: bisogna saperla “vendere” perché la domanda è forte e l’offerta del Paese (escludendo Colosseo, Firenze e Venezia) è modesta, disaggregata e poco attrattiva.

Eppure, il comparto può generare occupazione in modo esponenziale, valorizzando risorse, formandone di nuove, progettando, anche attraverso l’uso delle nuove tecnologie digitali, un’offerta che diventa irrinunciabile per milioni di visitatori. E il patrimonio archeologico, paesaggistico,   culturale del Mezzogiorno è sottoutilizzato, poco valorizzato. Perché oltre alla famosa mancanza di visione ci sono problemi di mobilità (provate ad andare a visitare la Venere Morgantina a Enna: è una disavventura arrivarci), di mancanza di personale, mancanza di professionalità e assoluta assenza della capacità di fare rete. Il male del Mezzogiorno è il localismo e la (stupida) gelosia del territorio che non è campanilismo ma caparbia ostinazione di primeggiare a danno degli altri: provate a immaginare in Sicilia, in Calabria, in Campania una rete (efficace) dell’offerta museale, con guide preparate, progetti di mobilità e trasporto dedicato, solo per fare un piccolo esempio. Quanta nuova occupazione, soprattutto giovanile, verrebbe fuori?

Le energie del Sud ci sono e aspettano solo di essere liberate: il meritorio lavoro di Nino Foti, affiancato dall’on. Saverio Romano e da una schiera di eccellenti collaboratori, mette in campo non parole al vento di chi ama soltanto citarsi addosso, bensì idee, prospettive, progettualità da realizzare. C’è solo da fare tesoro del grande patrimonio di idee che è venuto fuori a Castellabate e Paestum e mettere in pratica le idee che faranno il futuro: non si può pensare solo al presente (cosa che fa regolarmente la politica attuale), ma guardare al futuro. Anzi ai “futuri” (rigorosamente al plurale) che Nino Foti, Romano e Colosimo sono convinti si possano disegnare e rendere realtà, per le nuove generazioni. (s)