di PINO NANO – «Essere della Rai all’epoca era come far parte di una casta sacerdotale molto considerata da una massa crescente di devoti. Il noviziato lo feci a Roma in due conventi. Nel primo, il Centro di produzione di Via Teulada, si era impegnati in un telegiornale appena uscito da una costola del radiogiornale. Andava accreditandosi con linguaggi e contenuti del tutto nuovi rispetto a quelli del telegiornale di regime che era stato l’Istituto Luce e della stessa Settimana Incom del dopoguerra».
70 anni meravigliosamente ben portati. Per “mamma Rai” è il momento dei bilanci, e per la TV di Stato i bilanci sono assolutamente positivi ed esaltanti. Ma lo sono ancora di più per la storia della RAI in Calabria, e a cui Antonio Talamo, giornalista-scrittore-pioniere della nascita della Rai in Calabria, dedica il suo ultimo saggio: Al volo sulla giostra dell’informazione, Quando la Rai aprì una sede in Calabria, edito da Rubbettino Editore.
Un libro in cui il grande giornalista napoletano racconta il suo primo arrivo in Calabria, quando in macchina per raggiungere da Cosenza Reggio Calabria servivano almeno sei sette ore di viaggio, se tutto andava bene. Molte di più per arrivare in Aspromonte o nella Locride. Altri tempi, una stagione pionieristica che oggi sembra quasi una favola ma che è stata invece la storia della Calabria della fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60 e che Talamo ha percorso attraversato e vissuto per lungo tempo.
«Uno degli ultimi servizi per il telegiornale, al momento del congedo dalla redazione di Cosenza per trasferirmi a Napoli (ma non dal dovere dell’informazione sulle condizioni di disagio sociale dell’intero Mezzogiorno), fu una specie di pellegrinaggio laico al Santuario di Polsi. È lì che la devozione popolare celebrava i suoi antichi riti accanto a quelli inquietanti 69 della “onorata società”».
“Col nuovo operatore Giancarlo Geri raggiungemmo per chilometri di viottoli a bordo di dirupi, e con tutto l’armamentario di ripresa a dorso di mulo, quel recesso dell’Aspromonte. Quelle sarebbero state le ultime emblematiche immagini di una Calabria che andava scomparendo senza avere ancora un vero progetto di futuro. Ma forse è riduttivo riassumere quel primo decennio di vita della sede calabrese nella cornice dei soli risultati professionali conseguiti da un affiatato gruppo di lavoro. Va ricordato il forte sentimento di appartenenza ad una grande famiglia senza distinzione di ruoli. C’è una immagine che la descrive bene. È la foto della consegna dei doni della Befana ad una nidiata di bambini quasi tutti nati dopo quell’11 dicembre 1958».
Gli inizi di ogni cronista non sono mai facili, ma in quegli anni in Calabria un cronista era ancora guardato molto in cagnesco e con immensa diffidenza. Inizi difficili, dunque, anche per Antonio Talamo e che lui ricostruisce e racconta con la stessa avvolgente dolcezza con cui faceva la radio.
«Dietro ogni fatto c’era sempre una storia di persone che però quasi mai trovavo disposte alla confidenza. Alle domande rispondevano come fosse un interrogatorio con un sì o un no. Era una situazione di incomunicabilità che disorientava. Mi chiesi quale potesse essere la ragione, subito scacciando la prima che mi era venuta alla mente, (me ne vergogno ancora adesso), che fosse una sorta di afasia da incultura. Era un pregiudizio che, peraltro, non mi apparteneva. Il dialetto calabrese mi era familiare e dunque non poteva sfuggirmi che c’era tanta cultura quando alla gente di remote contrade si scioglieva la lingua nei canti. Magari avessi potuto volgere in domande e risposte la profondità delle cose dette su una melodia a voce spiegata o solo sussurrate come confessioni dell’anima».
Giornalista e scrittore, Antonio Talamo ha vissuto tutta la sua esperienza professionale quasi tutta in Rai, dove ha concluso la sua carriera brillantissima come Vice Direttore dei Servizi Giornalistici. Per venticinque anni ha curato la rubrica della prima rete radiofonica Qui parla il Sud. Dalla redazione di Cosenza prima, e poi da quella di Napoli, è stato per lunghi anni testimone del grande dibattito meridionalistico in corso nel Paese.
«Prima dell’inaugurazione della sede a Cosenza, per alcuni mesi avevo fatto il mio apprendistato a Roma, nella redazione radiocronache di Via del Babuino per il giornale radio e nel centro di produzione di Via Teulada per il telegiornale. Avevo cominciato ad assimilare quanto più possibile del mestiere da alcuni maestri del giornalismo radiotelevisivo, da Antonello Marescalchi a Nando Martellini a Paolo Valenti a Sergio Zavoli, e delle tecniche di ripresa audio-video. La squadra con cui mi accompagnavo nei servizi per il telegiornale sembrava quella di un set cinematografico. A Cosenza mi trovai a fare le stesse cose con una cinepresa senza sincrono, che mi obbligava a battere cinque ciak per due minuti di intervista. Ma nemmeno per un istante ci sentimmo i parenti poveri di un illustre casato».
Ma Antonio Talamo è stato anche un importante autore televisivo e radiofonico italiano. Sono suoi i documentari radiofonici più belli realizzati per la radio sulle aree più depresse del Sud dell’Italia.
«Era quello che suggeriva Corrado Alvaro in un messaggio in voce registrato in occasione del lancio del Corriere della Calabria. E dunque, per cominciare, niente di meglio del documentario che andava guadagnando ascolti e spazio nel palinsesto radiofonico. Era il genere di trasmissione con cui, avevo preso confidenza negli studi romani del Giornale Radio. Inoltre, si accordava bene con l’insieme del lavoro redazionale. Lo completava con quegli spezzoni di conoscenza dell’universo calabrese da rintracciare nelle pieghe della cronaca e ricomporre nella forma di quel Viaggio in Italia di Guido Piovene, che aveva dedicato alla Calabria una delle puntate più interessanti».
«La serie di Appuntamento in Calabria, durata alcuni mesi, la realizzai insieme ad Emanuele Giacoia. Il quale in coppia con Pupa Pisani era l’annunciatore della sede calabrese, ma anche il presentatore in rete nazionale di alcuni programmi. Fu probabilmente quella circostanza che affrettò il suo passaggio di lì a poco ai servizi giornalistici. Sarebbe diventato tra l’altro uno dei più apprezzati radiocronisti di Tutto il calcio minuto per minuto».
Nella sua veste di autore radiofonico, e poi ancora di giornalista televisivo, Antonio Talamo ha rappresentato più volte la Rai al Prix Italia nella sezione documentari, dossier e speciali per i quali ha ricevuto negli anni il Premio Napoli, il Premio Calabria, il Rhegium Julii, il Premio Chianciano, insieme a centinaia di altri riconoscimenti minori. Tanta radio, ma anche tanti saggi e tanti libri dedicati alla “nuova questione meridionale”.
«Fu specialmente Sergio Zavoli che mi fece prediligere la forma variamente declinata del documentario. Potei assistere alle ultime fasi di lavorazione di Clausura e rimasi conquistato dal modo con cui organizzava le parole e perfino i sospiri in un flusso di coscienza. Quei momenti li ho come il vero punto di inizio della mia avventura professionale. Che sarebbe cominciata da uno spazio, anche fisico, in cui c’era tutto da costruire nella dimensione di uno strumento del tutto nuovo. Fin dai primi giorni, quando a Cosenza con l’indimenticabile Alfredo Caputo nella funzione di caposervizio (la redazione eravamo noi due e qualche collaboratore esterno), dopo aver sistemato le scrivanie e i telefoni, dovemmo inventarci un modello di tutto, dall’organizzazione del lavoro a una forma espressiva più vicina alla realtà, che saremmo stati chiamati a testimoniare anche ad una platea più estesa di quella regionale».
Nella realtà di tutti i giorni, Antonio Talamo è stata una leggenda. Lo è stato per tutta la mia generazione. Lo è stato soprattutto per me, che lo guardavo con ammirazione, e con il desiderio di poterlo un giorno emulare. Ma non ci sono mai riuscito. Lui veniva dalla radio, e il linguaggio radiofonico era completamente diverso dal linguaggio televisivo. La sua voce, il suo timbro, la sua cadenza, la sua immensa cultura, il suo modo di porgere le cose, ne avevano fatto un maestro per noi irraggiungibile. Un giorno decisi di andarlo a trovare a Napoli, a casa sua, volevo conoscerlo più a fondo, e di quel giorno trascorso con lui conservo ancora un ricordo meraviglioso.
«I primi dieci anni della Rai calabrese mi avrebbero posto all’attenzione della rete con i documentari. Ne produssi una dozzina e uno dei primi, quello che vinse il Premio Napoli, lo feci a doppia firma con Enrico Mascilli Migliorini. Questo favorì un seguito di presenze nel palinsesto radiofonico persino col superamento dello storico steccato che separava il settore programmi da quello giornalistico. Mascilli era un direttore che non si rassegnava al ruolo che i palinsesti della Rai concedevano alle sedi minori. Allora usava ogni mezzo di seduzione con i vertici dell’azienda per forzare gli schemi inderogabili della programmazione».
Affascinante, avvolgente, sornione, carismatico, un giornalista completo, e soprattutto moderno, un intellettuale a cui puoi chiedere anche il pezzo più difficile, o un’analisi impossibile, ma con la certezza che il “maestro” alla fine ti scriverà l’editoriale che vorresti pubblicare alla sua maniera, impeccabile, perfetta, èlitaria.
Una eccellenza del giornalismo italiano, ma soprattutto –non vorrei qui rovinare la festa- una persona molto perbene. Immaginate la mia gioia quando mi disse «Diamoci del tu Pino, e chiamami Ninì, come fanno tutti i miei amici più cari». Un onore per me.
Questa sua Giostra dell’informazione, che Florindo Rubbettino ha stampato oggi per lui, andrebbe ora fatta conoscere nelle scuole di giornalismo e nelle università dove si tengono master di comunicazione, perché questo libro è nei fatti uno straordinario diario di viaggio – con tantissime fotografie in bianco e nero dentro una più significativa dell’altra – che insegna e che fa capire fino in fondo cosa sia la comunicazione moderna. Che è fatta, sì, di dettagli, di riferimenti storici, di location, di dichiarazione ufficiali, ma è fatta anche di emozioni e di sensazioni personali e intime, perché questo è il Talamo che noi in Calabria abbiamo conosciuto e amato. Un giornalista completo con una anima straordinariamente bella.
Un vecchio maestro, che neanche in questa occasione si tira indietro, ed è iconico l’appello che Talamo lancia dalle pagine del suo libro alle giovani generazioni, soprattutto ai giovani nuovi cronisti della Sede Rai calabrese.
«Ne conosco alcuni, quelli aziendalmente più anziani, che stimo molto e con i quali ho avuto qualche rapporto di lavoro. Mi rivolgo ai più giovani. Non so chi siano e come abbiano avuto accesso alla professione. A questi io dico di non contentarsi mai della rappresentazione routinaria, sbrigativa e alla fine semplicistica dei fatti che riguardano la loro regione. So per esperienza, avuta anche in altri contesti redazionali, che sono portati a trascurare o a trattare con sufficienza la cronaca minore (pur se mi rendo conto che la “maggiore”, la nera soprattutto, non lascia troppo tempo al resto e spesso assorbe la gran parte delle risorse redazionali). Però è bene che sappiano che non si cresce professionalmente se non si fa l’orecchio ai segnali deboli che vengono dalla società, e questi segnali bisogna andarli a cercare anche nelle pieghe degli eventi meno strillati».
«La Calabria ha bisogno di questi esploratori delle ragioni profonde della debolezza strutturale e del disagio sociale: non bastano i descrittori, più o meno bravi, dei fatti criminali e delle dispute politico-amministrative. C’è un’università che produce saperi utili al territorio, c’è un’imprenditorialità sommersa, ci sono infinite altre risorse impaludate in una mentalità e in un costume che le rendono indisponibili a un significativo processo di modernizzazione e di sviluppo. Queste risorse bisogna riportare alla superficie, e i media in questo possono fare molto».
La parte forse più commovente di questo saggio è la dedica finale che Talamo dedica alla sua famiglia e a Lalla, sua moglie: «Quando ci sposammo aveva venti anni. Aveva cominciato il percorso universitario con il massimo dei voti in alcuni esami. Fu dopo un trenta e lode in psicologia dell’età evolutiva che decise di lasciare gli studi per dedicarsi interamente alla famiglia e anche per sollevarmi da ogni preoccupazione in una fase molto impegnativa della mia attività. Mi resta il rimorso di non avere in seguito insistito abbastanza perché riprendesse il percorso universitario con la prospettiva di importanti opportunità professionali. È stata una grande madre, una grande sposa, è una grande nonna. Non finisco di ammirarla e di esserle riconoscente».
Tutto il resto è storia della radio e della televisione italiana.
Ci scrive Basilio Bianchini
Ho sentito, lo confesso, il desiderio di questa iniziale digressione per dare soddisfazione a un vezzo, che non è quello della retorica, ma semplicemente quello di sfruttare una successione di fatti per qualificare un periodo tutto dedito, almeno secondo le intenzioni del sottoscritto, alla valorizzazione della sede Rai nella Regione. Ci sono riuscito ? Non lo so. Ma un fatto è certo: se ciò è avvenuto è grazie al contributo di tutto il personale di Rai Calabria, che è un personale di prim’ordine.
Lo dico sulla scorta dell’esperienza che ha preceduto il mio arrivo in Calabria. Ossia l’essermi occupato delle sedi regionali presso la direzione Generale. Non farò nomi perché’ sarebbe ingeneroso nei confronti dei non citati e perché’ mi sono sentito il direttore di tutta la sede. Anche di chi per organizzazione aziendale e per la natura della professione non aveva una dipendenza gerarchica con la direzione di sede. Anomalia, questa, che non ha impedito l’esercizio da parte mia di una funzione a 360 gradi.
Quali i fatti e quale il bilancio? Per quanto riguarda i primi cito solamente il successo dell’operazione “Calabresi d’Argentina” che grazie al finanziamento della Regione dell’allora Presidente Chiaravalloti abbiamo potuto condurre in porto un progetto televisivo realizzato dalla nostra redazione, guidata da Pino Nano, e che ha visto la partecipazione di TGR e Rai International, sulla più numerosa comunità di calabresi nel mondo.
Intorno al secondo, il bilancio, non mi avventuro in calcoli e valutazioni che si rivelano spesso complicati e difficili da enumerare e quantificare. Ma ho la coscienza a posto perché al di là del saldo, che non sta a me fare, ho sempre lavorato nell’interesse della Sede calabrese. Conclusione scontata, lo so. Quale persona potrebbe inorgoglirsi del tradimento del proprio incarico aziendale? Tuttavia, mi faccio vanto del sentimento di lealtà che ho avuto nei confronti della sede che ho diretto e di quel po’ apprezzamento che forse il personale con cui ho lavorato mi ha riservato.
Infine, concludo citando un solo nome quale simbolico, deferente ricordo delle persone della sede di Cosenza che non sono più tra noi: Emanuele Giacoia, al quale mi legava una speciale simpatia.
Basilio Bianchini (Direttore della Sede RAI della Calabria dal 1 ottobre 1998 al 28 febbraio 2009)