AUGURI / Giusy Staropoli Calafati: Walter Pedullà compie 93 anni

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Siderno, 10 ottobre 1930. Nasce Walter Pedullà.

Il bambino del pallone di stoffa, a cui a fare da sponda ci sono lo Ionio e l’Aspromonte; il giovane studente di lettere all’università di Messina, a cui i libri cambiano la rotta; l’allievo modello di Giacomo De Benedetti, a cui la letteratura salva i sogni. L’intellettuale italiano, il professore delle lettere e della storia, il calabrese geniale che ha insegnato all’Italia a conoscere l’Italia meridionale.
E poi l’amico di Melo (Carmelo Filocamo) e di Saverio (Saverio Strati): il primo, intellettuale gentile apprezzato da Calvino per i suoi anagrammi, l’altro, muratore contadino con il demone della narrazione, voce incessante del neorealismo italiano. Il professore universitario con lo scranno dell’identità e la voce più imprimente, totalizzante e longeva della letteratura italiana del ‘900. Walter Pedullà nasce dalle favole. Quelle che la madre gli racconta sapientemente da bambino. Frutto di una “cultura orale”, che solo poi si depositerà nei libri.
Il padre è un grande affabulatore. Trasforma in favole la realtà. Ed è proprio la sua capacità di modificare un evento trascurabile in un racconto con la morale della favola, che persuade il giovane Walter quando è ancora un ragazzo. Quando Cuore, diventa il suo primo libro di letteratura.
A 13 anni, ha già letto tutto Shakespeare. Lo sottrae al fratello, insegnante di greco e di latino. In casa non vi sono libri di matrice diversa, e Pedullà, che legge ciò che trova, li passa tutti a memoria, e li deposita nella parte più profonda di sé. La sua inclinazione non lascia dubbi. Ma prima che con il gusto e il piacere dei sogni, è con la realtà che deve fare i conti, Walter Pedullà. E lui lo sa bene. Ne ha piena coscienza. La condizione economica precaria, non ammette né sbagli né sprechi. Bisogna centellinare tutto. Anche il tempo.
Carmina non dant panem, ripete a sé stesso.
E allora cosa può dare il pane a un giovane desideroso di conoscere la vita, come lui? Dopo il diploma liceale, si iscrive alla facoltà di Chimica Industriale a Messina. Con una laurea così avere un buon futuro, era pressoché certo. Ma è un ovvio ripiego, non è questo il pane di cui ha bisogno per nutrirsi, Walter Pedullà. A lui serve di più. Sono il suo spirito e la sua anima che hanno fame, non il suo stomaco. E insaziabile è il senso dell’umano che lo aggroviglia.
Matura immediatamente la scelta di passare a Lettere, un cambiamento da cui avrà origine la condizione esistenziale che accompagnerà parallelamente l’uomo e l’intellettuale per tutta la sua vita. A Messina diventa uno degli allievi di spicco del professore Giacomo De Bendetti. A lui lo indirizza Saverio Strati, studente di lettere anch’egli, calabrese come lui, che già segue le lezioni del professore torinese.
“ C’è un grande professore che sta tenendo una lezione su Italo Svevo” gli dice, quando per la prima volta si incontrano nei corridoi dell’università. E vanno ad ascoltarlo insieme. Pedullà, Strati e Carmelo Filocamo. Il trittico delle lettere.
La Locride è sempre stata un crocevia di geni e di intelletti. Siderno con Pedullà, Locri con Filocamo, Sant’Agata del Bianco con Strati, e poi San Luca con Alvaro, Careri con Perri, Bovalino con Mario La Cava. Un fermento culturale di cui ha sempre goduto l’Italia intera. Narratori, poeti, docenti e critici letterari. E Pedullà è frutto di quel fermento.
La Calabria non offre molto negli anni della sua giovinezza, non esistono fabbriche e le terre non danno il sostegno sperato. Resta la cultura però. La conoscenza, il sapere, e soprattutto quella sottile consapevolezza che se con la cultura non si mangia, con l’ignoranza si muore.
Le lettere hanno sempre contribuito, e in maniera attiva e concreta, alla sopravvivenza delle realtà meridionali precarie. Il sottosviluppo economico, politico sociale e culturale, vissuto e subito dai paesi del Mezzogiorno, sottomessi dai balordi sistemi dell’Italia progressista, ha sempre favorito l’annoso divario Nord/Sud.
E mentre nell’Italia settentrionale nascono e si sviluppavano le aree industriali, con decine e centinaia di fabbriche, nel Mezzogiorno continua la lotta all’arretratezza e all’analfabetismo. Ma ci sono delle aree geografiche in cui l’uomo, forte del senso della sua esistenza, è più caparbio che in altre. La Locride, in Calabria, è la prima zona interna a insorgere con una vera e propria rivoluzione culturale. Una concentrazione di genialità che guardano all’Italia e all’Europa.
Con la laurea tanti giovani meridionali sono riusciti ad occupare la capitale, riempiendo quei posti che ancora oggi, raccontano la storia di un esercito di persone che tramite un appuntamento inconscio e silenzioso, come lo definisce il professore Pedullà, si sono ritrovate dove il lavoro non era più una chimera, ed era finalmente possibile fermarsi.
A Walter Pedullà è andata proprio così.
Da studente pendolare, diventa professore fisso. Giacomo De Bendetti lo vuole con lui. A Roma, alla Sapienza. La sua preparazione può offrire agli studenti italiani forse più di quello che lo stesso De Benedetti, ha dato a lui. Da allora sono passati tanti anni. Dal 1930, esattamente 93. Quelli che oggi il professore compie e che certamente si onora di contare. 93 anni, che se sommati a quelli di tutti gli studenti formati, dei tanti intellettuali e scrittori incontrati, letti, recensiti e criticati, originerebbero secoli di vita in cui la geografia e la storia, di cui Pedullà è testimone, varrebbero – e valgono – la psicologia di un intero popolo e di tutte le sue generazioni.
Auguri, professore. Auguri per i suoi anni, ma soprattutto per la sua tempra, l’ostinazione, la lealtà, la tenacia, la sapienza e la saggezza.
Auguri per quella Calabria di cui non si è mai liberato e da cui ha sempre continuamente appreso.
Auguri, professore, per il suo compleanno, ma anche per la forza e il coraggio che ancora detiene, pari e mai impari a quelli con cui da giovane studente, pur di mantenersi agli studi, impartiva lezioni private, dall’alba a notte fonda.
Auguri, professore, per la sua esperienza letteraria trionfante, ma anche per aver saputo rinnovare ed elevare quotidianamente, con il suo intelligente operato, la forza della letteratura e quella delle parole. Per aver sempre ricordato ai suoi allievi, e al resto degli italiani, che è proprio nei momenti in cui la politica perde la strada che l’ha resa un fattore di rinnovamento e di sviluppo, che la letteratura chiede di dire la sua, rivolgendosi direttamente alla vita.
Auguri, professore, e non solo perché di stagioni oggi se ne contano 93, ma per lo spirito vivo che ancora la anima, e che è avanguardia, sperimentalismo, comicità e mutamento; indicatore di rotte che precisa che mai ci potrà essere speranza per il futuro, se non viene data la verità sul passato.
Auguri, professore, per il traguardo raggiunto che non si pone limiti e neppure ordini di tempo, ma chiede la costante revisione del processo di imbellettamento del passato. Come revisione e non revisionismo.
Grazie, professore, per il suo genio e per la sua genialità. Per aver dato modo di sapere, anche a quell’Italia e a quella Calabria, che non sempre hanno saputo comprendere il vero senso e il più profondo significato delle sue ricerche, che vi sono testi letterari in grado di essere utilizzati come materiale politico e come modello di comportamento. E grazie, glielo dico personalmente anch’io, per aver stimolato in me e nei giovani come me, il senso delle parole, il significato della letteratura. La capacità dei libri di creare indipendenza; la forza del pensiero intellettuale che permette di modificare sistemi, creandone nuovi. Con i suoi 93 anni di storia oggi, l’Italia avrebbe dovuto concedere alla letteratura, lo stesso medesimo valore della Costituzione italiana. Ma c’è ancora tanta strada da fare.
In quest’epoca contemporanea assai inquieta e spesse volte anche inconcludente, dove la storia è frequentata dal Male, l’Italia deve tornare a sentire forte, nei suoi processi di sviluppo, la vocazione verso le lettere. Per diritto e per dovere.
«Le intelligenze che una volta generavano ingegnerei, magistrati, professori, medici, avvocati, direttori generali, presidenti, industriali, intellettuali, uomini politici di grande immaginazione oggi, in assenza degli incentivi attraenti del passato, figliano ingegnosi ‘ndranghetisti, camorristi e mafiosi che figlieranno ingegneri, magistrati, ecc. ecc.?».
La letteratura ha il potere di sollevare questa cappa pietosa dalle nostre teste, sgomberando le nostre strade. Gli uomini come Walter Pedullà, l’intelligenza per dirci come fare. Ma bisogna essere disposti alla bellezza, predisposti alla signorilità della vita. (gsc)

Walter Pedullà: la politica può nutrire o soffocare la letteratura

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Se per conoscere l’Italia bisogna conoscere l’Italia meridionale, allora è dalla voce del Mezzogiorno che bisogna lasciarsi affascinare. E di voci il Sud ne ha avute tante, e tutte brillanti ed eloquenti. 

L’Italia è nella sua vera identità che riscopre l’importanza del Meridione. Nella sua storia, il valore dei meridionali. I geni che con il loro pensiero hanno contribuito al elevare il valore sociale, politico e culturale del paese. Walter Pedullà è una voce geniale, sperimentalista dell’Italia letteraria del ’900. Allievo di Giacomo Debenedetti;  compagno di studi  di Carmelo Filocamo e Saverio Strati; Presidente Rai dal 1992 al 1993; professore di Storia della Letteratura moderna e contemporanea all’Università La Sapienza di Roma dal 1958 al 2005; Presidente del Teatro di Roma dal 1995 al 2001. Abile narratore e giornalista professionista. Pedullà traccia con la sua stessa vita, un percorso identitario esemplare, nella vita dell’Italia novecentesca e anche oltre. E si impone come voce narrante di un processo culturale e letterario, a cui il Mezzogiorno partecipa da protagonista, con i suoi più grandi esponenti. 

Da Corrado Alvaro a Saverio Strati.

– Walter Pedullà diventa testimonial ufficiale del primo piano italiano di ripresa e resilienza che, seppur inconsapevolmente, sono i giovani meridionali, che a partire dagli anni Settanta in poi, attuano, conquistando prima la laurea e poi il lavoro, entrambi con duri sacrifici e altrettante rinunce. Da Siderno è stata dura, ma non impossibile. Walter Pedullà in Calabria nasce, cresce e si forma. 

Quanto ha influito e come, la miseria culturale e la povertà umana della Calabria della sua adolescenza, nella sua formazione di uomo e intellettuale? 

«Grazie della presentazione, ma è troppo generosa e troppo impegnativa. Spero almeno di dare risposte sensate alle intelligenti domande. Non un testimonial, bensì un testimone oculare  delle vicende della mia regione dal 1930, quando aperti gli occhi ho visto la Calabria e me ne sono innamorato. Un amore che dura da 90 anni e che non diminuisce quando ne sto lontano.

«Dunque: la Calabria era socialmente la più povera regione italiana nel ventennio che comprende gli Anni Trenta e Quaranta, cioè il periodo che va dalla mia nascita in epoca fascista alla rinascita del secondo dopoguerra. Temo di farla troppo lunga, perciò mi affretto a dire che la spinta più vigorosa ci è venuta dalla ricchezza mentale. Ci dissero che la cultura sfama e noi sotto a gozzovigliare con libri di storia, di politica e di letteratura. I nostri genitori si indebitarono per mantenerci agli studi e noi li ripagammo diventando professori o  medici o ingegneri o funzionari statali o manager, pronti a trovar lavoro dovunque ci fosse, che fosse la Calabria, Roma o Milano».

– Avere la possibilità di studiare, vuol dire avere l’occasione di realizzare i propri sogni, avere le competenze di riuscire in qualcosa in cui si crede, e lei è riuscito. Ce l’ha fatta. Da calabrese e da studente pendolare. Con ostinazione e perseveranza. All’università di Messina è arrivato fin dentro l’aula del professore Giacomo Debenedetti. Lo considera un caso questo, o quell’incontro ha segnato il suo destino? Ci racconta com’è cominciato tutto e com’è andata a finire?

«L’incontro con Debenedetti avvenne per caso, ma sembrò  destino, che mi segnò. Nello stesso giorno ho conosciuto il professore di cui sarei stato il successore alla Sapienza di Roma e Saverio Strati, che sarebbe  diventato uno dei maggiori narratori italiani del secondo Novecento. “Andate ad ascoltare quel professore piemontese”, consigliò Saverio a me e a Filocamo, “mai sentito nulla di simile, parla di Svevo ma l’argomento è la letteratura mondiale”. Noi andammo e non ci saremmo mai alzati dai banchi. Era una magia, fu una malia. Fascinazione e devozione. Nella  facondia di Debenedetti la letteratura diventava  storia e scienza della materia, della psiche e della parola scritta».

– Le amicizie e gli incontri fatti ai tempi dell’università, sono generalmente quelli che più di altri rimangono per sempre. Qual è l’incontro più bello fatto da studente ai tempi di Messina e che non ha mai dimenticato?

«Come dimenticare che Debenedetti mi avviò a un’avventura intellettuale inimmaginabile per uno studente la cui massima ambizione era diventare professore liceale di latino e greco? A Messina ho conosciuto Santo Mazzarino, il maggiore storico dell’antichità, che anni dopo a Roma avrei avuto come collega e amico. Nell’Università siciliana ho avuto come professori Galvano Della Volpe, il grande filosofo marxista che ha rivoluzionato l’estetica del XX secolo, e Lucio Gambi, che ci dimostrava quanta storia ed economia covano nella geografia».  

– In Italia chi conia medaglie, chi gloria. La letteratura del ‘900 conia il trittico delle lettere. Cos’è, chi include, e di che cosa si tratta esattamente?

«Non so rispondere in poche righe, il discorso sarebbe così ampio che il lettore girerebbe pagina. Ma faccia domande più facili, mi faccia vincere una medaglia. In quanto alla gloria, vedo piuttosto vanagloria, marchio del nostro tempo di neon e plastica».

– “Avevamo tra noi uno scrittore e non lo sapevamo”. Così inizia una della lezioni di Giacomo Debenedetti all’Università di Messina. A chi si riferiva esattamente? E perché?

«Saverio gli aveva dato in lettura i racconti che nel 1956 avrebbero formato la raccolta pubblicata con il titolo La marchesina. Io e Filocamo, che ne eravamo entusiasti, lo incoraggiammo a sottoporli al giudizio di Debenedetti, che era già uno dei maggiori critici nazionali in attività. Il responso fu positivo, e il Maestro dette in diretta l’annuncio: Saverio era un narratore maturo per la pubblicazione. Debenedetti lo segnalò a Vittorini impegnandosi a scrivere un’introduzione, che non accompagnò la raccolta per veri motivi. Il ’56 è un anno orribile per la politica progressista. Ci sarà una svolta, ma il talento di Strati non temeva le tempeste della storia: le avrebbe rappresentato con il suo linguaggio spugnoso o  prensile. Qualunque cosa scrivesse, era un racconto».

– Con Saverio Strati nasce un’amicizia che vi legherà per sempre. Chi era questo suo compagno di studi? Da dove veniva, e che cosa ricorda di lui in particolare? 

«Ricordo il viaggio in Italia grazie a un  biglietto circolare che con undici mila lire ci consentì nel 1954 di visitare Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Genova, Torino, Milano, Vicenza, Venezia, Trieste e ritorno. Una lettera di Debenedetti favorì l’incontro con Pampaloni, Fortini, Solmi, Vittorini, Diego Valeri e altri poeti e narratori tra i maggiori dell’epoca. I nostri bagagli erano pieni di libri d’arte con cui ci preparavamo all’incontro con la più celebre pittura, scultura e architettura della nostra tradizione. Passavamo da un museo all’altro, da uno scrittore all’altro. Erano tutti molto cordiali e incuriositi dai due viaggiatori calabresi. A Roma parlammo con Alvaro, che ci accolse con simpatia e stupore. Come se tornasse alla propria giovinezza. Aveva seminato e ora vedeva germogli  da coltivare. In quanto ai frutti, Strati ha portato a maturazione più di un racconto degno del Maestro di San Luca. Quell’incontro fu una lezione che non dimenticammo. E pensare che a parlare erano tre taciturni cui la parola usciva di bocca per estrazione».

– Quale valore attribuisce, il critico Walter Pedullà, all’opera letteraria dello scrittore Saverio Strati? Potrebbero i suoi libri, letti nelle scuole, ritornare a ragazzi e docenti, il valore dell’identità? Potrebbe essere questa un’opera urgente da fare, volta a riesumare i valori perduti della società moderna?

«Ho recensito tutte le sue opere dal ’59, anno in cui ho esordito come critico di  giornale e titolare della rubrica letteraria per il settimanale Mondo Nuovo e dal ’61 al ’93 dell’Avanti. Ho scritto l’introduzione al Nodo, da editore ho pubblicato per Lerici suoi libri di favole, gli ho affidato la cura del volume dedicato a Basile nella collana di classici italiani da me fondata e diretta “Cento libri per mille anni”, l’ho aiutato a vincere parecchi premi letterari. Contava più dell’amicizia fraterna la stima per un narratore che non riguarda solo la Calabria o soltanto il Sud. Due suoi romanzi, Tibi e Tascia e Il selvaggio di Santa Venere sono dei capolavori. Memorabili fra gli altri buoni sono  La marchesina, Gente in viaggio, Noi lazzaroni. Il canto, la fiaba, la conversazione, l’ira e l’angoscia. Uno che trasformava in lirica il dialogo con la gente. Il selvaggio di Santa Venere è il romanzo espressionista in cui brilla la cifra stilistica che lo colloca accanto ai maggiori narratori dagli Anni Cinquanta ai Settanta ma è Tibi e Tascia l’opera toccata dalla grazia. Da leggere nelle scuole? Spero che lo facciano già. Lo ha fatto di persona Saverio Strati, che girava la Calabria per leggere e spiegare le proprie opere. Saverio rompeva il silenzio solo per parlare di letteratura, con netta preferenza per la propria. Era cosciente del proprio valore e non si nascondeva sotto una falsa umiltà».

– Sul Gazzettino dello Jonio del 1953, lo scrittore Francesco Perri, annota come in tanti studi panoramici, inchieste, dibattiti e consuntivi critici riguardanti la narrativa del Novecento, i nomi e le opere degli scrittori calabresi sono completamente ignorati. Da allora nulla è cambiato. E la Calabria, continua a rimanere indietro anche rispetto la Sicilia di Verga e  Pirandello. Perché? È forse colpa di una genialità malamente espressa, non compresa? O è semplicemente colpa dei luoghi in cui “sfortunatamente” nasce?  Cosa bisognerebbe fare per riportare l’attenzione della letteratura, e non sulla Calabria, ma sui calabresi che sono stati autori di grandi capolavori letti e tradotti in tutto il mondo, e con una forte influenza nella letteratura italiana del ‘900?

«In effetti Perri era un narratore calabrese dimenticato proprio in quel decennio di neorealismo che il suo romanzo maggiore aveva anticipato. Emigranti l’ho ristampato io negli Anni Settanta per le edizioni Lerici. Nel ’53 tuttavia Alvaro era al vertice della gerarchia letteraria nazionale, Einaudi pubblicava opere di Seminara e La Cava. De Angelis era un autore noto, stimato e recensito. Repaci redigeva la graduatoria  dei valori artistici  attraverso il Premio Viareggio. Strati pubblicherà i suoi testi con Mondadori, Mimmo Gangemi pubblica con Einaudi. Abate, don Luca Aprea, Fortunato, Guarnieri, Occhiato, Guerrazzi, Bonazza, Adele Cambria, Familiari, Carbone, Mario Strati, Altomonte, Lazzaro, Comandè e Criaco hanno avuto come editori Mondadori, Bompiani, Rizzoli, Feltrinelli, Marsilio, Sellerio, Rubbettino, Dedalo, Gangemi  e Rusconi. Nessuno ti regala niente, quanto chiedi te lo devi meritare, e questi nostri corregionali così hanno fatto. A noi non mancano gli autori, bensì i lettori. Forse siamo la maglia nera nella corsa all’acquisto di un libro, cosa di cui risentono gli scrittori calabresi. Non è un caso, è storia: quando si accende la questione meridionale, l’attenzione dei lettori italiani ed europei si indirizza al Sud. È successo col verismo nell’Ottocento  e col neorealismo nel Novecento, poi si entra in zona d’ombra, che per i meridionali è la regola. La storia dobbiamo crearla noi e narrarla col linguaggio che la rende diversa dalle precedenti. Se il linguaggio non va a trovare la storia in incubazione, deve essere la storia ad andare a trovare il linguaggio adatto. Ce l’abbiamo noi una storia da raccontare al resto del mondo ? Tiriamola  fuori: non manca la genialità agli eredi di Campanella e di Alvaro. Aspettiamo il salto strutturale dal quale si vede che il Sud è un punto cardinale basilare della vicenda umana. Talvolta basta cambiare prospettiva per constatare che non abbiamo saputo cogliere l’occasione».

– Ci sono narratori e poeti come Corrado Alvaro, Saverio Strati, Mario La Cava, Raoul Maria De Angelis, Fortunato Seminara, Francesco Perri, Leonida Repaci, Franco Costabile, Lorenzo Calogero, che hanno almeno un libro necessario per intendere all’italiano cosa è il Sud e cosa l’Italia. Perché allora nessuno di questi autori viene mai consigliato dai programmi ministeriali, non viene studiato  a scuola, e nessuna antologia scolastica ne riporta alcuna opera?

«L’Italia ha molti scrittori ma sono pochi i posti in un’antologia scolastica. Le antologie sono tendenziose e forse ci sono casi in cui ha pesato la prevenzione antimeridionalista. La congiura ai danni degli autori calabresi non la vedo. Una volta Alvaro era onnipresente magari col celebre incipit di Gente in Aspromonte che recita “Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte…”. Ora non so, dovrei documentarmi. Comunque non mi scandalizzerei se mi si dicesse che i professori calabresi hanno boicottato le antologie che per manifesta ostilità o indifferenza o ignoranza escludono autori della nostra regione. Non farei per ritorsione un’antologia che penalizzi scrittori settentrionali meritevoli. È pur sempre letteratura italiana, la spartizione fra regioni sarebbe paradossale. Noi calabresi amiamo Gadda non meno di Alvaro e Calogero.

– La letteratura salverà la Calabria. Una mia provocazione che sarebbe bello diventasse realtà. In fondo una buona politica nasce anche delle idee dei pensatori, dei grandi intellettuali, e dagli uomini con forti valori morali e identitari. Se è sul sapere che si giocano il presente e il futuro delle generazioni, la letteratura potrebbe essere la chiave di volta essenziale in grado di permette a una società miope di ritornare a vedere? A una classe politica e dirigente inetta, di ritornare ad agire? E potrebbe impedire a una società civile anche solo di pensare che vivere rettamente sia inutile?

Aderisco volentieri al vaticinio, profezia o auspicio che sia e condivido le motivazioni  politiche e morali, ma come arrivare a sentenza? Certamente non con la vecchia letteratura, che ha fatto molto nel trentennio dagli Anni Quaranta ai Settanta, cioè neorealismo, neosperimentalismo e nuovo realismo. Nuova letteratura significa nuova scienza e nuova antropologia, insomma una nuova cultura. Non basta la nostalgia, cioè il passato come futuro, cosa che la storia non accetta. Servirebbe una nuova moralità,  ma non  è aria. Qui torniamo al caso: per avere una nuova letteratura ci vuole un’imprevista iniziativa della vita. La paura, la disperazione, il senso di soffocamento? Vedo invece troppa euforia. Non sarà che ci piace questa paralisi che sembra pace ma è stagnazione? Teniamoci comunque  in disponibilità e alleniamo le idee e le parole. Epoche che parevano sterili erano invece incinte

– De Sanctis definiva la letteratura l’’insieme delle opere variamente fondate sui valori della parola e affidate alla scrittura, pertinenti a una cultura o civiltà, a un’epoca o a un genere. Ad essa viene infatti affidato il compito di ricostruzione e/o  d’indagine storico-critica di un popolo. E la Calabria rischia di andare perduta, se il resto del paese non si ritorna ad innamorare e al più presto della sua storia, della sua arte, ma soprattutto della sua letteratura. Il processo con cui da anni viene indebitamente ignorato il  pensiero dei grandi autori calabresi, priva l’Italia e le nuove generazioni di studenti, di una formazione completa, che non penalizza esclusivamente il capitale umano della scuola del Sud, ma quello di tutta la nazione. Perché si continua a negare alle nuove generazioni, l’occasione straordinaria di un mondo visto da sotto? A chi può giovare il disorientamento culturale di un paese intero?

«La domanda è già una potente risposta con la forza della passione intellettuale e con l’energia che, cara Giusy, alimenta le sue battaglie culturali, tutte ispirate dalla necessità e urgenza di un intervento politico  consapevole della gravità del momento storico. Mi auguro che il suo entusiasmo contagi migliaia di calabresi, tanto più se esso aiuta a individuare gli obiettivi da perseguire con coraggio,  tenacia e realismo. Sia visionario: la vista non basta».

– Un popolo per capirsi veramente deve conoscere i suoi artisti, altrimenti rimane indietro, diceva Saverio Strati. Ma cosa intendeva esattamente? E potrebbe essere questa una soluzione alla società liquida di Bauman, in cui anche il Sud ormai viene fortemente coinvolto? 

«Non basta la ragione dei pensatori e nemmeno le scoperte della scienza, ci vuole la fantasia degli artisti per rompere il cerchio che imprigiona la mente dei cinici. Serve audacia con spirito di sacrificio per andare “oltre la realtà”, come proponeva Corrado Alvaro ai suoi contemporanei. Oltre che sui mutamenti precari, tocca insistere sui principi fondativi che risultano insostituibili per ogni progressista. Un po’ di liquidita fa bene alla tolleranza, ma se è troppa ci si annega. Non tutto il passato merita di essere affogato. La memoria mi aiuta ricordandomi che le condizioni sociali della mia remota Calabria erano vistosamente peggiori della Calabria attuale. Le grandi battaglie hanno obiettivi massimi, ma solo così si realizza  la metà del totale desiderato».

– A maggio 2021, la sottoscritta, quale promotrice del progetto “Studiare gli Autori Calabresi a Scuola”, ha fatto pervenire al Ministero della Pubblica Istruzione, nella persona del Ministro Patrizio Bianchi, un manifesto pubblico (senza alcuna risposta), sottoscritto da vari esponenti della cultura e della società civile e del mondo della scuola italiane, con cui si chiede venga consigliato lo studio degli autori calabresi a scuola. Walter Pedullà potrebbe essere il testimone di questa battaglia. Cosa ne pensa professore? 

«Il protezionismo non mi piace e tuttavia giudico legittima la proposta di far leggere nelle scuole calabresi il romanzo o saggio di argomento e autore calabrese. È l’occasione per riflettere sulla società che lo studente ha sotto gli occhi. Potrebbe venir voglia di cambiarla, come succedeva a noi dopo la caduta del fascismo. L’amore per le differenze evita le ripetizioni di cui si nutrono i fatalisti, questi conservatori. Facciamo capire che i nostri narratori parlano di Calabria perché l’Italia intenda». 

– Lei scrive tutto un libro sui narratori meridionali del ‘900, Il mondo visto da sotto, edito da Rubbettino. Cosa si sentirebbe di dire, da parte sua, al Ministro, affinché valuti, unitamente alla mia proposta, l’idea di consigliare ai docenti italiani, di studiare accanto a Verga e Pirandello anche Corrado Alvaro e Saverio Strati? Quali valide ragioni presenterebbe affinché l’Italia attui e finalmente questa sorta di riforma culturale e anche geografica?

«Naturalmente la coppia siciliana Verga-Pirandello è più forte di quella calabrese, ma mentre i primi due sono molto noti e letti in ogni regione italiana, Alvaro e Strati non sono letti molto nemmeno in Calabria. Perciò largo alla coppia calabrese! Spero che la sua proposta sia una profezia post eventum. Anzi credo di aver letto antologie che contengono testi  di Verga e Alvaro. Noi dobbiamo limitarci a combattere perché Strati li raggiunga dove svettano. Vedo che Rubbettino ha già pubblicato alcuni volumi dell’opera omnia. Chissà che se ne accorgano gli italiani, ma siamo certi che  i l calabresi stanno facendo il loro dovere? Forse bisogna battersi non perché aumentino gli scrittori bensì i lettori». 

– Il Sud è una terra dura. La Calabria di più di molte altre. Quella che prima era la questione meridionale, oggi è rimasta solo una questione calabrese. Cosa un intellettuale come Pedullà, avrebbe ancora da proporre alla Calabria e all’Italia, per una ripresa unitaria?

«Troppo difficile rispondere per me, tanto più perché da decenni vivo lontano dalla Calabria, rivolgiamo la domanda ai calabresi residenti, ne sanno certamente di più. Magari le proposte che potrei fare ora l’hanno già respinte perché non puntuali e troppo generiche. Forse nessuno, non solo io, è in grado  di risolvere la questione sociale di una regione incapace di tenere il passo delle altre regioni meridionali. Mantenendo fede alla mia fama di sperimentalista, proporrei di tentare altre strade, quelle che nel resto dell’Italia hanno condotto a obiettivi sorprendenti. Io per esperienza so che i calabresi hanno tutte le doti di intelligenza, immaginazione e tenacia necessarie all’impresa. Le hanno dimostrate coloro che sono andati via, li possiedono i calabresi che sono rimasti giù. Si faccia attenzione a un allarmante  dato di fatto, se  è vero che la Calabria è rimasta isolata nel Sud. La questione calabrese ha  forse una peculiarità che chiede una reazione peculiare, unica, singolare? Domandi lei ai corregionali di spiegare come ciò possa succedere. Confessino, siano oggettivi, mettano tra parentesi fenomenologicamente i luoghi comuni, le lagne, gli alibi, lo scaricabarile e si riavvi il processo di ripresa dalla realtà effettuale. Secondo me, non ci diciamo la verità: ci vergogniamo di essere il fanalino di coda, ma intanto il treno parte senza di noi. Per favore: non diciamo che è solo colpa degli altri».

– Fosse rimasta solo un’ultima occasione di ripresa per il Sud, quale potrebbe essere? La Calabria da dove dovrebbe ripartire?

«L’eco risponde partire, partire e di nuovo partire. Deve partire da se stessa, anche nel senso di sapere spendere meglio i finanziamenti governativi. L’Europa è un’occasione non solo per chi volesse trovare lavoro comunque ma anche perché oggi sostiene concretamente gli investimenti produttivi. Questo è un treno da non perdere. Altrimenti c’è quello che trasporta emigranti».

– Ne Il mondo visto da sotto, scrive che è proprio nei momenti in cui la politica ha perso la strada che l’ha resa un fattore di rinnovamento e di sviluppo la letteratura chiede di dire la sua, rivolgendosi direttamente alla vita. Cosa significa esattamente? Quale ruolo essenziale ha dunque la letteratura nella società civile e in quella politica? 

«Storia lunga e annodata, mi limito ad accenni, stiamo parlando di una questione centrale della modernità, il cui inizio potrebbe essere l’illuminismo, che è il padre di una letteratura capace di fare una rivoluzione politica e sociale. La politica può nutrire o soffocare la letteratura, ma succede anche il contrario. Nel Novecento c’è stato un patto d’acciaio redatto dalle avanguardie futuriste, che furono fasciste in Italia e comuniste in Russia. Si parlò di estetizzazione della politica e di politicizzazione dell’arte. Quando domina la politica, la letteratura adegua realisticamente il linguaggio al suo scopo pratico, quando la politica fallisce, è la letteratura a creare i linguaggi capace di cogliere realtà in formazione. Il problema è più complesso di così, ma per essere più concreti diremo che oggi la politica latitando lascia l’iniziativa alla letteratura che si è liberata di lacci ideologici e di catene partitiche. Manca oggi una politica dell’arte e pullulano le invenzioni individuali che miniaturizzano la realtà sociale e morale. Che fare? Hegel consigliava: andiamo avanti e alla fine del viaggio vedremo dove stavamo andando». 

– Se con la cultura non si mangia, con l’ignoranza si muore.  Investire sulla sanità è un diritto e un dovere; investire sui trasporti e sulle le infrastrutture, è necessario. Investire sulla cultura, salva il presente e garantisce il futuro. In Calabria l’industria cinematografica nell’ultimo tempo è decisamente in crescita, tanto da essere un settore innovativo su cui puntare. L’unico capace di racchiudere in sé la magia dell’arte, l’importanza della cultura e il valore della progettualità. Se il cinema calabrese, pensasse di avviare un progetto in grado di associare alla forma d’arte cinematografica, quella letteraria, proponendo pellicole volte a raccontare, con qual si voglia tecnica innovativa, in termini di narrazione, le opere scritte dai grandi autori del ‘900, inclusa la vita e le vicende, attraverso le quali proiettare una Calabria finalmente protagonista e non più figurante nella storia italiana,  potrebbe secondo lei essere un trampolino di lancio, da cui far tuffare la Calabria direttamente in Europa? Potrebbe essere questa una proposta di rilancio, non semplicemente dei luoghi come comunemente accade, ma della grandezza di quella Magna Grecia a cui a tutt’oggi apparteniamo, e da cui, diceva Saverio Strati, prima o poi qualcosa di buono sarebbe dovuta venire fuori?

«Non ho nulla da aggiungere, anch’io sono un ottimista, credo nel futuro della Calabria. Chiamo a testimoniare il suo passato, l’ho visto al lavoro. Ha fatto miracoli».

– Walter Pedullà di giovani ne ha formati tanti, e molti degli studenti presenti alle sue lezioni saranno stati senz’altro meridionali. Cosa vorrebbe dire oggi, professore, ai giovani di questo tempo nuovo, lei che ad appena 91 anni, ha  dentro di sé la storia italiana come il cuore nel petto?

«Essendo un professore, faccio il professore. Perciò a loro dico: studiate, studiate, studiate. Naturalmente l’invito non è a studiare solo la letteratura, anche se è il necessario  supporto di ogni arte e mestiere. Fa bene studiare ciò per cui uno ha vocazione, che è uno stimolo possente a crescere sulle doti naturali. E meglio ancora fa studiare discipline che offrono prospettive reali di occupazione, le scienze fisiche. Siano concreti, studino, si aggiornino i poeti, i pittori, i musicisti confrontandosi col mondo che cambia fatti, tecniche e lingue. E studino i medici, gli architetti, gli ingegneri, i farmacisti: i saperi invecchiano trattando come scienza efficace terapie mortali. A 91 anni io studio per impedire alla mia cultura di dare risposte fasulle. Ogni anno muoiono verità culturali che parevano eterne». 

– Dovesse consigliare un libro di letteratura a un politico, per salvare la Calabria, quale sceglierebbe? E per Salvare l’Italia? E a un giovane calabrese per consentirgli di salvarsi da solo?

«Ripartiamo? Ripartiamo  dalla scuola, magari chiedendo aiuto a nuovi  maestri. Ricordarsi di cambiare i vecchi  Maestri». 

Grazie, professore. Grazie per questa meravigliosa ed esclusiva intervista, che pur trattando la Calabria e i calabresi, racconta una storia universale. Grazie per avermi dato la possibilità, con le sue riflessioni, di ricordare a me stessa e agli altri, che non c’è speranza per il futuro se non ci diciamo la verità sul passato.

Buon compleanno a Walter Pedullà: il grande critico calabrese compie oggi 91 anni

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – 10 ottobre 1930. A Siderno, nasce Walter Pedullà. Il bambino del pallone di stoffa, a cui a fare da sponda ci sono lo Ionio e l’Aspromonte; il giovane studente di lettere all’università di Messina, a cui i libri cambiano la rotta; l’allievo modello di Giacomo De Benedetti, a cui la letteratura salva i sogni. L’intellettuale italiano, il professore delle lettere e della storia, il calabrese geniale che ha insegnato all’Italia a conoscere l’Italia meridionale. E poi l’amico di Melo(Carmelo Filocamo) e di Saverio (Saverio Strati): il primo, intellettuale gentile apprezzato da Calvino per i suoi anagrammi, l’altro, muratore contadino con il demone della narrazione, voce incessante del neorealismo italiano. Il professore universitario con lo scranno dell’identità e la voce più imprimente, totalizzante e longeva della letteratura italiana del ‘900.

Walter Pedullà nasce dalle favole. Quelle che la madre gli racconta sapientemente da bambino. Frutto di una “cultura orale”, che solo poi si depositerà nei libri.

Il padre è un grande affabulatore. Trasforma in favole la realtà. Ed è proprio la sua capacità di modificare un evento trascurabile in un racconto con la morale della favola, che persuade il giovane Walter quando è ancora un ragazzo. Quando Cuore, diventa il suo primo libro di letteratura.

A 13 anni, ha già letto tutto Shakespeare. Lo sottrae al fratello, insegnante di greco e di latino. In casa non vi sono libri di matrice diversa, e Pedullà, che legge ciò che trova, li passa tutti a memoria, e li deposita nella parte più profonda di sé.

La sua inclinazione non lascia dubbi. Ma prima che con il gusto e il piacere dei sogni, è con la realtà che deve fare i conti, Walter Pedullà. E lui lo sa bene. Ne ha piena coscienza. La condizione economica precaria, non ammette né sbagli né sprechi. Bisogna centellinare tutto. Anche il tempo.

Carmina non dant panem, ripete a sé stesso.

E allora cosa può dare il pane a un giovane desideroso di conoscere la vita, come lui?

Dopo il diploma liceale, si iscrive alla facoltà di Chimica Industriale a Messina. Con una laurea così avere un buon futuro, era pressoché certo. Ma è un ovvio ripiego, non è questo il pane di cui ha bisogno per nutrirsi, Walter Pedullà. A lui serve di più. Sono il suo spirito e la sua anima che hanno fame, non il suo stomaco. E insaziabile è il senso dell’umano che lo aggroviglia.

Matura immediatamente la scelta di passare a Lettere, un cambiamento da cui avrà origine la condizione esistenziale che accompagnerà parallelamente l’uomo e l’intellettuale per tutta la sua vita.

A Messina diventa uno degli allievi di spicco del professore Giacomo De Benedetti. A lui lo indirizza Saverio Strati, studente di lettere anch’egli,  calabrese come lui, che già segue le lezioni del professore torinese.

“C’è un grande professore che sta tenendo una lezione su Italo Svevo” gli dice, quando per la prima volta si incontrano nei corridoi dell’università. E vanno ad ascoltarlo insieme. Pedullà, Strati e Carmelo Filocamo. Il trittico delle lettere.

La Locride è sempre stata un crocevia di geni e di intelletti. Siderno con Pedullà, Locri con Filocamo, Sant’Agata del Bianco con Strati, e poi San Luca con Alvaro, Careri con Perri, Bovalino con Mario La Cava. Un fermento culturale di cui ha sempre goduto l’Italia intera. Narratori, poeti, docenti e critici letterari. E Pedullà è frutto di quel fermento.

La Calabria non offre molto negli anni della sua giovinezza, non esistono fabbriche e le terre non danno il sostegno sperato. Resta la cultura però. La conoscenza, il sapere, e soprattutto quella sottile consapevolezza che se con la cultura non si mangia, con l’ignoranza si muore.

Le lettere hanno sempre contribuito, e in maniera attiva e concreta, alla sopravvivenza delle realtà meridionali precarie. Il sottosviluppo economico, politico sociale e culturale, vissuto e subito dai paesi del Mezzogiorno, sottomessi dai balordi sistemi dell’Italia progressista, ha sempre favorito l’annoso divario Nord/Sud. E mentre nell’Italia settentrionale nascono e si sviluppavano le aree industriali, con decine e centinaia di fabbriche, nel Mezzogiorno continua la lotta all’arretratezza e all’analfabetismo. Ma ci sono delle aree geografiche in cui l’uomo, forte del senso della sua esistenza, è più caparbio che in altre. La Locride, in Calabria, è la prima zona interna a insorgere con una vera e propria rivoluzione culturale. Una concentrazione di genialità che guardano all’Italia e all’Europa.

Con la laurea tanti giovani meridionali sono riusciti ad occupare la capitale, riempiendo quei posti che ancora oggi, raccontano la storia di un esercito di persone che tramite un appuntamento inconscio e silenzioso, come lo definisce il professore Pedullà, si sono ritrovate dove il lavoro non  era più una chimera, ed era finalmente possibile fermarsi. A Walter Pedullà è andata proprio così. Da studente pendolare, diventa professore fisso. Giacomo De Benedetti lo vuole con lui. A Roma, alla Sapienza. La sua preparazione può offrire agli studenti italiani forse più di quello che lo stesso De Benedetti, ha dato a lui.

Da allora sono passati tanti anni. Dal 1930, esattamente 91.Quelli che oggi il professore compie e che certamente si onora di contare. 91 anni, che se sommati a quelli di tutti gli studenti formati, dei tanti intellettuali e scrittori incontrati, letti, recensiti e criticati, originerebbero secoli di vita in cui la geografia e la storia, di cui Pedullà è testimone, varrebbero – e valgono – la psicologia di un intero popolo e di tutte le sue generazioni.

Auguri, professore. Auguri per i suoi anni, ma soprattutto per la sua tempra, l’ostinazione, la lealtà, la tenacia, la sapienza e la saggezza. Auguri per quella Calabria di cui non si è mai liberato e da cui ha sempre continuamente appreso.

Auguri, professore, per il suo compleanno, ma anche per la forza e il coraggio che ancora detiene, pari e mai impari a quelli con cui da giovane studente, pur di mantenersi agli studi, impartiva lezioni private, dall’alba a notte fonda.

Auguri, professore, per la sua esperienza letteraria trionfante, ma anche per aver saputo rinnovare ed elevare quotidianamente, con il suo intelligente operato, la forza della letteratura e quella delle parole. Per aver sempre ricordato ai suoi allievi, e al resto degli italiani, che è proprio nei momenti in cui la politica perde la strada che l’ha resa un fattore di rinnovamento e di sviluppo, che la letteratura chiede di dire la sua, rivolgendosi direttamente alla vita.

Auguri, professore, e non solo perché di stagioni oggi se ne contano 91, ma per lo spirito vivo che ancora la anima, e che è avanguardia, sperimentalismo, comicità e mutamento; indicatore di rotte che precisa che mai ci potrà essere speranza per il futuro, se non viene data la verità sul passato.

Auguri, professore, per il traguardo raggiunto che non si pone limiti e neppure ordini di tempo, ma chiede la costante revisione del processo di imbellettamento del passato. Come revisione e non revisionismo.

Grazie, professore, per il suo genio e per la sua genialità. Per aver dato modo di sapere, anche a quell’Italia e a quella Calabria, che non sempre hanno saputo comprendere il vero senso e il più profondo significato delle sue ricerche, che vi sono testi letterari in grado di essere utilizzati come materiale politico e come modello di comportamento. E grazie, glielo dico personalmente anch’io, per aver stimolato in me e nei giovani come me, il senso delle parole, il significato della letteratura. La capacità dei libri di creare indipendenza; la forza del pensiero intellettuale che permette di modificare sistemi, creandone nuovi.

Con i suoi 91 anni di storia oggi, l’Italia avrebbe dovuto concedere alla letteratura, lo stesso medesimo valore della Costituzione italiana. Ma c’è ancora tanta strada da fare.

In quest’epoca contemporanea assai inquieta e spesse volte anche inconcludente, dove la storia è frequentata dal Male, l’Italia deve tornare a sentire forte, nei suoi processi di sviluppo, la vocazione verso le lettere. Per diritto e per dovere.

“Le intelligenze che una volta generavano ingegnerei, magistrati, professori, medici, avvocati, direttori generali, presidenti, industriali, intellettuali, uomini politici di grande immaginazione oggi, in assenza degli incentivi attraenti del passato, figliano ingegnosi ndranghetisti, camorristi e mafiosi che figlieranno ingegneri, magistrati, ecc. ecc.?”

La letteratura ha il potere di sollevare questa cappa pietosa dalle nostre teste, sgomberando le nostre strade. Gli uomini come Walter Pedullà, l’intelligenza per dirci come fare. Ma bisogna essere disposti alla bellezza, predisposti alla signorilità della vita.

Oggi è un giorno felice, un bel giorno di festa che non va sciupato. Che racconta un itinerario letterario ed umano importante. I 91 capitano una sola volta nella vita. Da qui in poi i numeri non fanno che salire. Andare verso l’infinito. Dove, fluttuanti, diventano vocazione e non più calcolo. Dove arrivano le lettere, i libri, ma noi no.

Buon compleanno, professore! (gsc)

 

I tre allievi di Giacomo De Benedetti

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Se solo la Calabria, tornasse come ai tempi della sua perfetta genesi, a sentirsi “fimmina orgogliosa della sua pancia” quale ventre che accoglie e produce, allora ecco che i calabresi tornerebbero a essere i figli-geni suoi di sempre. 

Nel trattato storico da cui si genera la terra di Calabria, e per mezzo del quale la si riconosce terra abbondantemente magna e grata, è essa stessa protagonista del suo illustre destino. Del quale oggi testimoniano i libri, unico mezzo indiscusso che introduce alla continuità e al proseguo del tempo magnogreco di questa, oggi quasi miserabile, regione. E nulla di tutto ciò è mistero. La sua letteratura, sua di origine, ma di assoluta e indiscussa proprietà del mondo, si pone quale unica vera fonte rivelatrice, delle sue più sottili e a volte quasi impercettibili verità. 

La terra del sole, non è mai stata una terra arida, ha invece prodotto sempre abbondantemente frutto. E lì dove si vedeva dichiarata vinta, si esaltava vincitrice. E lo era.

– Fui io la prima Italia – dice la Calabria. E lo fu. Nel romantico nome “Calabria”, tanti altri nomi vi sono conservati. E tutti in essi riconoscono la grandezza che questi rappresentano. Nel suggestivo nome “Calabria”, tanti volti vi sono ricordati. Ognuno con un paio di occhiali diversi per guardare tutti insieme oltre. Alla storia, alle sue vicissitudini. Al tempo immortale che non passa, e su cui invece si costruisce, generando fondamenta di futuro straordinari e saldi. 

Qui nacque la sapienza, ebbe un’abbondante stirpe, e si caricò di decenza e di ingegno. Cassiodoro, Gioacchino da Fiore, Tommaso Campanella, Telesio, Pitagora. E poi tanti altri che le diedero moralità ed onore.

Se il processo di riqualifica culturale di questa regione, avviato ormai da tempo, è sulla buona strada, lo si saprà sol quando la Calabria, darà convintamente agio alle ‘lettere’ di farsi mezzo e prova ai suoi ‘maledetti’ processi di morale. Alle accuse infamanti a cui la confina il mondo, facendola passare da MagnaGrecia a terra di ‘ndrangheta.

– Togliete fuori le prove! – dice il giudice. 

– Eccole – risponde l’accusa. – Molte sono antiche, ma altrettante, recentissime. Diverse nascono semplice prove, ma alla dimostrazione dell’innocenza dell’imputata, guardi, signor giudice, come mirabilmente diventano storie. Quella del trittico delle lettere, per esempio, è una prova lampante che niente è perduto, tutto è recuperabile. La Calabria può avere colpe, ma non tragiche accuse. E questa prova, cari signori della corte, signor giudice, conferma non soltanto l’innocenza,  ma le attribuisce una lodevole riconoscenza. Per questo è giusto che qui, in quest’aula, oggi, io vi faccia i nomi degli illustri.

Filocamo, Strati e Pedullà 

Tre calabresi e tutti e tre compagni di studi all’Università di Messina. 

Carmelo Filocamo, Saverio Strati e Walter Pedullà, i tre allievi del maestro Giacomo Debenedetti. Gli allievi di spicco. I prediletti. I futuri scrittori. I meridionali non meridionalisti, ma intellettuali italiani.

Cattedra tra le più eccellenti di tutto l’ateneo, quella del professore torinese. Figura di rilievo della “Messina” d’autore. Critico di grande originalità, professore di un trio di studenti prodigiosi, e provenienti tutti da un’unica vena geografica: la Locride. 

«Anni magici per l’Università di Messina – dice Carmelo Filocamo. – Oltre a Debenedetti insegnavano Santo Mazzarino, il filosofo Galvano Della Volpe, lo storico Giorgio Spini, il geografo Lucio Gambi e Salvatore Pugliatti, il Rettore dell’Università, giurista di fama internazionale ed eccellente musicologo  che aveva la cattedra di Storia della musica».

Quelle di Debenedetti, non erano classiche lezioni universitarie, così come accadeva nelle varie facoltà dello stesso ateneo o in quelle viciniore con gli altri professori, ma tanta era l’intensità con cui il Debenedetti le presentava, che venivano considerate particolari momenti di attrazione. Studenti di altre facoltà, medicina e giurisprudenza, si recavano nella sua aula, per assistere alle sue lezioni, come fossero rappresentazioni narrative. Una simpatia e una stima quella verso il professore, che però non fu da tutti prontamente e neppure pienamente condivisa. Senza precise considerazioni infatti, e neppure senza necessari quanto valevoli preavvisi, gli verrà inaspettatamente soppressa la cattedra. Motivi interni. Politici. Ragioni che il “suo” trittico delle lettere non riuscirà mai pienamente a comprendere. I togati universitari infatti, i bacchettoni e filistei, così come vennero definiti da Giuseppe Neri, giudicarono Debenedetti non idoneo a ricoprire il ruolo di docente universitario. 

Una notizia folgorante, che destabilizzò molti. Tra i primi Saverio Strati che in una corsa contro il tempo, subito comunicò l’accaduto all’amico Pedullà con una lettera: “Carissimo Walter, ieri sono stato col professore. È successo l’inaspettato. Hanno soppresso la cattedra di letteratura moderna. Quindi il professore non verrà più a Messina. Era molto abbattuto, e molto preoccupato per noi, specialmente per te e Carmelo.[…] Scrivi al professore; dillo anche a Carmelo.[…]”

Rabbia, indignazione, sdegno per certi versi. E poi anche inquietudine, che colse in pieno Filocamo e Pedullà che, appurata da Strati l’inattesa nuova, scrissero immediatamente a Debenedetti: […]“ Sulle cause del provvedimento avremo occasione di discutere al nostro prossimo incontro. Hanno collaborato in egual misura l’anticomunismo di tutti i membri del Consiglio di facoltà; l’invidia di queste mezze figure della cultura, che non possono perdonarle di aver fatto capire agli studenti quanto poco degnamente essi occupano una cattedra universitaria.”[…]

Ma il genio di Debenedetti non poteva finire soppresso come la sua cattedra di Messina. Ai primi degli anni cinquanta infatti, il professore, vien chiamato dal Senato Accademico, presso la facoltà di Magistero, affidandogli  la cattedra di Letteratura Francese. Quella che Debenedetti meritava e che  gli fu concessa grazie anche alla pressione degli amici Pugliatti e Della Volpe. 

Una gioia che fu lo stesso professore a comunicare a Carmelo Filocamo con una lettera, esattamente il  10 giugno del ’58 . 

“[…]Non so se qualcuno ti abbia già detto che la facoltà di Roma mi ha affidato l’insegnamento della Lett. Moderna e contemporanea. È il posto che Ungaretti lascia quest’anno per limiti di età. […] E adesso speriamo che riesca ancora a farcela io; che si possa ricostruire la “nostra” scuola. Ti abbraccio. Tuo Giacomo Debenedetti.” 

Debenedetti non dimentichò mai, neppure a Roma, i suoi tre più grandi allievi. Non fu un trasferimento di cattedra a modificare il rapporto tra il professore e i suoi studenti. Avrebbe infatti voluto al suo fianco, come assistente Carmelo, Filocamo, che per dovere etico, forse, decise di non accettare e rimanere in Calabria. 

Già ai tempi di Messina, Debenedetti, aveva capito quanto grandi fossero i suoi tre allievi. Iniziando una delle sue lezioni, con l’aula piena, riferendosi a Saverio Strati non si era riuscito a trattenere: “Avevamo tra noi uno scrittore e non lo sapevamo”.

 “Il suo giudizio positivo – scrisse Strati –  è stato importante per varie ragioni. Prima di tutto mi ha fatto prendere coscienza che sono un narratore[…]. Il giudizio, positivo ed autorevolissimo, mi era venuto isperatamente, inatteso, dal maggiore critico letterario di questo secolo.”

Una traccia, un raccordo, un’identità, un riferimento preciso Giacomo Debenedetti, per il trittico meridionale per eccellenza.

Carmelo Filocamo, raccontava di Debenedetti come “un professore che raccontava la letteratura come un narratore racconta la vita”. 

Ma è ne “Il Novecento segreto di Giacomo Debenedetti”, che i ricordi di Walter Pedullà, completeranno il rapporto tra il professore e gli allievi calabresi: “Ho visto per la prima volta Debenedetti nel gennaio del 1951. Ventenne, ero con un coetaneo, Carmelo Filocamo- più tardi noto come enigmista con lo pseudonimo di Fra Diavolo, con cui lo segnalò Italo Calvino – e con Saverio Strati, che  aveva “ scoperto “ il professore torinese. Da allora fummo inseparabili come amici e come allievi di Debenedetti, che , cosciente delle nostre non floride condizioni, ci invitò più  di una volta a pranzo o a cena.[…].”

Una storia che narra di incontri casuali voluti dal destino. Un destino preciso di uomini del Sud, pronto a segnare quello universale della letteratura. Una staffetta di lettere e letterati che racconta chiaramente  quanto corta possa essere la distanza tra il Nord e il Sud del paese quando è la cultura a governarne i rapporti. Come accade con il professore Debenedetti e il suo amato trittico delle lettere.

Una sorta riappacificazione che avviene in maniera naturale, che non si assoggetta a contaminazioni, esula da stereotipi e pregiudizi, e nella sua integrità morale, riordina ma soprattutto ricongiunge eventuali e dolorose frammentazioni. 

È questa la forza della letteratura. E se lo chiedessimo al professore Walter Pedullà, unico testimone vivente del famoso trittico, quasi certamente ci darebbe ragione.

La strada delle lettere, che è l’unica che precede e che segue quella della vita dell’uomo, non ha coordinate geografiche che ne segnano i confini. È sconfinata. Difatti è letteratura e non cartografia. 

P.S. il mio ringraziamento particolare per aver potuto scrivere questo pezzo va alla cara Iolanda Filocamo, sorella di Carmelo, scomparsa qualche anno fa, e che mi fece avere i carteggi tra il professore Debenedetti e i suoi allievi, custoditi gelosamente nella biblioteca del fratello.

Walter Pedullà, un grande calabrese, si racconta su Repubblica

Walter Pedullà, autore, scrittore, critico letterario, ma anche grande calabrese e uomo profondamente legato al Sud. Oggi si racconta ad Antonio Gnoli nell’inserto culturale Gulliver di Repubblica. Nato a Siderno nel 1930, Pedullà è stato Presidente della RAI, ha insegnato per 50 anni Storia della letteratura moderna e contemporanea alla Sapienza di Roma, è autore di numerosi saggi.

«Ho sempre amato la mia terra, – dice a Gnoli Walter Pedullà – il mio paese che era abbastanza ricco e consentiva, a chi ne avesse avuto, voglia di crescere».

Dalle due pagine – che suggeriamo di leggere con attenzione oggi sul quotidiano La Repubblica – viene fuori un ritratto che rende onore a questo straordinario protagonista della scena culturale italiana. Un grande critico, un grande letterato, ma soprattutto grande calabrese. (rrm)