di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Mia madre aspettava che ci fossimo tutti. Servivano lo stesso aiuto, la stessa fatica e la medesima pazienza del pane, per le pie.
L’impasto lo preparava lei di buon mattino. A noi lasciava il gusto di riempire le forme, aggiustare le uova, e infine sistemarvi tutti i decori.
Era così che cominciava la nostra settimana santa. Con un’enorme cesta, dentro cui vi si adagiavano come ali di angeli, avvolti dentro la freschezza del lino, campanari, cuzzupe e pittepie. Gli unici dolci che, nella tradizione a cui appartenevamo, scandivano il cammino verso la Santa Pasqua.
Bisognava attendere la domenica per mangiarli però, gustarne la fragranza e andare orgogliosi del lavoro che avevamo fatto. Un sacrificio che mia madre ci chiedeva, e che si raccomandava di dedicare al Signore e alla sua Passione. Lui che era morto per noi e il terzo giorno sarebbe risuscitato.
Nessuno però resisteva, e di nascosto tutti spizziculiavamo la nostra pia, tanto Gesù, con la sua resurrezione avrebbe perdonato le nostre debolezze, contandoci ancora tra i suoi figli. La nostra Pasqua era quella di un Dio che si faceva dolce e perdutamente ci amava, nonostante tutto.
Il giorno di Pasqua, dopo pranzo, quando mia madre scopriva la cesta vedeva che i dolci non erano più come li aveva aggiustati lei. Corrucciava la fronte e storcendo il naso, a raggiera, ci guarda tutti negli occhi.
– Chi è stato? – chiedeva.
Non rispondeva mai nessuno. Eravamo stati tutti, e lei lo sapeva bene. E ci porgeva a ognuno il nostro campanaro, la cuzzupa e la pittapia.
– È risorto – diceva poi festante, mentre nelle mani poste a conca ci metteva il santo e dolce bottino, e nella logica del ‘tutto è compiuto’ ringraziava il cielo per la nostra Pasqua. (gsc)