L’OPINIONE / Guido Mignolli: Esperienze tragiche di rendicontazioni, tra incubi e tentazioni

di GUIDO MIGNOLLI – Dunque, cari signori, ci risiamo! Non vi è mai successo, in certi momenti, di essere assillati da un sogno ricorrente? Qualcosa tipo “il giorno della marmotta”..

Ti svegli sperando che sia stato solo un incubo notturno… E invece no! Ecco qua! È accaduto di nuovo! Realmente!

Chi, operando con i progetti di sviluppo, non si è trovato periodicamente a dover subire decisioni in apparenza sostenute dal ferreo patto fra numeri e norme, in realtà frutto di convinzioni e convenzioni, povero scudo a protezione dei deboli che si fanno forti? Chi non ha passato le notti insonni a meditare sul drammatico momento appena trascorso, con quelle parole che risuonano come un triste mantra: riconoscibilità della spesa, rendicontazione dei fondi, inammissibilità di quei costi…

Incubi notturni o tragiche realtà, chi non ne sarebbe travolto dovendo subire le esperienze – ripetute, ahimè – tra il paradosso e l’irrazionale, di qualificati controllori “esterni”, sguinzagliati alla caccia del terribile mucchio selvaggio?

Chi non resterebbe traumatizzato di fronte a sceriffi armati, sempre pronti a estrarre l’enorme pistola dalla fondina, immersi nelle tue fatture, con l’aria di coloro che finalmente hanno scovato la banda che risucchia i fondi comunitari dello sviluppo rurale? E tu, schiacciato nell’angolino, sei catapultato in un vortice di pensieri. E ti viene in mente di tutto. E ti senti colpevole. E poi, mentre osservi lo sceriffo che inumidisce il dito che sfoglia le carte, ti rimproveri per non aver avuto l’idea prima, ripercorrendo le atmosfere affascinanti e terribili dell’immensa biblioteca conosciuta da Guglielmo da Baskerville. E subito dopo ti penti, ma vedi il mucchio di carte con le spese che “hanno problemi” che cresce ininterrottamente. E cerchi di allontanare le tentazioni malevoli, per metterti nelle migliori condizioni e affrontare il tuo destino. Che in quel momento ha il viso glaciale di un revisore piantato davanti a te… Nulla di peggio può succedere che dover sbattere contro muri posti inopinatamente sul tuo cammino. Con i muri, per definizione, non vi è dialogo; sono solo una combinazione di laterizio e cemento, lontani dalla capacità critica che vada, solo di poco, oltre la mera forma.

Tranquilli, non intendo proporvi faticose e inutili interpretazioni tecniche in materia di rendicontazione di risorse pubbliche che il PSR Calabria destina ai GAL e alle imprese agricole, o far riemergere la solita contrapposizione fra coloro che “fanno”, con la fatica di operare in realtà delicate, e gli altri che giudicano dall’alto dei propri inespugnabili fortini, ma soltanto discettare molto brevemente sul significato dell’essere professionisti al giorno d’oggi. Sono sicuro che converrete non si tratta più solo di competenze tecniche. Quelle sono scontate, a volte esageratamente bisogna ammettere, mentre sono altre quelle che pur necessarie non rappresentano bagaglio di tutti. Già vedo gli sguardi vagamente sarcastici degli interessati, come a dire “che cosa c’entra il buon senso, la consapevolezza, la capacità critica, la ‘misura’ del comportamento, nel processo di decisione in materia economico-finanziaria?” Ho l’ardire di ritenere che siano fondamentali. C’è tutta una letteratura sul tema, istruttiva e divertente, che vi invito a ritrovare, dalla cinematografia di George Roy Hill e Alan Parker al contributo poetico di John Grisham, all’approccio epistemologico di Donald Alan Schön. Essere professionisti oggi è difficile e la categoria si assottiglia sempre più. Come quella più alta della nota classificazione di Sciascia, mentre le altre crescono a dismisura. “E che si fa a questo punto?”, vi domanderete. Non lo so. Forse per alcuni di noi è il momento dell’uscita di sicurezza, del nostalgico fermo immagine di Butch Cassidy, un attimo prima della fine, che rapidamente si deteriora sino a scomparire. (gm)

Guido Mignolli, Direttore GAL Terre Locridee

 

La Calabria è la prima regione ad avviare investimenti con Pnrr per ammodernare i frantoi

La Calabria è la prima regione ad avviare investimenti, con i fondi del Pnrr, per ammodernare i frantoi.

La conferma arriva da Arcea, che nei giorni scorsi ha avviato le procedure di liquidazione dei primi tre milioni di euro legati al bando, pubblicato a fine 2023, di cui nei mesi scorsi era stata definita la graduatoria definitiva.

La misura è finalizzata a sostenere la filiera olivicola che, per vocazione identitaria e valenza economica ed ambientale, è da sempre essenziale per la crescita della Regione: l’olivicoltura calabrese, caratterizzata dalla presenza di più di 100 differenti varietà coltivate su oltre il 24% della superficie agricola complessivamente utilizzata, costituisce un tesoro di biodiversità, arricchito da Dop e una Igp, con 70.000 ettari di coltivazioni bio ed una produzione che fa della Calabria la seconda regione più produttiva del Paese, grazie ai circa 700 frantoi operanti sul territorio.

«Nella nostra terra – ha detto l’assessore regionale all’Agricoltura, Gianluca Gallo – l’olivicoltura rappresenta un pezzo di storia, ma anche un motore di sviluppo economico, ambientale e culturale da sostenere ed anzi potenziare, per favorire qualità e competitività attraverso misure che consentano la salvaguardia e l’espansione del settore».

Da qui la scelta di utilizzare anche le risorse messe a disposizione dal Pnrr, pari a 16.567.725,31 euro, per accrescere la sostenibilità del processo produttivo con l’introduzione di macchinari e tecnologie capaci di migliorare le performance ambientali dell’attività di estrazione dell’olio extravergine di oliva, oltre che di ridurre la generazione di rifiuti e favorirne il riutilizzo a fini energetici.

Da segnalare anche l’obbligo di seguire percorsi di formazione in tema di produzione e degustazione degli oli Evo. Per garantire il finanziamento anche delle istanze giudicate meritevoli ma prive – al momento – di copertura, la Regione si è già attivata per intercettare risorse aggiuntive, ottenendo da subito un milione aggiuntivo e richiedendone altri 4.

Il rinnovo degli impianti tecnologici contribuirà anche al miglioramento della qualità degli olii e ad un generale incremento della sostenibilità della filiera olivicolo-olearia.

Peraltro, secondo criteri che fanno anche in questa circostanza della Calabria un caso unico, la concessione dei finanziamenti è stata abbinata all’obbligo (per gli operatori dei frantoi) di partecipare a corsi di molitura e (per i titolari degli stessi) a laboratori di assaggio, al fine di accrescere competenze degli addetti del settore e qualità del prodotto.(rcz)

Francesco, un Papa non sempre compreso

di PINO NANOCon la morte di Francesco se ne va via, per sempre, un grande Papa. 

Francesco, come lui amava essere chiamato da noi cronisti che frequentavamo la sala Stampa Vaticana, era soprattutto un Papa buono. 

Era un Papa cresciuto a pane e sacrifici, un Papa che arrivava a Roma da molto lontano, un Papa che aveva conosciuto e attraversato il dolore della terra Argentina fino in fondo, un Papa che aveva sofferto in prima persona l’atmosfera soffocante dei regimi totalitari del suo popolo, un Papa che per tutta la vita aveva sognato un mondo finalmente libero da ogni forma di condizionamento o di legacci ideologici.

Francesco era un Papa che aveva un innato un profondo senso del rigore, un Papa attentissimo a non calpestare mai gli altri, un Papa rispettoso del mondo degli ultimi, un Papa che sapeva essere pastore responsabile e insieme guida carismatica dei suoi fedeli, apostolo e testimone del suo tempo come nessun altro prima di lui forse era riuscito ad esserlo.

Francesco era il Papa dei contrasti, il Papa delle rotture, il Papa dei dubbi, il Papa degli eccessi, il Papa che conosceva i mille conflitti esistenti all’interno delle mura vaticane e che fino all’ultimo aveva provato a cambiare le cose. 

Autorevole, assolutamente consapevole del suo peso e del ruolo del suo magistero, Francesco avrebbe potuto dimettersi molto prima di morire, ne avrebbe avuto mille ragioni serie per farlo, e invece è rimasto al suo posto, fino all’ultimo, difendendo le ragioni della pace rispetto ad una guerra atroce e violenta come quella che ha messo in ginocchio il popolo ucraino.

Mi chiedo, ma come si farà a dimenticare l’immagine tristissima, e quasi patetica, di questo Pontefice in carrozzella che domenica di Pasqua trova ancora la forza di un respiro, per salutare per l’ultima volta il suo popolo?  

Come si farà a dimenticare l’abbraccio tenerissimo che Francesco, ormai sfinito e quasi imbalsamato, riserva e dedica al bimbo che domenica di Pasqua i suoi uomini di scorta gli poggiano tra le braccia? 

E come si farà a dimenticare il volto quasi impassibile di questo Papa che da lì a poco sarebbe salito al cielo, e che durante la sua lunga malattia non ha mai pensato un solo istante a se stesso, e al dolore che lo aveva reso schiavo e dipendente per sempre?

Ricordo che all’inizio del suo Pontificato, faceva quasi impressione immaginare la sua vita all’interno delle sue stanze sistemate e adattate per lui a Santa Marta, ma Francesco aveva voluto rompere con il passato. Lo aveva fatto di proposito, scientemente.

Voleva dimostrare al suo mondo, più che all’esterno, che era finalmente finito il tempo dei privilegi, o il tempo delle esagerazioni assurde, dimostrando invece con i fatti che un Papa poteva sopravvivere lo stesso nel chiuso di due stanze.

Ricordo ancora con immensa commozione il giorno in cui le telecamere della Rai lo inquadrano mentre sale sull’aereo per una delle sue prime missioni all’estero e l’obiettivo fa vedere in maniera davvero impietosa e irriverente al mondo intero le sue scarpe bucate. O lui, in una occasione diversa, che sale sulla scaletta dell’aereo portandosi per mano e trascinandosi dietro il suo sacco da viaggio. 

Era il senso del cambiamento. Era l’immagine forte della novità. Era la prova provata che il Papa argentino avrebbe rivoluzionato i tempi e i modi di vivere dei Palazzi Vaticani.

In giro per il mondo, eternamente avvolto e accarezzato da milioni di persone, poi un giorno lo ritroviamo solo con sé stesso, solo con la sua croce, abbracciato al legno del crocefisso, lui da solo, al centro della Piazza di San Pietro, negli anni in cui il mondo è oppresso dal Covid, e lo ritroviamo più forte di prima, più convincente che mai, più determinato che mai. 

Un Papa di cui sentiremo parlare negli anni che verranno, ne sono certo, per il coraggio di certe sue posizioni e di certe sue affermazioni. 

Francesco è il Papa che scende per un giorno in Calabria e che nel cuore infuocato della Piana di Sibari lancia il suo anatema contro la ‘ndrangheta, duro, feroce, diretto, quasi un pugno nello stomaco di una società per anni sonnolenta ed educata al silenzio. E per un giorno, Francesco diventa l’apostolo dei Sud del mondo, il difensore dei diritti civili, il passionario dei valori tradizionali della famiglia, il confessore pubblico di un popolo che non sa più in cosa credere e in cosa sperare.

E che dire delle sue ultime volontà? 

«Il giorno della mia morte riportatemi ai piedi della Madonna che tanto ha aiutato la mia vita e la mia missione pastorale». Francesco aveva già scelto da tempo il luogo della sua sepoltura, e per la prima volta nella storia ecco che un Papa lascia le mura Vaticane per riposare sotto la cripta della Basilica di Santa Maria Maggiore. 

È la discontinuità con il passato. È la voglia di riaffermare la sua libertà personale. È il desiderio soprattutto di riaffrancare se stesso difronte al mondo che lo guarda. E nel suo caso, sarà ancora una volta il linguaggio del corpo a tramandare di lui il ricordo più tenero e più bello, avvolto per questo suo ultimo viaggio terreno dalla Basilica di San Pietro alla Basilica di Santa Maria Maggiore da una semplice bara di legno e zinco priva di fregi e di inutili orpelli.  

Cosa sarà dopo di lui? È difficile dirlo, difficile immaginarlo, ma una certezza credo di averla e di poterla anche esprime in pubblico a tutti voi. 

Nulla sarà più come prima. Perché l’esempio di Papa Francesco ha già profondamente segnato la via maestra della Chiesa moderna, sempre più aperta e votata ai valori spirituali dell’uomo, e sempre più nemica dichiarata degli interessi materiali di una società educata all’ opulenza e alle tentazioni del corpo.

Ma è proprio questa forse la vera grande vittoria morale e finale di questo Papa non sempre compreso e non sempre amato per come avrebbe invece meritato di essere. (pn)

[Courtesy BeeMagazine]

Grazie Francesco per averci mostrato un cammino di autentica fede

di ANTONIO STAGLIANÒ – Carissimo Papa Francesco,

Ora che hai raggiunto la luce eterna, immagino il paradiso colmo della gioia che hai seminato sulla terra. Il tuo cuore immenso, capace di accogliere ogni sofferenza con tenerezza, non smetterà mai di pulsare nei cuori di chi ti ha amato e seguito.

Hai camminato tra noi con l’umiltà di chi non cerca onori, ma solo il bene degli ultimi, degli emarginati, dei piccoli e dei dimenticati. Ci hai insegnato che la vera grandezza sta nel servire, che la fede non è sterile devozione ma azione concreta nella carità. Hai aperto le porte della Chiesa affinché fosse una casa per tutti, senza esclusioni, senza barriere, e hai chiesto al mondo di guardare a Cristo con occhi pieni di misericordia.

La tua voce, così ferma e coraggiosa nel denunciare le ingiustizie, è stata luce per chi vagava nel buio della povertà, della guerra, della disperazione.

Hai lottato con la forza del Vangelo, sempre con il Crocifisso nel cuore, credendo in un Dio che libera, che ama senza misura, che abbraccia ogni figlio con infinito perdono.

Grazie, Papa Francesco, per averci mostrato un cammino di fede autentico, per averci insegnato che la speranza non è utopia ma certezza fondata sulla carità. La tua eredità non si spegne, ma continua a germogliare nei gesti di chi ha scelto di seguire la tua testimonianza.

Riposa ora nella pace del Padre, circondato da quell’amore infinito che hai saputo donare a tutti noi. (rrm)

[Don Tonino Staglianò è presidente della Pontificia Accademia di Teologia]

La Calabria piange Papa Francesco, guida di speranza e coraggio

di LUIGI SALSINI – Con profonda tristezza apprendiamo la notizia della morte di Papa Francesco. Mesi difficili hanno segnato la sua salute, con frequenti ricoveri e sofferenze, eppure non ha mai smesso di essere una guida spirituale per milioni di fedeli. La sua scomparsa arriva proprio mentre ci apprestiamo a vivere il Giubileo, un evento che assume ora un significato ancora più profondo.

Come calabresi, ovunque nel mondo, e soprattutto nella nostra terra, non dimenticheremo mai le parole di Papa Francesco pronunciate dalla Piana di Sibari nel 2014, in seguito all’atroce omicidio del piccolo Cocò Campolongo, un bambino di soli tre anni ucciso e bruciato dalla criminalità organizzata a Cassano allo Jonio. Fu un momento di grande dolore, ma anche di speranza, grazie alla sua voce forte e chiara contro ogni forma di mafia.

La Calabria gli sarà sempre grata. Papa Francesco ci ha lasciato proprio nella Pasqua che stiamo concludendo di celebrare: un gesto di amore fino alla fine, un grande sforzo fisico che non dimenticheremo mai. Gli siamo profondamente riconoscenti. (ls)

 

Francesco, un Papa nell’umiltà del mistero divino

di PIERFRANCO BRUNI – «Chi non soffre con il fratello sofferente, anche se è diverso da lui per razza, per religione, per lingua o per cultura, deve interrogarsi sulla sincerità della sua fede e sulla sua umanità. Sono stato molto toccato dall’incontro con i rifugiati Rohingya e ho chiesto loro di perdonarci per le nostre mancanze e per il nostro silenzio, chiedendo alla comunità internazionale di aiutarli e di soccorrere tutti i gruppi oppressi e perseguitati presenti nel mondo», (Papa Francesco).

La misericordia di Papa Francesco. Un uomo in Cristo. Un Pontefice in carità. Ci fu la misericordia in parole di fede e di amore. Assunse subito San Francesco d’Assisi come riferimento di apostolato e seppe coniugare con amore e benevolenza i gesuiti e i francescani. Un camminamento. La fede è cammino.

Lunedì dell’Angelo. Papa Francesco non c’è più. Ovvero Papa Bergoglio in un giorno particolare ha lasciato il viaggio terreno. Oltre al cordoglio resta il vuoto di un pontefice che ha rivoluzionato non solo la Curia e il sistema “pontificale” ma ha cambiato il modo di pensare la fede.

Sì, anche se la fede è un mistero unico con lui la fede stessa è diventata un credo “popolare” tra le genti scavando nei cuori e nelle Genti. Un cammino che è stato attraversato soprattutto da un uomo di Dio che ha saputo ben comprendere non il tempo che cambia ma il mondo cambiato da un tempo pieno di contraddizioni e di lacerazioni.

Un uomo che ha fatto del papato la vera sede della accoglienza e del Vangelo. Non era facile dopo due papati importanti e “ingombranti” nelle civiltà del mondo inserirsi in quella Tradizione innovativa di Giovanni Paolo II e in quella Tradizione conservatrice di Benedetto XVI. Eppure Francesco, dopo i primi inizi un po’ incerti, ha colto l’Essenziale. Quale è l’Essenziale? È aver proiettato nell’uomo moderno la parola di Maria e la parola forte di Cristo.

L’Essenziale è in modo apostolico non la forma orante della Chiesa, bensì la preghiera dell’umiltà. Quel «pregate per me…» suonava come il pregare per tutti noi, ovvero un pregare per l’uomo. Eppure ha vissuto diverse problematiche. Un gesuita che portava sempre con sé la lingua di Sant’Ignazio.

La innovazione della rivolta rispetta a una Chiesa in attesa. Francesco ha superato l’attesa perché ha saputo cogliere proprio quell’essenziale che vibra in ogni uomo e che a volte resta velato. Ha saputo disvelare il buio delle crisi con un umanesimo cristiano.

Infatti ci sono stati messaggi politici e messaggi escatologici. Quello politico è il superamento della storia e insistere nella centralità dell’anima. Quello escatologico è il Dio che decide e al quale affidarsi proprio attraverso la preghiera. Direi un uomo maestoso che ha usato la parola dell’agorà. Un Pontefice singolare per aver messo al centro il dialogo tra l’uomo del nostro tempo e l’universalità di Dio.

Credo che sarà molto difficile vivere una continuità oltre Francesco. Tra Giovanni Paolo e Benedetto c’era una condivisione sul piano religioso e teologico. Francesco è stato un darsi agli altri con la consapevolezza che gli altri ci sono sempre e possono essere l’espressione della carità. Carità che proviene dal francescanesimo. Mi restano sulla pelle alcune sue parole quando disse: «A me fa male quando vedo un prete o una suora con un’auto di ultimo modello: ma non si può! Non si può andare con auto costose. La macchina è necessaria per fare tanto lavoro, ma prendetene una umile. Se ne volete una bella pensate ai bambini che muoiono di fame».

Una visione profondamente spirituale che ci lascia come testamento. Da consegnare a tutta la comunità dei fedeli e dei cristiani laici e al mondo sacerdotale. Il tutto in misericordia di gesti e di linguaggio. Tutto si innova nel nome dell’abbraccio misericordioso. Ovvero nella speranza. Mai perderla. Mai disconoscerla. Sempre offrirla.
Ora si apre non un capitolo nuovo. Ma un’epoca diversa. Mi auguro che non si vada verso discussioni sterili.

Ma verso una Chiesa che sappia comprendere i tre ultimi pontificati con pazienza e umiltà per dare un senso a una Santità di cui gli uomini di un tempo di intelligenze artificiale hanno necessariamente bisogno. (pb)

Una memoria che non tramonta

di MONS. FRANCESCO OLIVARitornando indietro nel tempo (dicembre 2013-gennaio 2014), vengono in mente eventi che il tempo non consuma. Cassano all’Ionio, piccola diocesi del cosentino.

Era la fine del 2013 e gli inizi del 2014. Era stato da poco nominato Vescovo della diocesi un presbitero di Cerignola don Nunzio Galantino. C’era un clima di grande entusiasmo ed attesa. Papa Francesco aveva individuato nel vescovo di Cassano all’Ionio il nuovo Segretario generale della Cei.

Una scelta che aveva suscitato sorpresa, ma anche preoccupazioni per il futuro della diocesi. Tornano in mente tanti ricordi. Bei ricordi! Come quello del tempo natalizio, quando papa Francesco chiese a “don Nunzio” la disponibilità al servizio in Cei come segretario generale. Don Nunzio, pur disponibile, nutriva non pochi dubbi.

Come dirlo alla Comunità diocesana, che già si sentiva penalizzata per i frequenti trasferimenti del proprio vescovo? Come questa avrebbe accettato l’evenienza di un suo trasferimento? In realtà si percepiva una certa preoccupazione nella chiesa locale, perché eventi del genere si erano verificati più volte in passato. Don Nunzio descrisse bene questa situazione al santo Padre, che comprese le ragioni del disagio e di una possibile reazione.

La risposta del papa fu quella del Padre, che ascolta e dialoga con i suoi figli. Con una lettera manoscritta si rivolse alla comunità diocesana, quasi a voler “scusarsi”, per aver richiesto la collaborazione del suo vescovo. In essa il papa esprimeva il desiderio di voler conoscere personalmente la comunità diocesana. La lettera destò molta sorpresa ed una reazione positiva di profonda soddisfazione e gioia interiore. Si vide in quel gesto un segno dall’Alto, da comprendere alla luce dell’agire dello Spirito che opera in chi è chiamato a guidare la Chiesa.

Quella lettera era un evento unico nella memoria storica della nostra Chiesa: un Papa che porge le proprie scuse ad una comunità per un atto che rientra nelle sue competenze! Quella lettera, conservata nell’archivio della diocesi, fu distribuita a tutti, sacerdoti e fedeli laici. Si avvertì una generale ammirazione, per quel gesto che faceva sentire la vicinanza del papa. Roma non era poi così lontana: non lo era soprattutto il papa. Personalmente credevo (e credo) alle sorprese dello Spirito. E quella lettera lo era.

Il desiderio espresso dal santo Padre di volerci incontrarci e conoscere era il nostro grande sogno. Leggendola mi balenò un pensiero: perché non presentare domanda al Santo Padre con invito a venire in Diocesi? Fu così che il testo preparato fu sottoscritto da tutti i sacerdoti e consegnato direttamente al santo Padre, che, appena lo lesse, reagì prontamente: “Verrò”. E così avvenne cinque mesi dopo il 21 giugno 2014.

L’attesa divenne invocazione, gioia, preghiera.

La visita venne preparata in breve tempo. Don Nunzio, indimenticabile vescovo di Cassano, fu il vero artefice dei preparativi, difendendo gelosamente il carattere “diocesano” della visita.

Papa Francesco arriverà in diocesi il 21 giugno alle 9, atterrando in elicottero nel piazzale del carcere di Castrovillari, per la visita ai detenuti, al personale penitenziario ed alle loro famiglie. Dopo una breve cerimonia di accoglienza, fece visita al vicino centro di cure palliative per malati terminali “San Giuseppe Moscati”. In Cattedrale, incontrò in forma riservata il clero diocesano. Ed alle ore 13 il pranzo al seminario diocesano “Giovanni Paolo I”, insieme ai poveri della Caritas diocesana ed ai giovani della comunità terapeutica “Saman”. Nel pomeriggio, l’incontro con gli anziani della “Casa Serena”. E subito la ripartenza per Sibari, ove sarà celebrata la Santa Messa nella spianata dell’area ex Insud, con inizio fissato alle 16.30. Dopo aver attraversato i diversi settori a bordo della papamobile, per stringere in un unico, affettuoso abbraccio le decine di migliaia di fedeli venuti da tutta la Calabria e dalle regioni viciniori.

Il Papa, per il quale oggi tutta la Chiesa prega, dedicò un’intera giornata alla Diocesi di Cassano in terra di Calabria, compiendo gesti profetici che rimarranno indelebili: la visita al carcere di Castrovillari, il pranzo con i poveri, piccoli gesti quali la stretta di mano e la benedizione ad una ammalata con gravi disabilità fermando la papamobile lungo il percorso che dal centro cittadino portava a Sibari.

Ma anche la bella omelia pronunciata davanti a più di 200 mila fedeli, ricca di parole di fede e di speranza, parole evangeliche, che non ho mai dimenticato. È rimasta nella memoria la condanna espressa senza mezzi termini nei confronti della ‘ndrangheta:

«La ’ndrangheta – disse – è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no! La Chiesa che so tanto impegnata nell’educare le coscienze, deve sempre di più spendersi perché il bene possa prevalere. Ce lo chiedono i nostri ragazzi, ce lo domandano i nostri giovani bisognosi di speranza. Per poter rispondere a queste esigenze, la fede ci può aiutare. Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!».

Parole dure che sgorgarono dal cuore di un pastore venuto da lontano, che conosceva il male provocato da tale associazione criminale a questa terra della Locride ed alla Calabria, «terra tanto bella, che conosce i segni e le conseguenze di questo peccato». 

In quella breve visita alla Chiesa di Cassano papa Francesco ha incontrato tutta la Calabria. Essa ha rappresentato un tempo di grazia per la diocesi di Cassano e per l’intera Calabria. Ma anche per me, che in quel breve passaggio del santo Padre ho colto parole di speranza, concreti orientamenti e indicazioni illuminanti per il mio futuro ministero pastorale nella diocesi di Locri-Gerace. (fo)

[Mons. Francesco Oliva è vescovo Diocesi Locri-Gerace]

Quando Papa Francesco nel 2014 venne a Cassano allo Ionio

di GIOVANNI PAPASSO – Se ne va il Papa che più di tutti ha segnato la comunità Cassanese. Il 21 giugno 2014 rimarrà scolpito nella memoria e nel cuore della gente di Cassano All’Ionio. L’abbraccio e la paterna benedizione di Papa Francesco sono stati per tutti un onore ed un privilegio.

Sono ancora vive le immagini e le emozioni di quella giornata particolare ed irripetibile, che resterà incisa in maniera profonda ed indelebile nella storia di Cassano All’Ionio e della Calabria intera.

La gioia ha illuminato gli occhi di ogni singolo cittadino, nel mentre le strade di Cassano e la spianata di Sibari erano stracolme di gente venuta da ogni dove. Ad abbracciare il Santo Padre, quel giorno, è stata una folla immensa, commossa ed allo stesso tempo composta e tranquilla.

È innegabile che il passaggio di Papa Francesco nella nostra terra, il suo benevolo sorriso e, in particolare, le sue parole hanno acceso una luce di speranza nuova nel cuore di tutti, tanto che il 21 giugno 2014 segna la data di inizio di quel cambiamento di cui si aveva grande ed urgente bisogno.

Le sue parole di condanna alla mafia ed alla criminalità organizzata, culminate con la scomunica, hanno assunto la sembianza di un forte vortice che dalla Spianata di Sibari si è propagandato fino a raggiungere le coscienze di tutti i calabresi e dei cittadini del mondo intero.

Soprattutto, quelle parole  hanno  rinvigorito  l’animo  di noi amministratori, che ci siamo sentiti più motivati e forti, più predisposti a lavorare per costruire  una società migliore, più giusta e  solidale e, specialmente, libera dalla violenza e dalla prepotenza  di quei poteri occulti, che condizionano la vita degli onesti e pregiudicano  il futuro di questa  nostra terra ricca e bella, che vuole reagire e progredire nella tranquillità dell’ordine sociale, scrollandosi  di dosso definitivamente l’etichetta di “terra amara”.

Dopo quella giornata ci siamo sentiti più predisposti a “proteggere la casa comune”, a custodire l’ambiente ed il bellissimo paesaggio naturale, che il Creatore ha voluto regalare a questo bellissimo lembo di terra di Calabria; soprattutto a lavorare per il benessere collettivo, rivolgendo lo sguardo, in primis, ai bisogni degli ultimi e degli svantaggiati.

La venuta di Papa Francesco è rimasta incisa in maniera indelebile soprattutto nell’animo dei nostri giovani: l’esortazione del Santo Padre a “non lasciarsi rubare la speranza” continua ad essere un faro che illumina il loro cammino; parole che li guideranno nella costruzione del futuro; che li incoraggeranno  a “pensare alla grande” e  a  “fare rumore”  per cambiare il destino di questa nostra terra che  per  le potenzialità,  le  ricchezze naturali e culturali che esprime e per la gente onesta, laboriosa  ed ospitale che la abita, può coltivare il sogno di  un domani diverso e migliore.

Ciao Papa Francesco, che la terra ti sia lieve!

[Giovanni Papasso è sindaco di Cassano allo Ionio]

Papa Francesco, in Calabria cenacoli di preghiera ovunque

di PINO NANOIl 21 giugno del 2014 Papa Francesco sbarcava in Calabria e a Cassano allo Jonio tenne una delle sue omelie più forti contro la ‘Ndrangheta. Per ricordare quel giorno, siamo andati a cercare uno dei giornalisti che più ha parlato e ha scritto di lui e di quella visita, e che il 18 marzo prossimo ha festeggiato i suoi primi 25 anni di sacerdozio.

Don Enzo Gabrieli, sacerdote e giornalista di vecchia data, è stato Vicepresidente della Federazione Italiana dei Settimanali cattolici (Fisc) e membro del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria. Oggi lui è direttore del settimanale diocesano di Cosenza-Bisignano “Parola di Vita” e dell’annessa radio Jobel InBlu. Scrittore e parroco di Mendicino, è un personaggio di grande cultura e di grande modernità.

– Don Enzo come ricorda lei l’arrivo del Papa a Cassano, in Calabria?

«Lo ricordo come un grande evento di Chiesa ovviamente. La notizia della sua visita lasciò tutti a bocca aperta. Fu una grande sorpresa, e ancor più divenne un evento di benedizione e di grazia per la nostra terra. Cassano resterà nella memoria dei calabresi e dell’intera chiesa perché nella spianata di Sibari si è ripetuta l’azione profetica dei grandi pontefici contro la malavita organizzata contro la ‘ndrangheta. Così come aveva fatto San Giovanni Paolo Secondo ad Agrigento, gridando contro i mafiosi, così Francesco con quella omelia nella quale scomunicò gli uomini appartenenti alla criminalità organizzata».

«Fu un grande sussulto all’interno e all’esterno della Chiesa e diede una grande spinta all’episcopato Calabro e a quanti silenziosamente, laicamente, o in maniera religiosa, ogni giorno alzano argini educativi e di bene in questa terra che dopo qualche mese i vescovi definirono “bella ed amara”».

– Nessuno meglio di lei credo conosca all’interno della Chiesa calabrese la portata dei tanti documenti prodotto e sottoscritti contro la mafia…

«Ho avuto il dono in quel periodo di poter lavorare alla raccolta di tutti i documenti che nell’ultimo secolo l’episcopato calabrese ha prodotto contro la criminalità, imbattendomi in pagine di profonda riflessione e non solo di denuncia, alcune delle quali mostrano una graduale presa di coscienza dell’intera società di un fenomeno difficile da interpretare ancor più difficile da combattere. Dove solo l’alleanza tra le istituzioni può fare d’amore».

«I vescovi vollero titolare quella raccolta con una frase forte, ovviamente in linea con le sollecitazioni del Santo Padre: la ‘ndrangheta è l’anti Vangelo. Già dal titolo, una evidente chiara presa di posizione.  Da quell’appuntamento che è diventato ormai una pietra miliare per il cammino formativo della Chiesa e dell’impegno sociale e politico dei cristiani sono nati dei laboratori che richiedono ovviamente tempo sia sul fronte della pietà popolare, sia sul fronte della formazione dei futuri sacerdoti, che dall’impegno in parrocchia e delle associazioni nel territorio».

«Se qualche dubbio poteva manifestarsi a causa del comportamento ambiguo, connivente o superficiale di alcuni uomini di chiesa che storicamente o nella cronaca hanno mostrato fragilità e debolezze, dopo la visita del Santo Padre non ci sono più spazi per una qualsiasi forma di connivenza o giustificazione. La strada è stata tracciata».

– Posso chiederle perché la scelta fu Cassano e non Cosenza?

«Il Papa sceglie personalmente dove andare. Quella fu una visita pastorale ad una chiesa, non alla Regione Calabria come fece Giovanni Paolo secondo nel 1984. Scelse Cassano perché forse il vescovo aveva chiesto la presenza del Santo Padre in quella chiesa. Va anche ricordato che c’erano stati dei fatti molto brutti legati alla morte di un bambino e alla violenza perpetrata contro un sacerdote».

«Ma penso che la visita del Papa venga sempre organizzata nell’ambito di un progetto pastorale più grande, e non solo legata ai fatti di cronaca, che però possono essere un’occasione per dare un indirizzo hai credenti all’intera società. Penso alla sua prima visita pastorale, la sua prima uscita, che volle fare proprio a Lampedusa per ricordare come il Mediterraneo sia diventato un cimitero ed un mostro che inghiotte i suoi figli che cercano speranza e futuro scappando dalla disperazione, dalla povertà e dalla guerra».

– In che modo il suo giornale ha raccontato l’evento?

«Ovviamente abbiamo dato tanto spazio all’evento e ci siamo cimentati nell’esperienza degli inviati. Erano i primi anni di lavoro sistematico del nostro settimanale che si andava collocando in uno spazio di narrazione attraverso la penna e la voce di giovani giornalisti in erba. Giovani che avevano ereditato un grande patrimonio, e che è quello di parola di vita che sta per compiere i suoi 100 anni.  Ci siamo cimentati anche nella preparazione di interviste alle persone e non solo a riportare la cronaca dagli eventi. Penso che fu uno dei primi reportage che ci ha visti coinvolti come squadra del giornale diocesano».

– Che Papa ricorda e che Papa ha incontrato a Cassano?

«Erano i primi anni di pontificato Di Francesco e lo ricordo, come tutti gli osservatori calabresi ma anche come sacerdote, nella sua energia più piena e nella sua passione di pastore. Ricordo i fotogrammi di quella omelia profetica, ma anche la decisione di far fermare il corteo papale per poter salutare delle persone che da ore lo attendevano sulla strada. Il Papa della gente. Il Papa che ha toccato e continua a toccare il cuore della gente e dei semplici. Le persone si sentono capite da questo Papa e attualmente, in questo momento di sofferenza e di malattia, il Santo Padre ci sta insegnando a riportare tutto al cuore».

– La visita in carcere, la visita dal piccolo Cocò. Una omelia contro la mafia, la Calabria se l’aspettava?

«Probabilmente i calabresi si aspettavano tutte queste diverse visite, così come fa di solito il Papa, che inserisce nei suoi viaggi sempre un appuntamento con chi è nella sofferenza, con chi è in carcere, con chi ha sbagliato nella vita. Le sue visite sono sempre state, e sono ancora, anche il momento di richiamo e di attenzione ai grandi fenomeni sociali come le migrazioni e le povertà. Ma non ci si aspettava forse il forte intervento del Papa a Cassano contro la mafia, perché essendo stata annunciata come una visita ad una chiesa e non alla terra di Calabria sembrava una visita più legata ad un momento pastorale e di incontro con una porzione del popolo di Dio che è in Cassano all’Jonio».

– Andò tutto in altro modo?

«Ma Papa Francesco riesce a meravigliare sempre, a stupire, e questo non per creare l’evento ma perché come pastore della Chiesa universale sa bene di quello che ha bisogno un territorio in quel determinato momento storico. E poi, ogni azione e ogni insegnamento del Papa, aprirsi a livelli diversi, è sempre un atto di magistero per la Chiesa intera. Non è mai un fatto isolato, è legato strettamente ad un determinato territorio soltanto. Il Papa quando parla lo fa a tutti i credenti, e anche ai non credenti».

– Dopo 11 anni da quella visita cosa è rimasto nella gente del luogo?

«Alla chiesa di Cassano è rimasta sicuramente la memoria grata ed un tesoro di insegnamento che rimane come un monumento storico innalzato per tutta la Calabria. Ai calabresi è rimasta la grande denuncia contro quella piovra che stritola la nostra terra e che estende i suoi tentacoli verso il mondo. È rimasta la chiara presa di posizione alla quale si possono ancorare i credenti per purificare la religiosità popolare, sentirsi confortati e aiutati nei no che vanno detti, non solo alla criminalità organizzata ma anche ad una cultura mafiosa e a strutture sociali di peccato e di ingiustizia che possono stritolare il nostro territorio facendolo cadere nel fatalismo e nella rassegnazione. Quella visita è stata una visita di grande speranza per la terra di Calabria».

– Il ricovero del papa al Gemelli coincide anche con il suo venticinquesimo di sacerdozio…

«Sì, la mia vocazione è nata sotto Giovanni Paolo II del quale conservo sempre una grande memoria grata e una profonda devozione. Si è alimentata con gli insegnamenti di Papa Benedetto e trova una grande spinta pastorale nella testimonianza di Papa Francesco. Uno stimolo a fare meglio, a fare bene, a volgere lo sguardo alle povertà e agli ultimi. Questa tappa del mio sacerdozio è un’occasione per dire, come più volte ha detto lui, che guardando indietro rifarei la strada percorsa, tra luci e ombre, fragilità e sofferenze, fra attese e tantissimi doni di Dio, fatti di incontri, di volti e di provvidenza, perché non ricordo niente in cui non ci sia il Signore».

– Le faccio una domanda irriverente: se lei potesse tornare indietro rifarebbe il prete?

«Certamente. Ma non come mia scelta, ma perché mi sento scelto e chiamato a qualche cosa di molto più grande, ma allo stesso tempo immerso all’interno di un dono e di un mistero che mi supera, che mi sovrasta, che mi avvolge e che mi dà tanta gioia. Sono felice di essere stato chiamato a fare il sacerdote e di avere risposto, nonostante le mie fragilità, con il mio sì a Cristo nella Chiesa. Posso testimoniare che ci sia anche qualche rinuncia, qualche scelta l’ho dovuta fare, così come si fa in ogni scelta di vita, ma  ho ricevuto già il centuplo quaggiù, come ha promesso Gesù, a quanti hanno deciso di seguirlo».

– A chi deve questa scelta?

«La mia vocazione è nata in una famiglia religiosa di emigranti calabresi rientrati con la mia nascita in Italia. Devo la mia vocazione alla fede dei miei genitori, semplice e profonda, senza fronzoli e senza troppe parole. Fatta dalla testimonianza di mio papà che oggi dal cielo continua a seguirmi, dalla mia mamma che posso dire che insieme al latte mi ha donato la fede e mi hai insegnato a pregare, a credere e a sperare, ma soprattutto a donare. La devo anche alla mia famiglia numerosa e alla mia parrocchia dove ho incontrato sacerdoti appassionati del Vangelo. Non posso dimenticare anche i due vescovi che mi hanno accompagnato all’altare. Monsignor Dino Trabalzini, che mi ha seguito negli anni di formazione e seminario, e poi monsignor Giuseppe Agostino che mi ha accolto come suo segretario e mi ha ordinato sacerdote, dandomi tanta fiducia».

– Qual è stato il suo giorno più felice da prete?

«Non voglio essere finto oppure dare una risposta d’occasione. Ma posso testimoniarle che non c’è stato giorno al quale io non sia stato felice di essere sacerdote. Nei momenti faticosi proprio il sacerdozio mi ha permesso di fare un passo in più e di gioire. Di sentirmi amato da Dio e accompagnato dalla materna presenza di Maria. Quanti innumerevoli doni mi ha fatto il Signore!Anche quando sembrava che la vita riservasse delusioni, tradimenti e qualche momento di Croce».

– E il giorno invece più triste?

«No. Non ci sono stati giorni tristi. Ci sono stati giorni faticosi, questo sì, ma posso dire che alla sera, ogni volta che sono rientrato a casa, nella mia stanza, sono rientrato stanco ma felice. Mai prostrato e mai triste. Posso dire che qualche prova alla mia vita, dopo un piccolo quarto di secolo, c’è stata. Quando la giornata è stata un po’ più dura il Signore mi ha sempre regalato un Cielo stellato da contemplare, un sorriso incoraggiante, una parola che mi ha toccato il cuore. Gesù non mi ha mai lasciato solo, anche perché accanto al discepolo che Lui ama, ha messo la sua mamma. E Maria mi ha accompagnato e mi accompagna sempre. Sento la sua mano, sento la sua carezza, insieme a quella dei tanti santi e dei tanti testimoni della fede». (pn)

L’olio prezioso e l’urgenza del cuore: La messa del Crisma del vescovo Torriani

di SASÀ BARRESI – Nel cuore della Settimana Santa, la Messa Crismale rappresenta uno dei momenti più significativi e ricchi di spiritualità dell’intero anno liturgico. In questa solenne celebrazione, presieduta dall’Arcivescovo Mons. Alberto Torriani, nella la prima del suo ministero episcopale, nella Concattedrale di Sant’Anastasia (Santa Severina) si sono rinnovate le promesse sacerdotali e si sono benedetti gli oli santi che verranno utilizzati nei sacramenti durante tutto l’anno.

La Messa Crismale è la celebrazione che introduce il Triduo Pasquale, il cuore dell’anno liturgico cristiano, che culmina nella Veglia della Notte di Pasqua.
Durante la celebrazione del rinnovo delle promesse sacerdotali nella Concattedrale di Santa Severina, per la prima volta alla presenza del nuovo Vescovo, Don Lino Leto, Vicario Generale, ha sottolineato l’importanza delle relazioni autentiche, come da lui auspicato sin dall’inizio del suo ministero.

L’autenticità è il cuore della vita di fede e del ministero sacerdotale, soprattutto in questo tempo in cui si celebra il mistero pasquale di Cristo. Viene richiamata la riflessione del Vescovo sulla Settimana Santa come “Settimana Autentica”, evidenziando come anche i gesti più belli, come il bacio della pace, perdano senso se non sono veri. Il rinnovo delle promesse è l’occasione per tornare alle motivazioni originarie della vocazione e per scegliere di nuovo la bellezza di una vita autentica.
Si riconosce infine che la vitalità della Diocesi dipende anche dalla relazione vera tra i presbiteri e con il Vescovo, guida per discernere la volontà di Dio oggi. Si esprime gratitudine al Vescovo per il suo “sì” e si auspica che l’autenticità porti frutto di speranza e bellezza nelle comunità.

L’omelia di Mons. Torriani è una chiamata forte e affettuosa a vivere il sacerdozio con autenticità, comunione e cuore evangelico. Non si tratta solo di fare i preti, ma di essere uomini di Dio, capaci di vedere, patire, accogliere, rialzare e camminare con il popolo di Dio e con i fratelli nel ministero.

Con il profumo dell’olio appena benedetto, consegnato dai Diaconi, e l’emozione palpabile di un inizio, si è celebrata questa mattina nella Concattedrale di Santa Severina la Messa del Crisma, presieduta da Mons. Alberto, da meno di due mesi vescovo della diocesi. Un momento intenso di comunione e rinnovata consacrazione per l’intero presbiterio diocesano, radunato attorno all’altare «non come funzionari del sacro, ma come fratelli unti nello stesso crisma».

Nel cuore dell’omelia, densa di spiritualità concreta e di appassionata sollecitudine pastorale, il Vescovo ha ripreso i cinque verbi — vedere, compatire, accogliere, rialzare, camminare — che stanno segnando il suo cammino episcopale, offrendo una profonda riflessione sulla vocazione sacerdotale e sulla vita della Chiesa.

«Vedere è la prima forma di amore», ha detto il Vescovo, invitando i presbiteri a non guardare i numeri o i ruoli, ma i volti e le ferite reali delle persone, specialmente dei poveri. Uno sguardo che deve essere pasquale, capace di cogliere la grazia nascosta e la sete dell’anima.

«Compatire», ha aggiunto, è il verbo della prossimità vera, «non un mestiere ma un cuore che sente», richiamando la necessità della direzione spirituale e della confessione anche per i sacerdoti: «Un prete senza cuore rischia di diventare burocrate della grazia».

Ampio spazio è stato dedicato al verbo accogliere, che per Mons. Alberto «non è solo ricevere ma liberare, ridare spazio, restituire dignità». Un’accoglienza che deve valere anche all’interno del presbiterio, tra confratelli, superando giudizi, solitudini e particolarismi.

Nel verbo rialzare, il Vescovo ha visto il cuore della misericordia, ricordando che «nessuno di noi ha guadagnato questa vocazione, l’abbiamo ricevuta». E ha ammonito: «Il ministero non si riduce a fare le cose da prete, ma a vivere in pienezza la nostra umanità redenta».

Infine, camminare: «Il Vangelo non è un discorso da tenere, ma una strada da percorrere», ha affermato con decisione. Solo camminando insieme, come comunità sacerdotale, si può essere segno credibile del Regno.

Il Vescovo ha poi invitato i presenti a rinnovare le promesse dell’ordinazione non come semplice gesto liturgico, ma come atto di offerta sincera: «Con occhi che vedono, cuori che patiscono, mani che accolgono, parole che rialzano, piedi che camminano».

In chiusura, un riferimento poetico al “bello di cominciare”, già citato nel giorno del suo ingresso in diocesi: segno di un episcopato che si presenta come esercizio di speranza e di fedeltà alla vita che ogni giorno rinasce.

Un’esortazione a tutti i presbiteri a vivere “non di nostalgia ma di Vangelo”, con quella urgenza del cuore che spinge sempre a ripartire, come le donne del mattino di Pasqua. (sb)

[Sasà Barresi è diacono]