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COVER STORY / RITA SCIARRA 1° settembre 2024

La DOMENICA di Calabria.Live 1° settembre 2024

RITA SCIARRA: L’IMPEGNO ALL’ONU CON LA CALABRIA DENTRO AL CUORE

di PINO NANO – 43 anni, quattro lingue straniere parlate in maniera fluente e corretta, uno spessore culturale internazionale che fa di lei una delle poche Calabresi che sono riuscite a lavorare per le Nazioni Unite. Segni particolari, è un’Altomontese “dalla testa ai piedi”, figlia di papà calabrese e mamma napoletana, genitori residenti ancora in Calabria, e tutti i suoi sogni sono eternamente legati e collegati alle stradine di Altomonte. Una donna manager che si è fatta da sola, che vive on the road da quando ha preso la sua prima laurea. Ma da quel momento il mondo è diventato la sua casa.

Un Master of Advanced Studies in diritto pubblico e relazioni internazionali presso l’Università di Saragozza in Spagna nel 2008, un Master in studi economici europei presso il College of Europe a Bruges, in Belgio nel 2006, e un Master in economia e relazioni internazionali presso l’Università Bocconi a Milano nel 2004, prima donna italiana a far parte del prestigioso Yale World Fellow nel 2017.

La carriera di Rita Sciarra, bocconiana di ferro, e legata ancora da un invisibile filo ombelicale al suo Campus, dopo la laurea al Clapi (Corso di laurea in Economia delle Amministrazioni Pubbliche e Organismi Internazionali) nel 2004, ha preso subito il volo sulle rotte internazionali. Le destinazioni più impensabili, in giro e in viaggio per i paesi più svantaggiati del mondo. India, Tanzania, Bolivia, Repubblica Dominicana, Haiti, Messico e oggi Panama, dove vive insieme alla sua famiglia, madre amorevole di due bambini e un marito spagnolo. Originaria di Altomonte e che oggi vive a Panama, dove per le Nazioni Unite dirige un team di esperti che identifica, protegge e rinforza le capacità dei più vulnerabili in 26 paesi dell’America Latina e dei Caraibi.

Grandissima esperta di sviluppo internazionale oggi lei ricopre il ruolo di Dirigente Regionale del team per la crescita inclusiva e la finanza sostenibile per l’hub del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo a Panama. Ma già in precedenza aveva ricoperto il ruolo di Strategic Advisor presso l’UNDP in Messico, supportando il paese durante il processo di ripresa economica dopo il terremoto del 2018. Ma prima ancora Rita aveva già ricoperto il ruolo di Head of Poverty Reduction presso l’UNDP ad Haiti. Pensate, ha gestito un portafoglio di progetti per garantire la transizione dall’emergenza allo sviluppo, con particolare attenzione allo sviluppo economico e all’inclusione sociale, migliorando la vita e le opportunità di migliaia e migliaia di persone.

«Ho visto uccidere un ragazzo a pochi passi da me ad Haiti per aver rubato una Coca-Cola, ho estratto dalle macerie mamme con bambini che si tenevano per mano, ho conosciuto famiglie recluse in casa per la vergogna di essere troppo povere. Ma con il lavoro per l’Onu credo di aver contribuito anche a cambiare le condizioni di tanti, promuovendo sussidi, efficientando le amministrazioni, migliorando la qualità della vita, soprattutto di donne, appoggiando per esempio migliaia di piccole imprese femminili».

– Rita, io la immagino oggi come una diplomatica italiana all’estero al servizio dei più poveri? E’ un’immagine aderente alla realtà della sua vita e del suo ruolo?

«Noi cerchiamo di analizzare e considerare la povertà non solo dal punto di vista economico, e di affrontarla con un approccio multidimensionale, intervenendo su più fattori, dai servizi sociali alle politiche del lavoro, che pesano sulle condizioni delle famiglie e soprattutto delle donne. Identificare i più vulnerabili andando oltre il fattore economico, è fondamentale, per disegnare successivamente politiche pubbliche che possano fare da cuscinetto, quando arriva una crisi, affinché non ricadino nella povertà estrema, per creare sistemi di protezione più resilienti».

– Non mi dirà che ci sono Paesi nel mondo come in Italia dove ancora le donne hanno bisogno di affrancarsi in maniera più completa e matura?

«Mi creda, girando il mondo si capisce come il ruolo della donna sia purtroppo ancora legato a stereotipi universali, e che in molti paesi cosiddetti avanzati non si dia il buon esempio. Secondo il Gender Gap Index, il tasso di occupazione dei genitori (25– 64 anni) con un figlio varia dall’82% per gli uomini al 58,1% per le donne e il divario si amplifica con un numero superiore di figli. Si rende conto della differenza? Il dato ci dice che praticamente per una donna in Italia, è difficilissimo avere dei figli lavorando, soprattutto per la mancanza di politiche di Care Economy, ossia della mancanza di quei servizi che aiutano a conciliare la vita lavorativa e quella privata.  Anche qui c’è ancora tantissimo lavoro da fare».

– Per lei è stato un gran salto nel buio, immagino…

«Stando alle statistiche, essendo donna, nata in un piccolo paese della Calabria come Altomonte, da due genitori insegnanti, la mia mobilità professionale e sociale avrebbe dovuto essere limitata, praticamente secondo i dati, io non dovrei fare il lavoro che faccio.

Il mio sogno si è realizzato perché ci ho lavorato tanto, ci ho creduto, e anche perche l’organizzazione UNPD è costituita anche da tante donne e, in questo senso, ho potuto percepire meno le diseguaglianze esistenti, incluse quelle salariali. Però le norme sociali restano maschiliste e questo aspetto si sente e si soffre molto quando ci si muove sul campo, soprattutto in situazioni di crisi».

– Rita, non si sottovaluti. Lei oggi è Dirigente Regionale per la crescita inclusiva e la finanza sostenibile nell’hub del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP). È un traguardo di altissimo profilo internazionale. Come lo vive lei?

«Sono felicissima del mio lavoro, dell’attuale e di tutti gli incarichi precedenti. Essere un funzionario delle Nazioni Unite è un traguardo che ho voluto con tutte le mie forze, ma è anche un impegno personale, oltre che professionale, non indifferente. Significa muoversi sempre con una bandiera addosso. Nei Paesi dove vado rappresento sempre un’istituzione che attira aspettative e critiche altissime. Viviamo un momento difficilissimo a livello globale, e adesso più che mai abbiamo bisogno di un’organizzazione come la nostra che possa creare dialogo, unire fili che si sono rotti per le grandi tensioni internazionali, intervenire dove ci sono crisi molto forti.  Ma i fondi a noi destinati sono veramente pochi, i Paesi ci chiedono di salvare il mondo, con un budget che è equivalente a 1,25 USD per abitante. Ci chiedono di salvare il mondo, al costo di un pacchetto di patatine… Facile no?»

– Ma lei non si ferma mai?

«Penso che fermarsi sia fondamentale, specialmente se si lavora in zone di crisi. Il nostro lavoro è un fardello di fatiche e di emozioni che rende preziose le giornate ma dal quale, ogni tanto, si sente la necessità di prendersi una pausa. La prima volta a me è capitato dopo l’ennesimo uragano ad Haiti. Ero sfinita e volevo tornare a fare qualcosa per me».

– Come è finita?

«Che ho mandato un’application a Yale per una borsa di studio e sono stata selezionata, prima donna italiana, per il programma Yale World Fellow e per sei mesi sono tornata a studiare, a dare lezioni, e a confrontarmi con professionisti di ogni ambito. Presi una bicicletta, e in quel campus meraviglioso, tra le foglie rosse e gialle d’autunno che cadevano, mi sono sentita la persona più felice del mondo. Ricordi indimenticabili. La seconda volta, invece, ero in Messico e sono rimasta incinta. Ho avuto la necessità di tornare a casa mia, in Calabria, soprattutto per stare vicina all’unico medico che mi ha sempre tranquillizzata, il Dr. Placco, e per partorire mio figlio, che volevo nascesse in un ospedale pubblico, che volevo nascesse in Calabria. All’ospedale di Cosenza ho rivisto l’eroismo del personale sanitario di certi Paesi poveri, dove si lavora in condizioni proibitive, e ho avuto la conferma della grande importanza di proteggere la sanità pubblica per dare un servizio di qualità a tutti. È una questione di diritti, di dignità».

– Vogliamo partire dal paese dove è nata?

«Sono nata a Cosenza, ma poi sono cresciuta ad Altomonte. Sono rimasta ad Altomonte fino a 18 anni, poi ho lasciato tutto per l’università e non sono più tornata a vivere lì in paese».

– Che famiglia ha alle spalle?

«Ho una mamma e un papà, che sono le colonne portanti della mia vita, sempre presenti in ogni mio passo, senza mai giudicare le mie scelte. Papà Giulio, calabrese, insegnante, testardo, lavoratore instancabile, l’onestà fatta persona, e mamma Maria, napoletana, distruttiva, avanguardista, pittrice, maestra di scuola materna, ricordata da tutti i suoi alunni ancora oggi con tantissimo affetto…Un bel mix! Ho anche due sorelle, Amalia e Carla, a cui sono molto legata. E avevo anche due nonni, Amalia e Carlo, che sono stati fondamentali per me, ma purtroppo non ci sono più. La mia famiglia di origine si è unita a quella che ho costruito, con un marito spagnolo (ma adesso anche Italiano, se mi scordo di dirlo chi lo sente…) Rafael, a cui devo tantissimo perché ha deciso di seguirmi, lasciando tutto, e due bambini, Roberto e Rodolfo, la cosa più bella che abbia mai fatto».

– Che infanzia è stata la sua in Calabria?

«Un’infanzia libera e piena di vita. Da bambina avevo una bicicletta che mi portava ovunque, poi l’adolescenza è stata segnata dai viaggi in autobus da Altomonte a Castrovillari per frequentare il liceo. È stata un’esperienza fondamentale, il liceo ha contribuito molto a formare la persona che sono oggi. Era un periodo rumoroso per le risate, le discussioni con gli amici, i viaggi in motorino con loro. Mi sentivo libera, non avevo mai orari per tornare a casa… forse erano altri tempi».

– Ha qualche ricordo personale di quella stagione?

«Molti, tantissimi, tutti belli. Ricordo i viaggi in autobus con le mie più care amiche di Altomonte, andata e ritorno, quando ci raccontavamo la vita. E ho un ricordo bellissimo dei miei amici del liceo, con cui abbiamo preparato gli esami di maturità. Un amico, Domenico, aveva una casa accanto alla scuola, e passavamo pomeriggi interi ad aiutarci a vicenda. Chi era più bravo in una materia, preparava gli altri. È un ricordo che mi riempie il cuore ancora oggi.

Un altro ricordo a cui sono specialmente legata, sono le ore passate con la mia amica Laura, a fare barattolini di conserve, mentre ascoltavamo Battisti, e cantavamo a squarciagola, o i giri in motorino con la mia amica Caterina, sono tutti ricordi preziosi».

– Che scuole ha frequentato e dove?

«Ho frequentato le scuole elementari e medie ad Altomonte, poi il Liceo Scientifico “EnricoMattei” a Castrovillari».

– Delle elementari quali insegnanti ricorda ancora?

«Ricordo con affetto speciale le mie tre maestre: Annina, Delfina e Rosetta. Alla maestra Rosetta Provenzale devo parte della mia carriera. In quarta elementare decise, con quello che ora giudico un approccio totalmente rivoluzionario, di non seguire i libri di testo scolastici. Ci fece realizzare quadernoni tematici su argomenti da lei selezionati: Gli Anziani, Il Razzismo, La Solidarietà, Gli Incas, i Maya e Gli Aztechi (sono quelli che ricordo di più). Lei portava testi, canzoni, poesie, che incollavamo sui quadernoni, e per una settimana intera ognuno di noi doveva fare ricerche e approfondire il tema. L’ultimo giorno era dedicato a un dibattito sul tema scelto. Ricordo ancora quando durante la settimana del Razzismo ci fece cantare tutti insieme il gospel “John Brown è morto ma lo schiavo è in libertà, tutti fratelli, bianchi e neri siamo già”. Forse lei allora non poteva immaginarlo, ma quei quaderni hanno piantato in me il seme della lotta per le disuguaglianze, la giustizia, la libertà…».

– E delle scuole superiori, quali insegnanti vale la pena di ricordare?

«Senza dubbio, come direbbero gli inglesi, “the one and only”, il Prof. Franco Bellizzi. Non riesco a spiegare cosa è riuscito a fare con noi, 16 studenti di liceo. Quando spiegava letteratura, era capace di collegare Sallustio alla politica moderna, ci faceva riflettere, dibattere, ci ha fatto diventare quello che siamo oggi. Ci ha fatto amare la letteratura italiana e latina, ci ha fatto capire che diventare adulti significa fare scelte che a volte costano».

– C’è una materia in cui andava meno bene?

«Non ero brava in latino scritto. Troppa logica! Soprattutto Cicerone, che metteva sempre il soggetto alla fine della frase, mi faceva diventare pazza. Una volta presi 7 e il professore mi chiese: “Sciarra, hai copiato?”. Risposi di sì, e lui mi disse di sedermi… poi ci fece un discorso bellissimo sull’Italia, sul perché chi studia solo per il voto è lo stesso che, da ingegnere, fa cadere i ponti perché non sa fare i calcoli, o da medico sbaglia le diagnosi… e poi ci chiese di scegliere se volevamo diventare persone che potevano fare la differenza, o persone che inseguivano un voto. Da quel giorno, durante i compiti in classe, ci lasciava soli. Nessuno copiò più. I miei compagni di liceo sono per me persone importantissime, che cerco di vedere ogni volta che possiamo riunirci in Calabria».

– Come nasce la sua scelta universitaria?

«Avevo un forte desiderio di tornare in Calabria e gestire ospedali; ho sempre avuto una passione per il pubblico. Lavorare per il pubblico è una missione, è vocazionale.  Mentre leggevo vari opuscoli, lessi di questa facoltà di Economia delle Amministrazioni Pubbliche e Relazioni Internazionali… mentre leggevo la descrizione, pensavo che fosse proprio ciò che cercavo, prepararmi per gestire il pubblico. Era l’unica facoltà allora che preparava per questo. Si trovava in Bocconi, a Milano, c’era un test di ammissione, lo feci e fui ammessa. Due anni dopo l’inizio, crollarono le Torri Gemelle; ero in aula e il mio più caro amico mi pregò di andare a seguire un corso sulle relazioni internazionali. Me ne innamorai. Poi lessi il libro che cambiò la mia vita, Sviluppo e Libertà di Amartya Sen. In quel libro, dove il premio Nobel parlava di come lottare contro le disuguaglianze, parlava della vita di tutti noi del Sud, parlava di me. Diceva che un essere umano si sviluppa pienamente solo se è libero di scegliere. Pensavo a tutti i calabresi che hanno avuto come unica scelta quella di lasciare la loro terra. Capìì che non eravamo liberi di scegliere la nostra vita. Decisi che dovevo fare qualcosa per chi stava ancora peggio di noi. Non mollai l’idea. Più leggevo, più studiavo, e più mi convincevo che lavorare per l’ONU fosse il modo giusto per farlo. Lì scelsi, che quella sarebbe stata la mia missione nella vita».

– Cosa è stata la Bocconi per lei?

«La mia finestra sul mondo. Mi ha fatto capire che c’era un mondo che si muoveva ad altre velocità, con altri canoni, con altre misure… è stata una sveglia che mi ha fatto capire che non potevo perdere tempo».

– Il suo primo incarico?

«Il mio primo incarico con l’ONU, con quella che poi è rimasta la mia agenzia, l’UNDP (il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo), è stato nella Repubblica Dominicana. Quando varcai la soglia dell’ufficio e vidi la bandiera, piansi di felicità. Avevo realizzato un sogno. Partii con un concorso del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale MAECI che inviava Volontari delle Nazioni Unite nelle varie agenzie dell’ONU. Fu una scuola di politica pubblica, perché l’ufficio aiutò il Paese a costruire tutta la strategia di protezione sociale dopo una gravissima crisi bancaria che lasciò migliaia di persone nella povertà. Imparai tantissimo in quei primi quattro anni».

– La sua prima esperienza importante?

«Sicuramente Haiti. Ero giovane, avevo 30 anni. Haiti, dopo il terremoto del 2010, che causò oltre 200.000 morti e lasciò 10 milioni di metri cubi di macerie, una quantità che, rappresentata fisicamente, occuperebbe una fila di camion dal Canada alla Terra del Fuoco in Argentina. Fui selezionata per gestire un progetto di rimozione e riciclaggio delle macerie. Arrivai come assistente di progetto per 18 mesi. Ci rimasi sei anni, con una splendida promozione, gestendo come capo di un team di 120 persone, più di 12 progetti, per ricostruire parti della città, creare lavoro per le donne e dare raccomandazioni di politica pubblica al governo su vari temi come la protezione sociale. Fu un periodo duro, durissimo, ma anche molto bello perché vedevamo i risultati dei nostri sforzi, che oggi purtroppo sono sfumati a causa della situazione del Paese».

– La ricerca, l’analisi, lo studio (Progetto) a cui è più legata?

«C’è un progetto su cui ho lavorato fin da quando sono andata ad Haiti e che adesso gestisco a livello regionale. Si chiama SDG Value Chain. Aiutiamo le piccole e medie imprese, gestite soprattutto da donne, a ottenere risultati migliori, sia in contesti di crisi che di sviluppo. Abbiamo aiutato migliaia di donne a guadagnare di più, vendere meglio, e a vendere online dopo il Covid, in 11 Paesi dell’America Latina, ma anche in Africa e in Europa».

– Avverto nelle cose che mi dice un senso di fierezza…

«Sa perché sono così particolarmente legata a questa iniziativa? Perché, quando parli con una donna con 4, 5 o 6 figli che ti racconta di aver perso tutto e di aver ritrovato la sua vita e dignità grazie attraverso il lavoro,  capisci che quello che facciamo ha un senso…».

– Rita, come finisce un giorno di tanti anni fa in India?

«Finisco in India perché, dopo l’Erasmus in Finlandia, avevo deciso di non voler più smettere di viaggiare. Così, mi precipitai all’Ufficio Stage della Bocconi a luglio per vedere le opportunità Last Minute disponibili… lessi “Consolato Generale d’Italia a Mumbai” e la descrizione del ruolo. Avrei dovuto organizzare una sfilata di moda, una mostra sui “50 anni della moda italiana” e un Film Festival per celebrare la cultura italiana. E cosi fu.  Organizzai i tre eventi sia a Mumbai che a New Delhi. Come canta Nat King Cole “Unforgettable

– Ci ritornerebbe oggi?

«Fu un’esperienza fantastica, mi sono divertita moltissimo e la rifarei altre 100 volte».

– Posso chiederle come fa a conciliare il suo ruolo con i legami che ha ancora in Calabria?

«Torno sempre, e tornerò finché potrò… il mio legame con la Calabria è fortissimo».

– Le è mai capitato in giro per il mondo di “vergognarsi” di essere figlia della Calabria?

«Vergogna, mai. Rabbia, tanta. Quando studiavo Economia dell’Unione Europea, al College of Europe a Bruges, la Calabria era sempre l’ultima regione su tutto. Non importava quale esempio si prendesse, quando c’erano studi sulle regioni europee, leggevo sempre “Calabria” come ultimo fanalino di coda».

– Che consiglio darebbe a una giovane studiosa che oggi volesse intraprendere la sua carriera?

«Di non avere pregiudizi, di laurearsi rapidamente, imparare le lingue e fare tante esperienze per capire, prima ancora di cosa fare, cosa non si vuole fare. Il mondo delle relazioni internazionali è vasto e complesso. È importante capire se si vuole lavorare per un’ONG, per la diplomazia, o per l’ONU; sono tutte carriere distinte».

– Qual è stata la vera arma del suo successo?

«Quello che contraddistingue noi calabresi: perseveranza e testardaggine. Mi sono presentata al concorso del MAECI fino a quando non ce l’ho fatta. Ricordo ancora l’usciere che mi disse una volta “Ah dottore’, ancora qua sta”? e gli risposi “Fino a quando non mi selezionano mi vedrà sempre!”»

– Che rapporto ha ancora con la sua città natale?

«La amo; rappresenta chi sono, le mie origini, le mie radici, che allo stesso tempo sono diventate le mie ali. La mia terra è la mia forza. Vivere in Calabria vuol dire saper far molto, con molto poco. E’ cio che facciamo nelle Nazioni Unite».

– Quante volte all’anno riesce a tornare?

«Cerco sempre di tornare due volte, in estate e a Natale».

– Cosa le manca di più di questa terra?

«La mia famiglia e il mio terrazzo, da cui vedo contemporaneamente il Pollino e la Sibaritide che incastonano Altomonte. Uno spettacolo».

– Come immagina il suo futuro? Ancora lontano da Altomonte?

«Nel breve termine sì, nel lungo mi rivedo qui».

– L’area di crisi più complicata che ha visitato o analizzato qual è stata?

«Senza dubbio, il terremoto ad Haiti. Abbiamo rimosso macerie, corpi, morti. In una situazione già difficilissima, dopo il terremoto abbiamo affrontato due uragani. Fare il mio lavoro significa lavorare per un’Organizzazione costantemente criticata. Eppure, ci mettiamo tutto, la nostra intera vita. Non è facile. Nonostante le critiche, quando guardo al mio lavoro attuale e penso a tutte le persone vulnerabili che aiutiamo con sistemi di protezione sociale più efficienti, ai posti di lavoro che creiamo, alle politiche pubbliche che elaboriamo con i paesi per combattere la povertà, credo che ora più che mai abbiamo bisogno dell’ONU, proprio quando il multilateralismo è sotto attacco. Certo, dobbiamo riformarla, aggiornarla, ma noi siamo il risultato di ciò che i paesi del mondo vogliono, dei consensi che incontrano, e non è affatto un lavoro semplice».

– Cosa sono gli italiani all’estero oggi? Una risorsa o un peso per gli altri?

«Gli italiani all’estero sono un peso per l’Italia, che non riesce a trattenerli, attrarli, mantenerli, offrendo loro una promessa di benessere. Esportiamo cervelli e abilità, che perdiamo per noi, per i nostri territori, per il nostro sviluppo. È una risorsa persa e un peso per chi resta».

– Che Ferragosto è stato questo per lei?

«Eheheheh, un tipico Ferragosto calabrese, da mio zio Cesare al fiume, con la mia famiglia e amici, mangiando carne arrosto! Da vera Calabrese».

– Come passa le sue giornate ad Altomonte?

«Mi divido tra il nostro splendido mare, la Sila e il Pollino. Altomonte è a un passo da tutto. A volte semplicemente resto a casa, scappo di corsa dalla mia amica Laura per prendere un caffè nel suo Hotel, aspetto che arrivi (ovviamente dal famoso Nord) Caterina per raccontarci un po’ le nostre vite,  e mi godo il tempo con mamma e papà».

– Se l’Unical la chiamasse, lei tornerebbe a casa?

«Come si dice in inglese, “tricky”… Le rispondo più semplicemente come fanno in Galizia, con un’altra domanda: “Per fare cosa?”»

– La sua canzone preferita?

«Ne posso dire due? Fields of Gold di Sting, Non c’è niente da capire di De Gregori.

– L’ultimo romanzo letto?

«Il libro che ho appena finito è Fascismo e Populismo, di Scurati, che penso dovrebbe essere un libro di testo al terzo anno di liceo. Adesso sto leggendo La generazione ansiosa di Jonathan Haidt».

– Va mai al cinema?

«Sì, mi piace tantissimo, una passione che condivido con mio marito».

– Si è mai stancata di questo suo lavoro?

«Amo il mio lavoro, è il lavoro che ho sempre sognato di fare, però ammetto che a volte penso di mollare tutto e tornare in Calabria. Scherzi a parte, quando si fa lavoro sul campo ci si stanca tantissimo, soprattutto in zone di crisi. E sì, ci si stanca, emotivamente e fisicamente».

– Se tornasse indietro, cosa non farebbe?

«Farei figli molto prima, come fanno in America Latina. Lì non aspettano di avere un lavoro per poi farli. Studiano all’università e hanno figli, e non è un problema. Penso sia una questione culturale, di non misurare troppo i rischi e di accettare che i figli non devono necessariamente nascere avendo già tutto». (pn)

 


GLI AIUTI ONU: ECCO COSA FACCIAMO

di RITA SCIARRA – Quando vedo la pagina Facebook di Zamy Marah che vende scarpe, penso che ci sia speranza. Nel 2011, durante il terremoto di Haiti, Marah ha perso tutto. Fu allora, con il supporto della Corea, che lanciammo il primo “In Motion”, o “Ann Ale” in creolo.

Abbiamo condotto un’analisi di mercato e, dopo il terremoto, abbiamo visualizzato un’opportunità per creare e rafforzare negozi di artigianato, in particolare quelli di gioielleria.

Abbiamo supportato 600 aziende. Marah’s esiste ancora oggi. Ora vende scarpe impreziosite da perline, utilizzando la stessa tecnica che ha imparato per realizzare collane nel 2011.

A partire da Marah, è nato “In Motion” e, insieme ad altre metodologie del nostro programma SDG Value Chains, abbiamo raggiunto più di 11 paesi nella regione, supportando instancabilmente più di 40.000 micro, piccole e medie imprese (MPMI).

In America Latina, le micro, piccole e medie imprese rappresentano oltre il 99,5% del tessuto imprenditoriale e sono responsabili di circa il 60% dell’occupazione produttiva formale. Tuttavia, sono caratterizzate da bassa produttività, competitività ed efficienza. Nella regione ci sono 17.217.911 piccole e medie imprese e la metà di esse è fondata e guidata da donne (secondo il GEM Global Report – Global Entrepreneurship Monitor 2021, pubblicato il 10 ottobre 2022).

Quando abbiamo lanciato le metodologie del programma SDG Value Chains, siamo entrati nel cuore della vita di queste donne. Diagnosticare un’azienda spesso significa diagnosticare le loro vite. Spesso, hanno intrapreso l’imprenditoria sapendo molto poco di contabilità, marketing, igiene e vendite. Dopo aver ricevuto supporto e assistenza tecnica attraverso il programma, abbiamo misurato i risultati e scoperto che, in media, le vendite erano aumentate tra il 15% e il 30%. Questa è anche una diagnosi di come le loro vite sono migliorate.

Capire come separare la contabilità domestica e aziendale consente loro di gestire meglio entrambe; vendere di più consente loro di creare opportunità di lavoro per gli altri; sapere come trattare meglio i clienti può persino influenzare il modo in cui si relazionano con i propri figli. Queste sono le testimonianze che abbiamo ricevuto quando abbiamo condotto valutazioni e analizzato i risultati di mesi di lavoro e supporto. Indipendentemente dal paese o dalle dimensioni dell’azienda, spesso i problemi di queste vite, aziende e donne sono gli stessi, da paese a paese, da regione a regione.

Il programma SDG Value Chains ha diverse metodologie di accelerazione e incubazione. È iniziato con il programma “Suppliers Development” più di 20 anni fa in Messico, quando l’UNDP ha firmato un progetto con NAFIN (Nacional Financiera) per compilare le migliori pratiche del settore privato nello sviluppo dei fornitori a livello internazionale e nazionale.

Successivamente, abbiamo avviato la sistematizzazione e l’implementazione in grandi aziende come Nestlé – Messico, con il supporto del Ministero dell’Economia, con l’obiettivo di migliorare le catene del valore e la produttività delle aziende messicane, aumentare la produzione locale e garantire la qualità del prodotto per l’esportazione. Abbiamo supportato 62 filiere produttive in 22 stati, integrando più di 650 PMI fornitrici, con un tasso di crescita occupazionale medio del 5,8% e un aumento delle vendite del 15%.

Da allora, abbiamo continuato a supportare e innovare con l’obiettivo di rafforzare un ecosistema aziendale più resiliente per le PMI, che includa e produca in modo più efficace, creando posti di lavoro e promuovendo gli investimenti. Abbiamo mantenuto aggiornate queste metodologie e, grazie al monitoraggio e ai risultati ottenuti, siamo stati in grado di raccogliere e trasferire le best practice.

La pandemia di COVID-19 è stata senza dubbio una grande sfida, ma anche un’opportunità. Dopo la chiusura di migliaia di attività commerciali, l’Ecuador ha lanciato “Digital In Motion” per supportare il commercio locale attraverso l’innovazione. Abbiamo iniziato a generare capacità attraverso piattaforme digitali. In coordinamento con istituzioni pubblico-private, le aziende hanno imparato a vendere tramite WhatsApp, consegnare prodotti ai consumatori e implementare protocolli sanitari. È stato un successo. Nel giro di pochi mesi, migliaia di aziende hanno ripreso a vendere i loro prodotti. “Digital In Motion” si è esteso a più di 9 paesi nella regione e continua a essere implementato con adattamenti a contesti diversi.

Un’altra metodologia che ha varcato i confini è “Growing your business”. Le PMI albanesi sono state in grado di accedere al mercato europeo ed esportare olio d’oliva in Italia, aumentando significativamente le loro vendite.

Nel 2023, abbiamo supportato 19 PMI, di cui 12 guidate da donne, ottenendo un aumento medio delle vendite del 30%. Inoltre, la metodologia “Supplier’s Development” ha raggiunto il Botswana, insieme al nostro lavoro con il “ACP-EU Development Minerals Programme”.

In 20 anni, abbiamo sviluppato capacità e aiutato le aziende, guidate prevalentemente da donne, a migliorare la loro produttività, diventando fornitori di fiducia per grandi multinazionali, aumentando le loro vendite e facilitando l’inclusione, supportando la loro formalizzazione.

Nell’attuale contesto globale complesso, che include un’inflazione elevata e aumenti significativi dei prezzi delle materie prime, insieme a interruzioni nelle catene di fornitura globali, le sfide aziendali stanno aumentando. Ecco perché il programma SDG Value Chains si adatta, innova e risponde a queste sfide e opportunità. La resilienza è fondamentale, esemplificata dalla nostra fornitura di soluzioni di inclusione finanziaria.

Il viaggio è stato lungo ed entusiasmante; abbiamo fatto crescere e supportato il cuore pulsante dell’economia della regione e di altre regioni. Collegare le piccole imprese a nuovi mercati, da quelli locali a quelli globali, aumentare la loro produttività e, allo stesso tempo, includere i più vulnerabili con una visione di resilienza, è il futuro. Ed è qui che ci troviamo. (rs)


RITA SCIARRA ALLA BOCCONI

Sul sito ufficiale dell’Università Bocconi di Milano Rita Sciarra viene raccontata come una delle energie migliori del Campus milanese, e nel 2017 viene raccontata da Davide Ripamonti per il giornale digitale della Bocconi come una vera e propria risorsa internazionale di cui il Campus universitario va fiero. “Impegnata sul campo ad Haiti, dove aiuta a ricostruire il paese sconvolto dal terremoto del 2010, l’alumna Rita Sciarra- si legge sul sito dell’Ateneo- “sarà la prima donna italiana a far parte del prestigioso programma”.

Il sogno di ragazza, dirigere l’ospedale del piccolo paese della provincia di Cosenza in cui è nata, Altomonte, si è trasformato nella realtà di adulta, e cioè un ruolo di primo piano nelle Nazioni Unite, dove è a capo dell’unità per la riduzione della povertà ad Haiti, il paese caraibico che ancora stenta a riprendersi dal terribile terremoto del 2010.

Rita Sciarra, 36 anni, laureata Clapi nel 2004, una lunga carriera che a partire dall’università, “e grazie inizialmente proprio all’Università Bocconi e alla vittoria del Premio Ulisse, che mi ha permesso di iniziare a viaggiare”, l’ha portata a dare il proprio contributo in alcune delle aree più disagiate del pianeta, come l’India, la Tanzania, la Bolivia, Santo Domingo e ora, appunto, Haiti, è stata selezionata come World Fellow presso l’Università di Yale in un programma che coinvolge 16 ricercatori scelti in ogni parte del mondo che siano impegnati in attività a favore degli altri.

“Siamo tutte persone a metà carriera”, spiega Rita, “con cose importanti alle spalle ma con ancora tanti obiettivi davanti a sé. È un programma che esiste da 15 anni e sono la prima donna italiana a essere stata chiamata”.

Il programma si svolgerà da luglio a dicembre e consisterà in una serie di attività differenti: “Dovremo tenere dei corsi in cui racconteremo le nostre esperienze”, continua Rita, “poi l’università preparerà un programma ad hoc rivolto a noi, per implementare le nostre conoscenze; infine, saremo chiamati a fare da mentor a studenti interessati a lavorare nei settori della cooperazione”.

Al termine, Rita tornerà ad Haiti, dove il suo lavoro è molto importante: “Quello che ho fatto appena arrivata lì è stato lavorare a un progetto il cui obiettivo era pulire le macerie e riciclarle, poi mi è stata affidata la gestione di una serie di altri progetti di recupero di quartieri distrutti, prima di passare all’incarico che svolgo attualmente. Devo dire che la mia vita è una continua application”.

Per i prossimi 10-15 anni Rita si immagina ancora nelle Nazioni Unite, “dove posso contribuire a dare opportunità a chi non le ha, ma il mio sogno nel cassetto è tornare in Italia, dove c’è molto da fare, magari proprio in quella Calabria da cui sono partita. Quello che voglio dire ai giovani è che devono credere nel proprio sogno e perseguirlo anche se all’inizio si riceve qualche no. Volevo lavorare in questo campo e ce l’ho fatta. Forse un giorno dirigerò proprio quell’ospedale, come sognavo all’inizio del mio percorso”. (pn)


RITA, WORLD FELLOWS A YALE

Il World Fellows del 2017, e di cui Rita Sciarra è entrata a far parte (nella foto in seconda fila dal basso, terza da sinistra) -afferma Emma Sky, direttrice del Maurice R. Greenberg World Fellows Program- sono individui straordinari che condividono l’impegno per una società aperta e la convinzione che ciò che ci unisce è molto più grande di ciò che ci divide. Si uniscono alla nostra rete di oltre 300 World Fellows, lavorando per rendere il nostro mondo un posto migliore per tutti”.

Il programma World Fellows – vi ricordo- è l’iniziativa di sviluppo della leadership globale distintiva della Yale University e un elemento fondamentale dell’impegno continuo di Yale per l’internazionalizzazione. Ogni anno, l’Università invita un gruppo di professionisti esemplari a metà carriera, provenienti da una vasta gamma di settori e paesi, per un periodo intensivo di quattro mesi di arricchimento accademico e formazione alla leadership.

La missione di World Fellows è quella di coltivare e rafforzare una rete di leader impegnati a livello globale impegnati a rendere il mondo un posto migliore. Il programma fa parte del Jackson Institute for Global Affairs, che prepara gli studenti di Yale alla leadership e al servizio globale attraverso il suo programma di master in affari globali, il master di studi avanzati in affari globali e la laurea triennale in “affari globali”.

“Sono onorato e felice di dare il benvenuto a questi leader e innovatori nel campus”, aggiunge il presidente di Yale Peter Salovey.

“I World Fellows hanno migliorato la vita delle persone e i loro contributi hanno un’influenza di vasta portata sulla società. Arricchiscono il nostro ambiente di apprendimento condividendo la loro competenza ed esperienza con i nostri studenti e docenti. Hanno l’opportunità di crescere accademicamente e personalmente mentre interagiscono con la nostra comunità. Questo programma è un esempio dell’impegno di Yale nello sviluppo di leader impegnati a livello globale”.

Ecco, questo è il mondo conosciuto, vissuto e attraversato da questa straordinaria ragazza originaria di Altomonte in Calabria. Motivo di vanto per la sua gente e la sua terra. (pn)

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