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Carlo Alberto D’Audino, lo chef calabrese che delizia i palati

Carlo Alberto D'Audino, lo chef calabrese che delizia i palati

di BRUNELLA GIACOBBECalabrese di origini siciliane, l’executive chef Carlo Alberto D’Audino sta mostrando all’intero settore della ristorazione gourmet quanto passione, tenacia e professionalità mediterranee possano portare a grandi risultati. Ispirato dalle sue origini, con una visione internazionale, D’Audino ha già un’ampia esperienza nel settore della ristorazione, supportata da una formazione accademica e professionale di alto livello​​. Ha completato il corso di cucina italiana presso l’Alma Scuola Internazionale di Cucina Italiana a Colorno, Parma.

Nel suo approccio professionale, D’Audino si distingue per la sua passione e il suo spirito imprenditoriale. La sua esperienza decennale nel mondo della ristorazione gli ha permesso di sviluppare una profonda conoscenza delle materie prime e delle tecniche di alta cucina italiana e internazionale. La sua formazione ha inoltre contribuito allo sviluppo delle sue capacità di gestione in cucina, in particolare nella gestione del food cost e del riuso delle materie prime.

Dal 2021, D’Audino ha iniziato a esercitare la sua maestria culinaria presso il rinomato ristorante “Roland Brancaccio”, magnificamente ubicato all’interno del Palazzo Brancaccio, adiacente agli spazi espositivi di Spazio Field. Qui, la sua fervente passione per l’arte e la gastronomia si sono armoniosamente integrate. Il suo ineguagliabile talento si manifesta in creazioni culinarie eccezionali, che vengono servite con un’estetica sofisticata, in perfetta sintonia con l’arte e l’architettura di questo edificio storico. Ma quest’anno ha deciso di proseguire il suo sogno all’estero, sul quale ci assicura fornirà aggiornamenti. Entriamo ora e per ora nel vivo nel suo approccio all’arte culinaria.

La sua esperienza professionale si è arricchita in passato con il ruolo di capo partita al “Trussardi alla Scala”, posizione mantenuta per due anni, prima di unirsi a “Open Colonna”. Successivamente, D’Audino assume l’incarico di executive chef presso “T’a Milano Gourmet”, ruolo che ha svolto con la stessa maestria anche al “Ristorante Voy” e al “Ristorante Orlando”, entrambi situati a Roma. Parallelamente al suo impegno in cucina, D’Audino ha prestato la sua expertise come consulente per locali di prestigio, quali “Malandros – Bodega de Tapas” e “Meaters – Brace Bar”.

 

– Chef D’Audino, grazie del suo tempo, vogliamo entrare subito nel merito parlando della sua filosofia?
«Grazie a voi. La mia filosofia culinaria è chiaramente rapportata alle mie tradizioni, sono cresciuto con la cucina calabrese e le sue incredibili materie prime, ma la mia famiglia è origine siciliana, sono cresciuto a “pane e panelle”! Faccio una cucina che definiscono avanguardistica, ma il legame con la tradizione è sempre stata per me la miccia che accende ogni idea. Difatti propongo una cucina semplice, nel senso che tutti i sapori si armonizzano tra loro ma sono ben riconoscibili, portando soprattutto la materia prima alla massima espressione del gusto e dell’olfatto».

– Lei è calabro-siciliano.
«Esattamente. Nato e cresciuto nel capoluogo calabrese, le mie radici familiari affondano anche nella magica Sicilia. Fin dalla giovanissima età mi sono sentito attratto da due mondi: arte e cucina. E ho sempre cercato di andare a fondo di come si generano le opere, i piatti, le creazioni in generale, meditando e studiando con grande foga».

– Cosa ha scoperto di interessante durante i suoi studi di cucina?
«Che ad esempio la cucina calabrese così come la conosciamo oggi è derivata da diverse culture com’è noto ai più, ma più precisamente è tramandata dal periodo delle dominazioni borboniche, che hanno influenzato in generale tutto il Sud Italia. Poi ognuno ha personalizzato e caratterizzato quelle ricette con i prodotti tipici dei propri territori, quelli che oggi definiamo a Km 0».

– Un esempio?
«Quelle che a Catanzaro chiamiamo scilatelle o scilatelli in altre zone della Calabria sono chiamate fileja o scialatielli, quest’ultimo utilizzato anche a Napoli ed in Sicilia, dove però li chiamano anche maccheroni. Termine usato anche nel sud della Calabria dove li si possono trovare col nome di maccaruni allu firrettu o fhilaterj. Ma le differenze non sono solo nel nome, ma anche nella realizzazione. Ciò può comportare che un calabrese ordini a Napoli gli scialatielli aspettandosi la pasta fresca girata al ferretto che presenta un buco internamente, potrebbe ricevere esattamente quel tipo di pasta ma anche una sorta di grosse linguine senza alcun foro all’interno. I popoli arbëreshë presenti in Calabria, soprattutto nel cosentino, già dalla seconda metà del XV secolo usano preparare le scilatelle esattamente come quelle al ferretto calabrese, ma con canne di salice piangente di fiume. Sull’argomento ci sarebbe molto da dire, addirittura all’interno di una stessa provincia calabrese esistono preparazioni diverse per lo stesso nome di pasta o nomi diversi per quella pasta che prevede lo stesso procedimento. Ecco, a cuore e mente sempre aperti a conoscere e scoprire, queste apparenti differenze sono uno degli aspetti che più mi intrigano della cucina, che in fondo proprio come l’arte evolve nel tempo e nei luoghi».

– Quanto è importante e cos’è per lei la sostenibilità in cucina?
«La sostenibilità è fondamentale in ogni ambito. In cucina significa fare meno scarto possibile, capacità di elevare anche lo scarto a nuove preparazioni. 
Usare materie prime sostenibili, stagionali. Mi piace studiare il tracciamento di ogni materia prima preferendo quelle sostenibili a 360°, dal rispetto per il pianeta a quello per i lavoratori.
In generale piace a me stesso in primis e dunque mi piace offrire alle persone attraverso i piatti i piatti solo quei prodotti stagionali che la Natura ci riserva in determinati periodi.
E poi amo impiegare le erbe spontaneamente, tra queste la portulaca e la borragine, integrandole ad arte».

– Arte di cui è appassionato e che ritrova anche nel suo ambiente lavorativo gastronomico.
«Sì, e ciò è per me motivo di grande soddisfazione e gioia, mi sento sollecitato positivamente.
Il Roland Brancaccio fa parte di un grandissimo polo culturale che è lo Spazio Field, un importante museo di arte contemporanea di Roma, che innegabilmente mi stimola molto creativamente e mi offre la possibilità di confrontarmi, oltre che con il mondo della cucina perché accogliamo anche importanti ospiti (n.d.r. come nel caso della cena a quattro mani tenutasi a dicembre, ideata da Reporter Gourmet e orchestrata dallo chef insieme al rinomato Gianfranco Pascucci), anche con artisti che sono appunto motivo di spunti per la nostra creatività in cucina».

– Come si traduce in cucina appunto?
«Anzitutto nella concettualità dei piatti. Le idee nascono attraverso i punti che abbiamo trattato: talvolta può essere un ricordo, altre un artista a cui mi ispiro e al quale magari voglio dedicare proprio un piatto, altre ancora è la materia prima che mi suggerisce la strada per valorizzarla al meglio. La connessione tra arte e cucina ritorna nella storia gastronomica italiana, si pensi a Gualtiero Marchesi che nel suo ristorante Scala di Milano ha omaggiato artisti come Lucio Fontana, Cézanne, Pollock».

– Cos’è dunque per lei la “concettualità di un piatto”?
«Quando reputi un piatto concettuale è perché vuoi trasmettere un pensiero, dare un messaggio, suggerire un segnale».

– E com’è cambiato l’approccio alla concettualità dei piatti negli anni?
«Viviamo un’epoca di maggiore libertà di espressione rispetto ad anni fa. Faccio un esempio molto semplice: oggi gli chef escono in sala, fino a trent’anni fa stavano solo in cucina. Ma anche perché le persone non avevano grande interesse a conoscere cosa pensava il cuoco, il rapporto tra chef e sala è un rapporto nato e maturato nel tempo anche perché sono proprio cambiati la società, la cultura, i mezzi di comunicazione in un rapporto di reciprocità».

– Ci aggiornerà sui suoi sviluppi all’estero?
«Certamente».

Grazie per il tempo che ha ritagliato per noi. (bg)

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