di RUGGERO PEGNA – Inutile nascondere la realtà: questa tragedia di Cutro si poteva evitare o, perlomeno, dal momento dell’individuazione, era un obbligo morale, etico, civile, cristiano, semplicemente umano, monitorare l’imbarcazione, avvicinarsi, capire la situazione, intervenire, soccorrere.
Averli abbandonati al loro destino, viste anche le condizioni del mare, è inaccettabile, crudele, da miserabili. Le dichiarazioni del ministro sono penose e impietose. L’autodifesa del comandante della Guardia Costiera che, comunque, ingenuamente ma spudoratamente ammette che si potessero salvare, aggiungendo di “essere provato umanamente ma professionalmente a posto”, è triste e imbarazzante. Ha affermato, secondo un linguaggio in questo caso incomprensibile, di aver rispettato “le regole d’ingaggio”, come se fosse una battaglia, un’azione militare o di polizia. In realtà, piuttosto, si trattava di aiutare centinaia di persone a raggiungere la costa ormai vicina in modo sicuro, un’autentica operazione di salvataggio e carità.
Quanto meno, sarebbe stato del tutto naturale, logico, anche emotivamente istintivo, fare il possibile per scongiurare la sciagura, ma barbaramente non lo è stato. La notizia dell’avvistamento molte ore prima dell’immane tragedia aumenta il dolore e la rabbia, quanto l’indifferenza sentita o subita di chi poteva e doveva intervenire. Non ci possono essere scuse, ragioni o attenuanti. Ormai centinaia di uomini, donne e bambini erano là, a pochi metri dall’urlare di gioia per avercela fatta, invece sono morti.
Stare a discutere se non dovessero proprio partire, o di altri argomenti da talk show, mentre dovevano essere aiutati e salvati, è privo di alcun senso, da qualsivoglia posizione di pensiero si guardi questa storia. A tutti gli effetti, potrebbe trattarsi di omissione di soccorso. Un’omissione ignobile, vergognosa, raccapricciante, da parte di chi è messo lì anche per salvare vite umane e non recuperare corpi esanimi. Quello che è accaduto a pochi metri dal traguardo sognato è una ferita profonda alla nostra umanità, alla civiltà, alle loro e nostre coscienze, annegate insieme alle vite d’intere famiglie con la speranza negli occhi.
Quando ho terminato di scrivere Il cacciatore di meduse, cercando di immedesimarmi in uno di loro, dopo qualche giorno l’ho letto e mi sono commosso più volte, pensando che si trattava di una storia vera, talmente vera da restarci un po’ male, ma sperando che potesse rimanere come la testimonianza di fatti del passato, irripetibili, mai più accaduti. Quando si scrive un romanzo, col tempo resta quasi un ricordo in uno scaffale, invece, queste foto di oggi, che arrivano da un luogo molto vicino, mi hanno riportato in quelle pagine, su quel barcone spezzato a pochi metri dal traguardo cercato e sognato di una nuova vita.
In una delle più belle canzoni di sempre, Ivano Fossati canta: «Mio fratello che guardi il mondo e il mondo non somiglia a te, mio fratello che guardi il cielo e il cielo non ti guarda, se non c’è strada dentro il cuore degli altri, prima o poi si traccerà…». Ci rimane da sperare che da tragedie così terribili si traggano lezioni di umanità e si possano tracciare anche nei cuori dei più indifferenti e cinici quelle strade che, almeno in questo caso, si sono perse nel buio di “una notte terribile”, una notte senza stelle che ha riempito i nostri occhi e i nostri cuori di bare scure e bianche.
Tanto dolore per tutte queste tante, troppe, nuove vittime di un sogno ed auguri a chi da oggi è con noi, nella nostra terra già difficile, ma capace di non essere indifferente ed essere piu’ generosa di altre nell’accoglienza e nel bisogno. (rp)