COVER STORY / RITA SCIARRA 1° settembre 2024

RITA SCIARRA: L’IMPEGNO ALL’ONU CON LA CALABRIA DENTRO AL CUORE

di PINO NANO – 43 anni, quattro lingue straniere parlate in maniera fluente e corretta, uno spessore culturale internazionale che fa di lei una delle poche Calabresi che sono riuscite a lavorare per le Nazioni Unite. Segni particolari, è un’Altomontese “dalla testa ai piedi”, figlia di papà calabrese e mamma napoletana, genitori residenti ancora in Calabria, e tutti i suoi sogni sono eternamente legati e collegati alle stradine di Altomonte. Una donna manager che si è fatta da sola, che vive on the road da quando ha preso la sua prima laurea. Ma da quel momento il mondo è diventato la sua casa.

Un Master of Advanced Studies in diritto pubblico e relazioni internazionali presso l’Università di Saragozza in Spagna nel 2008, un Master in studi economici europei presso il College of Europe a Bruges, in Belgio nel 2006, e un Master in economia e relazioni internazionali presso l’Università Bocconi a Milano nel 2004, prima donna italiana a far parte del prestigioso Yale World Fellow nel 2017.

La carriera di Rita Sciarra, bocconiana di ferro, e legata ancora da un invisibile filo ombelicale al suo Campus, dopo la laurea al Clapi (Corso di laurea in Economia delle Amministrazioni Pubbliche e Organismi Internazionali) nel 2004, ha preso subito il volo sulle rotte internazionali. Le destinazioni più impensabili, in giro e in viaggio per i paesi più svantaggiati del mondo. India, Tanzania, Bolivia, Repubblica Dominicana, Haiti, Messico e oggi Panama, dove vive insieme alla sua famiglia, madre amorevole di due bambini e un marito spagnolo. Originaria di Altomonte e che oggi vive a Panama, dove per le Nazioni Unite dirige un team di esperti che identifica, protegge e rinforza le capacità dei più vulnerabili in 26 paesi dell’America Latina e dei Caraibi.

Grandissima esperta di sviluppo internazionale oggi lei ricopre il ruolo di Dirigente Regionale del team per la crescita inclusiva e la finanza sostenibile per l’hub del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo a Panama. Ma già in precedenza aveva ricoperto il ruolo di Strategic Advisor presso l’UNDP in Messico, supportando il paese durante il processo di ripresa economica dopo il terremoto del 2018. Ma prima ancora Rita aveva già ricoperto il ruolo di Head of Poverty Reduction presso l’UNDP ad Haiti. Pensate, ha gestito un portafoglio di progetti per garantire la transizione dall’emergenza allo sviluppo, con particolare attenzione allo sviluppo economico e all’inclusione sociale, migliorando la vita e le opportunità di migliaia e migliaia di persone.

«Ho visto uccidere un ragazzo a pochi passi da me ad Haiti per aver rubato una Coca-Cola, ho estratto dalle macerie mamme con bambini che si tenevano per mano, ho conosciuto famiglie recluse in casa per la vergogna di essere troppo povere. Ma con il lavoro per l’Onu credo di aver contribuito anche a cambiare le condizioni di tanti, promuovendo sussidi, efficientando le amministrazioni, migliorando la qualità della vita, soprattutto di donne, appoggiando per esempio migliaia di piccole imprese femminili».

– Rita, io la immagino oggi come una diplomatica italiana all’estero al servizio dei più poveri? E’ un’immagine aderente alla realtà della sua vita e del suo ruolo?

«Noi cerchiamo di analizzare e considerare la povertà non solo dal punto di vista economico, e di affrontarla con un approccio multidimensionale, intervenendo su più fattori, dai servizi sociali alle politiche del lavoro, che pesano sulle condizioni delle famiglie e soprattutto delle donne. Identificare i più vulnerabili andando oltre il fattore economico, è fondamentale, per disegnare successivamente politiche pubbliche che possano fare da cuscinetto, quando arriva una crisi, affinché non ricadino nella povertà estrema, per creare sistemi di protezione più resilienti».

– Non mi dirà che ci sono Paesi nel mondo come in Italia dove ancora le donne hanno bisogno di affrancarsi in maniera più completa e matura?

«Mi creda, girando il mondo si capisce come il ruolo della donna sia purtroppo ancora legato a stereotipi universali, e che in molti paesi cosiddetti avanzati non si dia il buon esempio. Secondo il Gender Gap Index, il tasso di occupazione dei genitori (25– 64 anni) con un figlio varia dall’82% per gli uomini al 58,1% per le donne e il divario si amplifica con un numero superiore di figli. Si rende conto della differenza? Il dato ci dice che praticamente per una donna in Italia, è difficilissimo avere dei figli lavorando, soprattutto per la mancanza di politiche di Care Economy, ossia della mancanza di quei servizi che aiutano a conciliare la vita lavorativa e quella privata.  Anche qui c’è ancora tantissimo lavoro da fare».

– Per lei è stato un gran salto nel buio, immagino…

«Stando alle statistiche, essendo donna, nata in un piccolo paese della Calabria come Altomonte, da due genitori insegnanti, la mia mobilità professionale e sociale avrebbe dovuto essere limitata, praticamente secondo i dati, io non dovrei fare il lavoro che faccio.

Il mio sogno si è realizzato perché ci ho lavorato tanto, ci ho creduto, e anche perche l’organizzazione UNPD è costituita anche da tante donne e, in questo senso, ho potuto percepire meno le diseguaglianze esistenti, incluse quelle salariali. Però le norme sociali restano maschiliste e questo aspetto si sente e si soffre molto quando ci si muove sul campo, soprattutto in situazioni di crisi».

– Rita, non si sottovaluti. Lei oggi è Dirigente Regionale per la crescita inclusiva e la finanza sostenibile nell’hub del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP). È un traguardo di altissimo profilo internazionale. Come lo vive lei?

«Sono felicissima del mio lavoro, dell’attuale e di tutti gli incarichi precedenti. Essere un funzionario delle Nazioni Unite è un traguardo che ho voluto con tutte le mie forze, ma è anche un impegno personale, oltre che professionale, non indifferente. Significa muoversi sempre con una bandiera addosso. Nei Paesi dove vado rappresento sempre un’istituzione che attira aspettative e critiche altissime. Viviamo un momento difficilissimo a livello globale, e adesso più che mai abbiamo bisogno di un’organizzazione come la nostra che possa creare dialogo, unire fili che si sono rotti per le grandi tensioni internazionali, intervenire dove ci sono crisi molto forti.  Ma i fondi a noi destinati sono veramente pochi, i Paesi ci chiedono di salvare il mondo, con un budget che è equivalente a 1,25 USD per abitante. Ci chiedono di salvare il mondo, al costo di un pacchetto di patatine… Facile no?»

– Ma lei non si ferma mai?

«Penso che fermarsi sia fondamentale, specialmente se si lavora in zone di crisi. Il nostro lavoro è un fardello di fatiche e di emozioni che rende preziose le giornate ma dal quale, ogni tanto, si sente la necessità di prendersi una pausa. La prima volta a me è capitato dopo l’ennesimo uragano ad Haiti. Ero sfinita e volevo tornare a fare qualcosa per me».

– Come è finita?

«Che ho mandato un’application a Yale per una borsa di studio e sono stata selezionata, prima donna italiana, per il programma Yale World Fellow e per sei mesi sono tornata a studiare, a dare lezioni, e a confrontarmi con professionisti di ogni ambito. Presi una bicicletta, e in quel campus meraviglioso, tra le foglie rosse e gialle d’autunno che cadevano, mi sono sentita la persona più felice del mondo. Ricordi indimenticabili. La seconda volta, invece, ero in Messico e sono rimasta incinta. Ho avuto la necessità di tornare a casa mia, in Calabria, soprattutto per stare vicina all’unico medico che mi ha sempre tranquillizzata, il Dr. Placco, e per partorire mio figlio, che volevo nascesse in un ospedale pubblico, che volevo nascesse in Calabria. All’ospedale di Cosenza ho rivisto l’eroismo del personale sanitario di certi Paesi poveri, dove si lavora in condizioni proibitive, e ho avuto la conferma della grande importanza di proteggere la sanità pubblica per dare un servizio di qualità a tutti. È una questione di diritti, di dignità».

– Vogliamo partire dal paese dove è nata?

«Sono nata a Cosenza, ma poi sono cresciuta ad Altomonte. Sono rimasta ad Altomonte fino a 18 anni, poi ho lasciato tutto per l’università e non sono più tornata a vivere lì in paese».

– Che famiglia ha alle spalle?

«Ho una mamma e un papà, che sono le colonne portanti della mia vita, sempre presenti in ogni mio passo, senza mai giudicare le mie scelte. Papà Giulio, calabrese, insegnante, testardo, lavoratore instancabile, l’onestà fatta persona, e mamma Maria, napoletana, distruttiva, avanguardista, pittrice, maestra di scuola materna, ricordata da tutti i suoi alunni ancora oggi con tantissimo affetto…Un bel mix! Ho anche due sorelle, Amalia e Carla, a cui sono molto legata. E avevo anche due nonni, Amalia e Carlo, che sono stati fondamentali per me, ma purtroppo non ci sono più. La mia famiglia di origine si è unita a quella che ho costruito, con un marito spagnolo (ma adesso anche Italiano, se mi scordo di dirlo chi lo sente…) Rafael, a cui devo tantissimo perché ha deciso di seguirmi, lasciando tutto, e due bambini, Roberto e Rodolfo, la cosa più bella che abbia mai fatto».

– Che infanzia è stata la sua in Calabria?

«Un’infanzia libera e piena di vita. Da bambina avevo una bicicletta che mi portava ovunque, poi l’adolescenza è stata segnata dai viaggi in autobus da Altomonte a Castrovillari per frequentare il liceo. È stata un’esperienza fondamentale, il liceo ha contribuito molto a formare la persona che sono oggi. Era un periodo rumoroso per le risate, le discussioni con gli amici, i viaggi in motorino con loro. Mi sentivo libera, non avevo mai orari per tornare a casa… forse erano altri tempi».

– Ha qualche ricordo personale di quella stagione?

«Molti, tantissimi, tutti belli. Ricordo i viaggi in autobus con le mie più care amiche di Altomonte, andata e ritorno, quando ci raccontavamo la vita. E ho un ricordo bellissimo dei miei amici del liceo, con cui abbiamo preparato gli esami di maturità. Un amico, Domenico, aveva una casa accanto alla scuola, e passavamo pomeriggi interi ad aiutarci a vicenda. Chi era più bravo in una materia, preparava gli altri. È un ricordo che mi riempie il cuore ancora oggi.

Un altro ricordo a cui sono specialmente legata, sono le ore passate con la mia amica Laura, a fare barattolini di conserve, mentre ascoltavamo Battisti, e cantavamo a squarciagola, o i giri in motorino con la mia amica Caterina, sono tutti ricordi preziosi».

– Che scuole ha frequentato e dove?

«Ho frequentato le scuole elementari e medie ad Altomonte, poi il Liceo Scientifico “EnricoMattei” a Castrovillari».

– Delle elementari quali insegnanti ricorda ancora?

«Ricordo con affetto speciale le mie tre maestre: Annina, Delfina e Rosetta. Alla maestra Rosetta Provenzale devo parte della mia carriera. In quarta elementare decise, con quello che ora giudico un approccio totalmente rivoluzionario, di non seguire i libri di testo scolastici. Ci fece realizzare quadernoni tematici su argomenti da lei selezionati: Gli Anziani, Il Razzismo, La Solidarietà, Gli Incas, i Maya e Gli Aztechi (sono quelli che ricordo di più). Lei portava testi, canzoni, poesie, che incollavamo sui quadernoni, e per una settimana intera ognuno di noi doveva fare ricerche e approfondire il tema. L’ultimo giorno era dedicato a un dibattito sul tema scelto. Ricordo ancora quando durante la settimana del Razzismo ci fece cantare tutti insieme il gospel “John Brown è morto ma lo schiavo è in libertà, tutti fratelli, bianchi e neri siamo già”. Forse lei allora non poteva immaginarlo, ma quei quaderni hanno piantato in me il seme della lotta per le disuguaglianze, la giustizia, la libertà…».

– E delle scuole superiori, quali insegnanti vale la pena di ricordare?

«Senza dubbio, come direbbero gli inglesi, “the one and only”, il Prof. Franco Bellizzi. Non riesco a spiegare cosa è riuscito a fare con noi, 16 studenti di liceo. Quando spiegava letteratura, era capace di collegare Sallustio alla politica moderna, ci faceva riflettere, dibattere, ci ha fatto diventare quello che siamo oggi. Ci ha fatto amare la letteratura italiana e latina, ci ha fatto capire che diventare adulti significa fare scelte che a volte costano».

– C’è una materia in cui andava meno bene?

«Non ero brava in latino scritto. Troppa logica! Soprattutto Cicerone, che metteva sempre il soggetto alla fine della frase, mi faceva diventare pazza. Una volta presi 7 e il professore mi chiese: “Sciarra, hai copiato?”. Risposi di sì, e lui mi disse di sedermi… poi ci fece un discorso bellissimo sull’Italia, sul perché chi studia solo per il voto è lo stesso che, da ingegnere, fa cadere i ponti perché non sa fare i calcoli, o da medico sbaglia le diagnosi… e poi ci chiese di scegliere se volevamo diventare persone che potevano fare la differenza, o persone che inseguivano un voto. Da quel giorno, durante i compiti in classe, ci lasciava soli. Nessuno copiò più. I miei compagni di liceo sono per me persone importantissime, che cerco di vedere ogni volta che possiamo riunirci in Calabria».

– Come nasce la sua scelta universitaria?

«Avevo un forte desiderio di tornare in Calabria e gestire ospedali; ho sempre avuto una passione per il pubblico. Lavorare per il pubblico è una missione, è vocazionale.  Mentre leggevo vari opuscoli, lessi di questa facoltà di Economia delle Amministrazioni Pubbliche e Relazioni Internazionali… mentre leggevo la descrizione, pensavo che fosse proprio ciò che cercavo, prepararmi per gestire il pubblico. Era l’unica facoltà allora che preparava per questo. Si trovava in Bocconi, a Milano, c’era un test di ammissione, lo feci e fui ammessa. Due anni dopo l’inizio, crollarono le Torri Gemelle; ero in aula e il mio più caro amico mi pregò di andare a seguire un corso sulle relazioni internazionali. Me ne innamorai. Poi lessi il libro che cambiò la mia vita, Sviluppo e Libertà di Amartya Sen. In quel libro, dove il premio Nobel parlava di come lottare contro le disuguaglianze, parlava della vita di tutti noi del Sud, parlava di me. Diceva che un essere umano si sviluppa pienamente solo se è libero di scegliere. Pensavo a tutti i calabresi che hanno avuto come unica scelta quella di lasciare la loro terra. Capìì che non eravamo liberi di scegliere la nostra vita. Decisi che dovevo fare qualcosa per chi stava ancora peggio di noi. Non mollai l’idea. Più leggevo, più studiavo, e più mi convincevo che lavorare per l’ONU fosse il modo giusto per farlo. Lì scelsi, che quella sarebbe stata la mia missione nella vita».

– Cosa è stata la Bocconi per lei?

«La mia finestra sul mondo. Mi ha fatto capire che c’era un mondo che si muoveva ad altre velocità, con altri canoni, con altre misure… è stata una sveglia che mi ha fatto capire che non potevo perdere tempo».

– Il suo primo incarico?

«Il mio primo incarico con l’ONU, con quella che poi è rimasta la mia agenzia, l’UNDP (il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo), è stato nella Repubblica Dominicana. Quando varcai la soglia dell’ufficio e vidi la bandiera, piansi di felicità. Avevo realizzato un sogno. Partii con un concorso del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale MAECI che inviava Volontari delle Nazioni Unite nelle varie agenzie dell’ONU. Fu una scuola di politica pubblica, perché l’ufficio aiutò il Paese a costruire tutta la strategia di protezione sociale dopo una gravissima crisi bancaria che lasciò migliaia di persone nella povertà. Imparai tantissimo in quei primi quattro anni».

– La sua prima esperienza importante?

«Sicuramente Haiti. Ero giovane, avevo 30 anni. Haiti, dopo il terremoto del 2010, che causò oltre 200.000 morti e lasciò 10 milioni di metri cubi di macerie, una quantità che, rappresentata fisicamente, occuperebbe una fila di camion dal Canada alla Terra del Fuoco in Argentina. Fui selezionata per gestire un progetto di rimozione e riciclaggio delle macerie. Arrivai come assistente di progetto per 18 mesi. Ci rimasi sei anni, con una splendida promozione, gestendo come capo di un team di 120 persone, più di 12 progetti, per ricostruire parti della città, creare lavoro per le donne e dare raccomandazioni di politica pubblica al governo su vari temi come la protezione sociale. Fu un periodo duro, durissimo, ma anche molto bello perché vedevamo i risultati dei nostri sforzi, che oggi purtroppo sono sfumati a causa della situazione del Paese».

– La ricerca, l’analisi, lo studio (Progetto) a cui è più legata?

«C’è un progetto su cui ho lavorato fin da quando sono andata ad Haiti e che adesso gestisco a livello regionale. Si chiama SDG Value Chain. Aiutiamo le piccole e medie imprese, gestite soprattutto da donne, a ottenere risultati migliori, sia in contesti di crisi che di sviluppo. Abbiamo aiutato migliaia di donne a guadagnare di più, vendere meglio, e a vendere online dopo il Covid, in 11 Paesi dell’America Latina, ma anche in Africa e in Europa».

– Avverto nelle cose che mi dice un senso di fierezza…

«Sa perché sono così particolarmente legata a questa iniziativa? Perché, quando parli con una donna con 4, 5 o 6 figli che ti racconta di aver perso tutto e di aver ritrovato la sua vita e dignità grazie attraverso il lavoro,  capisci che quello che facciamo ha un senso…».

– Rita, come finisce un giorno di tanti anni fa in India?

«Finisco in India perché, dopo l’Erasmus in Finlandia, avevo deciso di non voler più smettere di viaggiare. Così, mi precipitai all’Ufficio Stage della Bocconi a luglio per vedere le opportunità Last Minute disponibili… lessi “Consolato Generale d’Italia a Mumbai” e la descrizione del ruolo. Avrei dovuto organizzare una sfilata di moda, una mostra sui “50 anni della moda italiana” e un Film Festival per celebrare la cultura italiana. E cosi fu.  Organizzai i tre eventi sia a Mumbai che a New Delhi. Come canta Nat King Cole “Unforgettable

– Ci ritornerebbe oggi?

«Fu un’esperienza fantastica, mi sono divertita moltissimo e la rifarei altre 100 volte».

– Posso chiederle come fa a conciliare il suo ruolo con i legami che ha ancora in Calabria?

«Torno sempre, e tornerò finché potrò… il mio legame con la Calabria è fortissimo».

– Le è mai capitato in giro per il mondo di “vergognarsi” di essere figlia della Calabria?

«Vergogna, mai. Rabbia, tanta. Quando studiavo Economia dell’Unione Europea, al College of Europe a Bruges, la Calabria era sempre l’ultima regione su tutto. Non importava quale esempio si prendesse, quando c’erano studi sulle regioni europee, leggevo sempre “Calabria” come ultimo fanalino di coda».

– Che consiglio darebbe a una giovane studiosa che oggi volesse intraprendere la sua carriera?

«Di non avere pregiudizi, di laurearsi rapidamente, imparare le lingue e fare tante esperienze per capire, prima ancora di cosa fare, cosa non si vuole fare. Il mondo delle relazioni internazionali è vasto e complesso. È importante capire se si vuole lavorare per un’ONG, per la diplomazia, o per l’ONU; sono tutte carriere distinte».

– Qual è stata la vera arma del suo successo?

«Quello che contraddistingue noi calabresi: perseveranza e testardaggine. Mi sono presentata al concorso del MAECI fino a quando non ce l’ho fatta. Ricordo ancora l’usciere che mi disse una volta “Ah dottore’, ancora qua sta”? e gli risposi “Fino a quando non mi selezionano mi vedrà sempre!”»

– Che rapporto ha ancora con la sua città natale?

«La amo; rappresenta chi sono, le mie origini, le mie radici, che allo stesso tempo sono diventate le mie ali. La mia terra è la mia forza. Vivere in Calabria vuol dire saper far molto, con molto poco. E’ cio che facciamo nelle Nazioni Unite».

– Quante volte all’anno riesce a tornare?

«Cerco sempre di tornare due volte, in estate e a Natale».

– Cosa le manca di più di questa terra?

«La mia famiglia e il mio terrazzo, da cui vedo contemporaneamente il Pollino e la Sibaritide che incastonano Altomonte. Uno spettacolo».

– Come immagina il suo futuro? Ancora lontano da Altomonte?

«Nel breve termine sì, nel lungo mi rivedo qui».

– L’area di crisi più complicata che ha visitato o analizzato qual è stata?

«Senza dubbio, il terremoto ad Haiti. Abbiamo rimosso macerie, corpi, morti. In una situazione già difficilissima, dopo il terremoto abbiamo affrontato due uragani. Fare il mio lavoro significa lavorare per un’Organizzazione costantemente criticata. Eppure, ci mettiamo tutto, la nostra intera vita. Non è facile. Nonostante le critiche, quando guardo al mio lavoro attuale e penso a tutte le persone vulnerabili che aiutiamo con sistemi di protezione sociale più efficienti, ai posti di lavoro che creiamo, alle politiche pubbliche che elaboriamo con i paesi per combattere la povertà, credo che ora più che mai abbiamo bisogno dell’ONU, proprio quando il multilateralismo è sotto attacco. Certo, dobbiamo riformarla, aggiornarla, ma noi siamo il risultato di ciò che i paesi del mondo vogliono, dei consensi che incontrano, e non è affatto un lavoro semplice».

– Cosa sono gli italiani all’estero oggi? Una risorsa o un peso per gli altri?

«Gli italiani all’estero sono un peso per l’Italia, che non riesce a trattenerli, attrarli, mantenerli, offrendo loro una promessa di benessere. Esportiamo cervelli e abilità, che perdiamo per noi, per i nostri territori, per il nostro sviluppo. È una risorsa persa e un peso per chi resta».

– Che Ferragosto è stato questo per lei?

«Eheheheh, un tipico Ferragosto calabrese, da mio zio Cesare al fiume, con la mia famiglia e amici, mangiando carne arrosto! Da vera Calabrese».

– Come passa le sue giornate ad Altomonte?

«Mi divido tra il nostro splendido mare, la Sila e il Pollino. Altomonte è a un passo da tutto. A volte semplicemente resto a casa, scappo di corsa dalla mia amica Laura per prendere un caffè nel suo Hotel, aspetto che arrivi (ovviamente dal famoso Nord) Caterina per raccontarci un po’ le nostre vite,  e mi godo il tempo con mamma e papà».

– Se l’Unical la chiamasse, lei tornerebbe a casa?

«Come si dice in inglese, “tricky”… Le rispondo più semplicemente come fanno in Galizia, con un’altra domanda: “Per fare cosa?”»

– La sua canzone preferita?

«Ne posso dire due? Fields of Gold di Sting, Non c’è niente da capire di De Gregori.

– L’ultimo romanzo letto?

«Il libro che ho appena finito è Fascismo e Populismo, di Scurati, che penso dovrebbe essere un libro di testo al terzo anno di liceo. Adesso sto leggendo La generazione ansiosa di Jonathan Haidt».

– Va mai al cinema?

«Sì, mi piace tantissimo, una passione che condivido con mio marito».

– Si è mai stancata di questo suo lavoro?

«Amo il mio lavoro, è il lavoro che ho sempre sognato di fare, però ammetto che a volte penso di mollare tutto e tornare in Calabria. Scherzi a parte, quando si fa lavoro sul campo ci si stanca tantissimo, soprattutto in zone di crisi. E sì, ci si stanca, emotivamente e fisicamente».

– Se tornasse indietro, cosa non farebbe?

«Farei figli molto prima, come fanno in America Latina. Lì non aspettano di avere un lavoro per poi farli. Studiano all’università e hanno figli, e non è un problema. Penso sia una questione culturale, di non misurare troppo i rischi e di accettare che i figli non devono necessariamente nascere avendo già tutto». (pn)

 


GLI AIUTI ONU: ECCO COSA FACCIAMO

di RITA SCIARRA – Quando vedo la pagina Facebook di Zamy Marah che vende scarpe, penso che ci sia speranza. Nel 2011, durante il terremoto di Haiti, Marah ha perso tutto. Fu allora, con il supporto della Corea, che lanciammo il primo “In Motion”, o “Ann Ale” in creolo.

Abbiamo condotto un’analisi di mercato e, dopo il terremoto, abbiamo visualizzato un’opportunità per creare e rafforzare negozi di artigianato, in particolare quelli di gioielleria.

Abbiamo supportato 600 aziende. Marah’s esiste ancora oggi. Ora vende scarpe impreziosite da perline, utilizzando la stessa tecnica che ha imparato per realizzare collane nel 2011.

A partire da Marah, è nato “In Motion” e, insieme ad altre metodologie del nostro programma SDG Value Chains, abbiamo raggiunto più di 11 paesi nella regione, supportando instancabilmente più di 40.000 micro, piccole e medie imprese (MPMI).

In America Latina, le micro, piccole e medie imprese rappresentano oltre il 99,5% del tessuto imprenditoriale e sono responsabili di circa il 60% dell’occupazione produttiva formale. Tuttavia, sono caratterizzate da bassa produttività, competitività ed efficienza. Nella regione ci sono 17.217.911 piccole e medie imprese e la metà di esse è fondata e guidata da donne (secondo il GEM Global Report – Global Entrepreneurship Monitor 2021, pubblicato il 10 ottobre 2022).

Quando abbiamo lanciato le metodologie del programma SDG Value Chains, siamo entrati nel cuore della vita di queste donne. Diagnosticare un’azienda spesso significa diagnosticare le loro vite. Spesso, hanno intrapreso l’imprenditoria sapendo molto poco di contabilità, marketing, igiene e vendite. Dopo aver ricevuto supporto e assistenza tecnica attraverso il programma, abbiamo misurato i risultati e scoperto che, in media, le vendite erano aumentate tra il 15% e il 30%. Questa è anche una diagnosi di come le loro vite sono migliorate.

Capire come separare la contabilità domestica e aziendale consente loro di gestire meglio entrambe; vendere di più consente loro di creare opportunità di lavoro per gli altri; sapere come trattare meglio i clienti può persino influenzare il modo in cui si relazionano con i propri figli. Queste sono le testimonianze che abbiamo ricevuto quando abbiamo condotto valutazioni e analizzato i risultati di mesi di lavoro e supporto. Indipendentemente dal paese o dalle dimensioni dell’azienda, spesso i problemi di queste vite, aziende e donne sono gli stessi, da paese a paese, da regione a regione.

Il programma SDG Value Chains ha diverse metodologie di accelerazione e incubazione. È iniziato con il programma “Suppliers Development” più di 20 anni fa in Messico, quando l’UNDP ha firmato un progetto con NAFIN (Nacional Financiera) per compilare le migliori pratiche del settore privato nello sviluppo dei fornitori a livello internazionale e nazionale.

Successivamente, abbiamo avviato la sistematizzazione e l’implementazione in grandi aziende come Nestlé – Messico, con il supporto del Ministero dell’Economia, con l’obiettivo di migliorare le catene del valore e la produttività delle aziende messicane, aumentare la produzione locale e garantire la qualità del prodotto per l’esportazione. Abbiamo supportato 62 filiere produttive in 22 stati, integrando più di 650 PMI fornitrici, con un tasso di crescita occupazionale medio del 5,8% e un aumento delle vendite del 15%.

Da allora, abbiamo continuato a supportare e innovare con l’obiettivo di rafforzare un ecosistema aziendale più resiliente per le PMI, che includa e produca in modo più efficace, creando posti di lavoro e promuovendo gli investimenti. Abbiamo mantenuto aggiornate queste metodologie e, grazie al monitoraggio e ai risultati ottenuti, siamo stati in grado di raccogliere e trasferire le best practice.

La pandemia di COVID-19 è stata senza dubbio una grande sfida, ma anche un’opportunità. Dopo la chiusura di migliaia di attività commerciali, l’Ecuador ha lanciato “Digital In Motion” per supportare il commercio locale attraverso l’innovazione. Abbiamo iniziato a generare capacità attraverso piattaforme digitali. In coordinamento con istituzioni pubblico-private, le aziende hanno imparato a vendere tramite WhatsApp, consegnare prodotti ai consumatori e implementare protocolli sanitari. È stato un successo. Nel giro di pochi mesi, migliaia di aziende hanno ripreso a vendere i loro prodotti. “Digital In Motion” si è esteso a più di 9 paesi nella regione e continua a essere implementato con adattamenti a contesti diversi.

Un’altra metodologia che ha varcato i confini è “Growing your business”. Le PMI albanesi sono state in grado di accedere al mercato europeo ed esportare olio d’oliva in Italia, aumentando significativamente le loro vendite.

Nel 2023, abbiamo supportato 19 PMI, di cui 12 guidate da donne, ottenendo un aumento medio delle vendite del 30%. Inoltre, la metodologia “Supplier’s Development” ha raggiunto il Botswana, insieme al nostro lavoro con il “ACP-EU Development Minerals Programme”.

In 20 anni, abbiamo sviluppato capacità e aiutato le aziende, guidate prevalentemente da donne, a migliorare la loro produttività, diventando fornitori di fiducia per grandi multinazionali, aumentando le loro vendite e facilitando l’inclusione, supportando la loro formalizzazione.

Nell’attuale contesto globale complesso, che include un’inflazione elevata e aumenti significativi dei prezzi delle materie prime, insieme a interruzioni nelle catene di fornitura globali, le sfide aziendali stanno aumentando. Ecco perché il programma SDG Value Chains si adatta, innova e risponde a queste sfide e opportunità. La resilienza è fondamentale, esemplificata dalla nostra fornitura di soluzioni di inclusione finanziaria.

Il viaggio è stato lungo ed entusiasmante; abbiamo fatto crescere e supportato il cuore pulsante dell’economia della regione e di altre regioni. Collegare le piccole imprese a nuovi mercati, da quelli locali a quelli globali, aumentare la loro produttività e, allo stesso tempo, includere i più vulnerabili con una visione di resilienza, è il futuro. Ed è qui che ci troviamo. (rs)


RITA SCIARRA ALLA BOCCONI

Sul sito ufficiale dell’Università Bocconi di Milano Rita Sciarra viene raccontata come una delle energie migliori del Campus milanese, e nel 2017 viene raccontata da Davide Ripamonti per il giornale digitale della Bocconi come una vera e propria risorsa internazionale di cui il Campus universitario va fiero. “Impegnata sul campo ad Haiti, dove aiuta a ricostruire il paese sconvolto dal terremoto del 2010, l’alumna Rita Sciarra- si legge sul sito dell’Ateneo- “sarà la prima donna italiana a far parte del prestigioso programma”.

Il sogno di ragazza, dirigere l’ospedale del piccolo paese della provincia di Cosenza in cui è nata, Altomonte, si è trasformato nella realtà di adulta, e cioè un ruolo di primo piano nelle Nazioni Unite, dove è a capo dell’unità per la riduzione della povertà ad Haiti, il paese caraibico che ancora stenta a riprendersi dal terribile terremoto del 2010.

Rita Sciarra, 36 anni, laureata Clapi nel 2004, una lunga carriera che a partire dall’università, “e grazie inizialmente proprio all’Università Bocconi e alla vittoria del Premio Ulisse, che mi ha permesso di iniziare a viaggiare”, l’ha portata a dare il proprio contributo in alcune delle aree più disagiate del pianeta, come l’India, la Tanzania, la Bolivia, Santo Domingo e ora, appunto, Haiti, è stata selezionata come World Fellow presso l’Università di Yale in un programma che coinvolge 16 ricercatori scelti in ogni parte del mondo che siano impegnati in attività a favore degli altri.

“Siamo tutte persone a metà carriera”, spiega Rita, “con cose importanti alle spalle ma con ancora tanti obiettivi davanti a sé. È un programma che esiste da 15 anni e sono la prima donna italiana a essere stata chiamata”.

Il programma si svolgerà da luglio a dicembre e consisterà in una serie di attività differenti: “Dovremo tenere dei corsi in cui racconteremo le nostre esperienze”, continua Rita, “poi l’università preparerà un programma ad hoc rivolto a noi, per implementare le nostre conoscenze; infine, saremo chiamati a fare da mentor a studenti interessati a lavorare nei settori della cooperazione”.

Al termine, Rita tornerà ad Haiti, dove il suo lavoro è molto importante: “Quello che ho fatto appena arrivata lì è stato lavorare a un progetto il cui obiettivo era pulire le macerie e riciclarle, poi mi è stata affidata la gestione di una serie di altri progetti di recupero di quartieri distrutti, prima di passare all’incarico che svolgo attualmente. Devo dire che la mia vita è una continua application”.

Per i prossimi 10-15 anni Rita si immagina ancora nelle Nazioni Unite, “dove posso contribuire a dare opportunità a chi non le ha, ma il mio sogno nel cassetto è tornare in Italia, dove c’è molto da fare, magari proprio in quella Calabria da cui sono partita. Quello che voglio dire ai giovani è che devono credere nel proprio sogno e perseguirlo anche se all’inizio si riceve qualche no. Volevo lavorare in questo campo e ce l’ho fatta. Forse un giorno dirigerò proprio quell’ospedale, come sognavo all’inizio del mio percorso”. (pn)


RITA, WORLD FELLOWS A YALE

Il World Fellows del 2017, e di cui Rita Sciarra è entrata a far parte (nella foto in seconda fila dal basso, terza da sinistra) -afferma Emma Sky, direttrice del Maurice R. Greenberg World Fellows Program- sono individui straordinari che condividono l’impegno per una società aperta e la convinzione che ciò che ci unisce è molto più grande di ciò che ci divide. Si uniscono alla nostra rete di oltre 300 World Fellows, lavorando per rendere il nostro mondo un posto migliore per tutti”.

Il programma World Fellows – vi ricordo- è l’iniziativa di sviluppo della leadership globale distintiva della Yale University e un elemento fondamentale dell’impegno continuo di Yale per l’internazionalizzazione. Ogni anno, l’Università invita un gruppo di professionisti esemplari a metà carriera, provenienti da una vasta gamma di settori e paesi, per un periodo intensivo di quattro mesi di arricchimento accademico e formazione alla leadership.

La missione di World Fellows è quella di coltivare e rafforzare una rete di leader impegnati a livello globale impegnati a rendere il mondo un posto migliore. Il programma fa parte del Jackson Institute for Global Affairs, che prepara gli studenti di Yale alla leadership e al servizio globale attraverso il suo programma di master in affari globali, il master di studi avanzati in affari globali e la laurea triennale in “affari globali”.

“Sono onorato e felice di dare il benvenuto a questi leader e innovatori nel campus”, aggiunge il presidente di Yale Peter Salovey.

“I World Fellows hanno migliorato la vita delle persone e i loro contributi hanno un’influenza di vasta portata sulla società. Arricchiscono il nostro ambiente di apprendimento condividendo la loro competenza ed esperienza con i nostri studenti e docenti. Hanno l’opportunità di crescere accademicamente e personalmente mentre interagiscono con la nostra comunità. Questo programma è un esempio dell’impegno di Yale nello sviluppo di leader impegnati a livello globale”.

Ecco, questo è il mondo conosciuto, vissuto e attraversato da questa straordinaria ragazza originaria di Altomonte in Calabria. Motivo di vanto per la sua gente e la sua terra. (pn)

Dal Centenario parta la rivalutazione di Saverio Strati

di SANTO STRATI – La ricorrenza dei 100 anni dalla nascita di Saverio Strati può essere un’ottima occasione per dare allo scrittore di Sant’Agata del Bianco il giusto tributo e il riconoscimento del suo indiscutibile valore nella letteratura italiana del ‘900.

Da, vivo, sappiamo, pur avendo gli apprezzamenti di grandi letterati e studiosi e il sostegno di una casa editrice importante come la Mondadori, Saverio Strati ha subìto negli ultimi anni della sua vita (anche da parte del suo primo grande editore) soltanto amarezze e delusioni. E sulla sua opera è calato quasi un velo di trascuranza, soprattutto da parte dei media nazionali, che sono tornati a occuparsi di lui soltanto in occasione dell’applicazione a suo favore della Legge Bacchelli, quella che serve ad aiutare gli artisti indigenti. Saverio Strati aveva pubblicato una lettera molto accorata e il compianto prof. Nuccio Ordine, e il Quotidiano del Sud, si erano fatti portavoci e alfieri della necessità di sostenere dignitosamente l’esistenza di un grande della letteratura italiana.

Quant’è grande Saverio Strati? È necessaria, certamente, un’opera di rivisitazione critico-letteraria e di approfondimento da parte del mondo accademico per dare il meritato risalto a un autore che ha saputo raccontare il Sud (attraverso la sua Calabria) in maniera unica ed eccellente. Senza farsi adulare dal verismo o dalla diffusa mania di realismo, ma scrivendo pagine di bella letteratura, pagine di narrativa coinvolgenti e appassionate. Che, ahimè, moltissimi calabresi (al contrario di tantissimi europei) sconoscono o non hanno mai letto.

Il centenario di Strati dovrebbe essere, dunque, una molla in grado di far convergere nuova attenzione da parte dei critici letterari, ma soprattutto far scoprire agli italiani (e ai calabresi sparsi in tutto il mondo) questo cantore del Sud, i suoi racconti, le sue storie.

Non è un’operazione facile, ma nemmeno impossibile: servirà una rilevante azione di marketing letterario, (anche e soprattutto attraverso i social) per attrarre l’attenzione sulle sue opere e creare nuova curiosità verso le oltre 5000 pagine di inediti, che andrebbero studiate e, possibilmente, pubblicate.

Strati ha firmato e pubblicato oltre una decina di romanzi, tantissimi racconti e chissà quanto materiale straordinario nascondono i suoi quaderni.

Si parta facendo un’opera di rivalutazione dei suoi libri che, meritoriamente, l’editore Rubbettino ha ristampato in una bella e ben curata edizione arricchita di preziose prefazioni di autori e saggisti importanti, invitando i lettori (ce ne sono ancora, non è una categoria in via di estinzione) a scoprire un autore che saprà conquistarli.

Ma un ruolo fondamentale dovrà giocarlo la scuola: in Calabria la ex vicepresidente Giusi Princi (prima di diventare eurodeputata) aveva siglato un protocollo con l’Ufficio Scolastico Regionale per incentivare la lettura e lo studio degli autori calabresi nelle scuole della regione (Alvaro, Strati, La Cava, Seminara, etc) e col nuovo anno scolastico vedremo come sarà accolto questo “suggerimento” da parte della classe docente.

Molti insegnanti, in Calabria, per la verità, autonomamente, da anni portano l’attenzione dei propri alunni sugli autori del 900 (soprattutto di origine calabrese) di cui i programmi scolastici non prevedono lo studio. Iniziative singole, meritevoli e degne del massimo apprezzamento, perché è anche sul territorio che va formata la cultura delle nuove generazioni. Poco inclini a leggere (diciamo la verità) ma pronte ad appassionarsi a ricerche, progetti multimediali, costruzione di pagine web, etc. Che, naturalmente, per la loro realizzazione richiedono lo studio (e la lettura) degli autori: ecco allora che, con il pretesto delle nuove tecnologie, più di un insegnante ha “spinto” gli alunni alla lettura per trarre info e dati da utilizzare nel multimedia. Abituando, così,  i ragazzi all’esercizio più bello del mondo: leggere un libro.

Sono un modello da imitare, questi insegnanti. È un segnale di speranza per il futuro. E, soprattutto, un’indicazione da tenere preziosamente a mente.

Dopo l’equivoco-pasticcio della cancellazione (subito ritirata) del programma di eventi per celebrare degnamente lo scrittore di Sant’Agata del Bianco, è ora il tempo di mettere a frutto i suggerimenti e le idee che il Comitato tecnico, voluto dall’allora vicepresidente Princi, ha prodotto.

Bisogna puntare a far conoscere l’opera di Strati già in regione (dove risulta ai più un autore con poca fortuna ma ch epochi hanno letto), ma superare gli angusti (e inaccettabili) confini regionali. Strati non è un autore “calabrese” (perché tale indicazione sarebbe oltremodo riduttiva e limitativa) bensì un autore nato in Calabria. Come tutti gli altri, nati non importa dove, che con il proprio bagaglio di cultura e talento hanno conquistato un posto d’onore nella storia della letteratura italiana.

Non è soltanto una questione di orgoglio di calabresi (che comunque ne hanno da vendere) ma in realtà è una giusta aspirazione per i libri, i romanzi, i racconti di Saverio Strati.

Quindi le iniziative che verranno guardino oltre la Calabria e giochino su un trinomio che darà soddisfazione: Saverio Strati + Sant’Agata del Bianco + Calabria.

Il suo paese natale oggi conta più o meno 600 anime, ma grazie al dinamismo e alla caparbietà del sindaco Domenico Stranieri (che ha inventato il festival Stratificazioni, giocando sul cognome dell’illustre concittadino) sta seguendo un percorso di sviluppo e inclusione sociale, dove l’arte e la cultura con gli elementi fondamentali.

La strada è tracciata, serve ora tenere a mente quanto scriveva Saverio Strati a proposito delle sue opere: «Ho la sensazione e il timore che la critica ufficiale si sia finora occupata dell’aspetto esteriore, superficiale, dei miei racconti, senza essere riuscita però ad approfondire i fatti psicologici che sono alla base di tutto ciò che ho fatto e scritto».

Eppure, la critica letteraria aveva valutato in maniera egregia il suo lavoro, elogiato i suoi scritti e un Premio Campiello nel 1977 aveva siglato le premesse per un percorso di successo. Per anni, Strati è stato tradotto all’estero in francese, tedesco, inglese, mentre veniva snobbato in patria e, peggio ancora, trascurato al massimo nella proprio terra.

Si può e si deve rimediare perché abbiamo la fortuna di avere un autore che ha saputo raccontare la Calabria e il cui lustro andrà a ricadere sul territorio. Quell’angolo di Locride dove c’è Sant’Agata del Bianco può e deve diventare un cenacolo di cultura. Un punto di riferimento fondamentale per la crescita sociale del territorio e la formazione dei nostri giovani. I quali hanno bisogno di modelli e di esempi cui ispirarsi per costruire il proprio futuro: «Io l’amo profondamente la mia Calabria – ha scritto Saverio Strati –, ho dentro di me il suo silenzio, la sua solitudine tragica e solenne. Sento che pure qualcosa dovrà venire fuori di lì: un giorno o l’altro dovrà ritrovare dentro di sé ancora quelle tracce che conserva dell’antica civiltà della Magna Grecia». ν

Il primato dell’Unical: la prima facoltà di Ingegneria Gestionale nacque lì nel 1972

di FRANCO BARTUCCI – Il corso di laurea che oggi viene denominato “Ingegneria Gestionale” fu istituito per la prima volta in Italia all’Università della Calabria nel 1972, con Rettore il prof. Beniamino Andreatta, consigliere economico di Aldo Moro, e nasce con la denominazione di Ingegneria delle tecnologie industriali ad indirizzo economico-organizzativo.

Il prof. Beniamino Andreatta arrivò a Cosenza dalla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna nel mese di maggio 1971, dove insegnava Economia, quale componente del Comitato Ordinatore della Facoltà di Scienze Economiche e Sociali, nominato dal Ministro della Pubblica Istruzione, Riccardo Misasi, con i Comitati Ordinatori inoltre delle Facoltà di Ingegneria, Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, nonché di Lettere e Filosofia.

Eletto nello stesso mese di maggio 1971 dal Corpo Accademico Rettore dell’Università della Calabria, a norma della legge istitutiva 12 marzo 1968 n°442, si occupò, attraverso un’apposita commissione, presieduta dal prof. Adriano Vanzetti, della scrittura dello Statuto dell’Università, che venne approvato con il DPR 1° dicembre 1971 n° 1329, firmato d’ordine del Presidente della Repubblica, dal Ministro della Pubblica Istruzione Riccardo Misasi, al cui interno venne predisposto il piano organizzativo e di studio dei corsi di laurea suddivisi per Facoltà e relativi dipartimenti, unitamente agli indirizzi e relative forme amministrative e gestionali della nascente Università con il suo Centro Residenziale, anch’esso unico in Italia nel sistema universitario del nostro Paese.

Gli insegnamenti di questo specifico corso di laurea in Ingegneria vennero inseriti nell’organizzazione dei dipartimenti di Organizzazione aziendale e di amministrazione pubblica; nonché di Sistemi afferenti alla Facoltà di Ingegneria. Per il corso di laurea in Ingegneria delle tecnologie industriali vennero inseriti gli indirizzi: meccanico, chimico, elettrico ed economico organizzativo. Veniva a costituirsi per la prima volta in Italia, proprio all’Università della Calabria, in base a quest’ultimo indirizzo, il cosiddetto corso di laurea in “Ingegneria gestionale”.

Mentre per l’altro corso di laurea denominato Ingegneria civile per la difesa del suolo e la pianificazione territoriale vennero attivati i seguenti indirizzi: idraulico, geotecnico, strutture e trasporti.

Dopo cinque anni di sperimentazione e precisamente nell’anno accademico 1976/1977, nella prima decade del mese di giugno, il preside della Facoltà di Ingegneria, prof. Sergio De Julio, con il sostegno dei Dipartimenti di Organizzazione Aziendale e Amministrazione Pubblica, nonché di Sistemi, promosse nell’edificio polifunzionale di Arcavacata una tavola rotonda con la partecipazione dei rappresentanti dell’Eni ( Paolo Bonfanti), dell’Olivetti (Giancarlo Lunati), dell’Iri (Ettore Massacesi), della Fiat (Cesare Palenzona), della Montedison (Giorgio Petroni), della Confapi (Massimo Romita), del Formez (Sergio Zoppi), per una profonda riflessione sulle figure professionali e sull’individuazione di nuovi ruoli dell’ingegnere, con particolare riferimento all’ingegnere economico organizzativo. Cosicché da quel dibattito nacque la nuova denominazione del corso di laurea in “Ingegneria gestionale” per una maggiore tutela di queste figure negli sbocchi professionali e del loro inserimento nel mondo del lavoro. Un percorso formativo che avrebbe creato nuovi professionisti per il loro utilizzo non solo nell’industria quanto in quello della produzione.

Dall’ esperienza dell’Università della Calabria nel 1978 tale corso di laurea venne attivato dopo presso l’Università di Udine e nel 1983 al Politecnico di Milano; quindi successivamente nelle Università di Padova, Pisa, Palermo, Napoli Federico II e così via in altre sedi universitarie.

La nascita del Cies e il nuovo ordinamento dei corsi di laurea della Facoltà d’Ingegneria 

Dopo dieci anni, a metà dicembre del 1988, l’Università della Calabria aderisce al Consorzio di Ingegneria Economica e Sociale (Cies), con presidente il prof. Francesco Del Monte, docente di Economia ed organizzazione aziendale, presso la Facoltà di Ingegneria, con preside il prof, Jacques Guenot, fin dal primo anno accademico 1972/1973, su invito del Rettore Beniamino Andreatta.

Il prof. Del Monte, su mandato e delega poi del Rettore Pietro Bucci, assunse all’inizio degli anni ottanta la carica di dirigere il Settore Orientamento Laureati ed il loro inserimento nel mondo del lavoro, organizzando e pubblicando quattro numeri del Notiziario della stessa Università, con l’obiettivo primario di segnalare alle Istituzioni ed al mondo delle imprese locali e nazionali i nomi dei laureati dell’UniCal per una possibile considerazione di assunzione ed inserimento nel mondo del lavoro.

Il Cies, che fu istituito grazie alla legge n.64/1986 che disciplinava il nuovo intervento straordinario nel Mezzogiorno, per l’Università era un punto di riferimento per l’attrazione di docenti e ricercatori da impiegare nell’area dell’innovazione nell’ambito delle Facoltà di Ingegneria e Scienze Economiche e Sociali, quanto per dare maggiore valore al corso di laurea in “Ingegneria Gestionale” ed ai suoi laureati che nel frattempo venivano a costituirsi in buon numero.

Intanto il Consiglio della Facoltà di Ingegneria, con preside il prof. Jacques Guenot, nella seduta del 2 marzo 1990 riordina l’offerta didattica, suddividendo i due corsi di laurea e relativi indirizzi previsti per la Facoltà di Ingegneria, fin dalle origini dal Suo Statuto, nei seguenti corsi di laurea: Ingegneria Civile, Ingegneria Chimica, Ingegneria Gestionale, Ingegneria Meccanica, Ingegneria Informatica, Ingegneria per l’Ambiente e il territorio.

Per una conoscenza ampia del nuovo corso di laurea in Ingegneria Gestionale il Consiglio di Facoltà delibera di conferire al Cavaliere Silvio Berlusconi la laurea “Honoris Causa” in Ingegneria Gestionale

Nel frattempo lo stesso Consiglio, su proposta del Preside, nella seduta del 16 ottobre 1991, delibera a maggioranza di conferire all’imprenditore, Silvio Berlusconi, la laurea “Honoris Causa” in Ingegneria gestionale, la cui Università della Calabria deteneva in Italia, per questo corso di laurea, un primato assoluto di attivazione, avvenuto, a partire dal primo anno accademico 1972/73, come corso di laurea in Ingegneria delle tecnologie industriali ad indirizzo economico-organizzativo, così come ricordato ad inizio del servizio.

Una decisione che venne presa nell’ambito della programmazione dei festeggiamenti per il ventennale della nascita dell’Ateneo, in riferimento soprattutto alla nomina ed insediamento dei Comitati Ordinatori e del Comitato Tecnico Amministrativo, ad opera del Ministro della Pubblica Istruzione, Riccardo Misasi, che portò all’elezione del primo Rettore, nella persona del prof. Beniamino Andreatta, tra i mesi di aprile e maggio 1971.

Una decisione che guardava anche ad una maggiore visibilità in campo nazionale del corso di laurea in questione, data la figura d’imprenditore di successo, quale Berlusconi era nei vari campi dell’editoria, della pubblicità, della televisione, dell’edilizia, delle assicurazioni, del cinema, per finire alla grande distribuzione, alla ricerca di una sua identità e richiamo per tanti giovani.

Poi c’era un secondo motivo dovuto al fatto che l’UniCal era alle prese per un programma di rilancio in campo nazionale della sua immagine positiva, dopo l’offuscamento creatosi alla fine degli anni settanta ed inizio degli anni ottanta per le accuse che le arrivavano addosso, attraverso i media, di essere un covo di terroristi, criminalizzando ingiustamente la comunità universitaria, incidendo peraltro in negativo sulla realizzazione del suo Centro Residenziale.

La funzione dell’Ufficio Stampa dell’UniCal

Nella decisione di conferimento della laurea “Honoris Causa” all’imprenditore Silvio Berlusconi, giocò un ruolo di stimolo anche l’ufficio stampa dell’Università della Calabria, che guardava con grande attenzione al valore della comunicazione ed informazione istituzionale per farne dell’Ateneo una “casa di vetro”, come la definiva il Rettore Pietro Bucci alla fine degli anni settanta portandolo ad istituire il 1° aprile 1980, per prima in Italia tra gli Atenei statali, l’ufficio stampa per adempiere a quanto prevedeva l’art.10 dello Statuto (DPR 1° dicembre 1971 n° 1329) sul diritto d’informazione agli atti amministrativi dell’Università.

Quello dell’ufficio stampa dell’Università era un lavoro costante e giornaliero di comunicazione ed informazione sui vari eventi ed accadimenti che avvenivano nell’Ateneo in rapporto ai media (giornali, radio, televisioni ed agenzie stampa) ed in Calabria vi erano due emittenti televisive: Telespazio su Catanzaro, che curava l’emittenza di Canale cinque e Rete quattro; mentre su Crotone era operativa Video Calabria che si occupava di Italia uno. Con entrambe si instaurò un rapporto di collaborazione mirato a promuovere eventi e storie dell’UniCal.

Le motivazioni della scelta del Consiglio della Facoltà d’Ingegneria

La delibera del Consiglio della Facoltà di Ingegneria, con preside il prof. Jaques Guenot, stabiliva che la laurea al dott. Silvio Berlusconi veniva conferita per le numerose attività imprenditoriali che spaziavano, come già evidenziato in precedenza, dalla televisione alla pubblicità, dall’edilizia alle assicurazioni, dal cinema alla grande distribuzione; un gruppo collocato al terzo posto tra quelli privati italiani. Con la delibera venivano, altresì, riconosciute grandi capacità organizzative in grado di anticipare le più moderne concezioni organizzative e manageriali. Come anche gli veniva riconosciuta la visione strategica per lo sviluppo dell’emittenza televisiva privata, che andava assumendo anche nel settore formativo ed educativo delle nuove generazioni una forte valenza di progettualità. Qualità che lo ponevano all’attenzione del mondo del lavoro, sia nazionale che internazionale.

Per il preside Guenot il conferimento della laurea ”honoris causa” a Berlusconi era l’occasione per approfondire il rapporto di una rete regionale di ingegneria, il cui progetto era strettamente legato per gli anni duemila alla fase di crescita e di sviluppo della regione. L’obiettivo era quello di favorire l’inserimento dei giovani laureati nel mondo produttivo, garantire un migliore utilizzo delle professionalità disponibili, cogliere maggiormente le opportunità territoriali, contribuire alla soluzione dei gravi problemi culturali, sociali ed economici della Regione.

Una cerimonia sobria e festosa in un clima pure di dissidenza 

Quel 27 novembre 1991, l’Università della Calabria celebrava esattamente il suo ventesimo compleanno e il Rettore, prof. Giuseppe Frega, nell’aprire la cerimonia di conferimento della laurea “Honoris Causa” in Ingegneria gestionale al cavaliere Silvio Berlusconi, ebbe a dire: «I giovani che qui si formano sono il nostro migliore biglietto da visita e stanno già modificando il “paesaggio” culturale. Nell’Università della Calabria non è presente il lamento di un sudismo di accatto, ma la volontà ferma di “battere il pugno” di un Mezzogiorno che non chiede più giustizia storica, ma una moderna visione unificatrice dell’economia e della società italiana.

«L’istituzione dell’Università della Calabri – precisò ancora il rettore Frega – fu frutto di una lungimirante visione unificatrice della cultura italiana e può presentarsi oggi come realtà viva protesa verso nuovi traguardi».

Ancora più nette furono le parole del preside Guenot che disse in apertura del suo intervento: «Con questa manifestazione abbiamo inteso creare collegamenti tra Nord e Sud che sotto alcuni aspetti rappresentano il passaggio, una prima tappa: cercare di rafforzare e stabilire collegamenti forti tra pubblici e privato; cercare di  fare uscire la Calabria e il Mezzogiorno dall’isolamento nel quale si trova confinato».

Fu una giornata intensa e particolare in cui nell’aula “A” del cubo della Facoltà di Ingegneria di fresca costruzione, oggi intitolata alla memoria del magistrato Paolo Borsellino, confluirono in tanti, accademici e studenti, ma soprattutto autorità politiche locali e regionali, dirigenti Fininvest e due stretti consulenti collaboratori del presidente Berlusconi, Gianni Letta e Fedele Confalonieri.

Le relazioni di presentazione dei professori del Monte e Borghesi

A presentare la figura imprenditoriale del neo candidato alla laurea “Honoris Causa” in Ingegneria gestionale e la sua vasta produzione in vari settori lavorativi nel nostro Paese e le motivazioni del conferimento del titolo accademico di onorificenza è stato il prof. Francesco  Del Monte, docente di Economia e Organizzazione Aziendale, non omettendo di spiegare prima i contenuti forativi e le finalità del corso di laurea in questione, attivato pe prima in Italia proprio all’UniCal con l’anno accademico 1972/1973, per come già riportato in precedenza.

«Il corso di laurea in Ingegneria gestionale si prefigge di rispondere – ha sottolineato il prof. Francesco Del Monte, riprendendo un documento concordato con il Politecnico di Milano di fresca costituzione del corso –   alla necessità di formare ingegneri preparati a svolgere funzioni di progettazione e gestione di sistemi complessi e dotati di una visione d’insieme che assicuri la coerenza delle scelte tecnologiche con la strategia aziendale e con il contesto del settore industriale di appartenenza. L’Ingegnere gestionale tende quindi a caratterizzarsi per la capacità di comprendere tutti i differenti elementi che interagiscono nelle decisioni d’impresa in particolare per quelle imprese per le quali la tecnologia rappresenta un fattore critico di competizione.

«In tale quadro di riferimento – ha precisato ancora il prof. Del Monte – la storia personale e professionale del candidato Silvio Berlusconi non è solo la storia di un successo imprenditoriale. E’ ancor prima, la storia di una tendenza ad intuire velocemente le complessità evolutive dei sistemi produttivi: in tal senso, il candidato progetta sistemi complessi nei quali tecnologia e strategia consentono quella visione d’insieme che nel curriculum dell’ingegnere gestionale sono la componente più pura».

Una seconda relazione viene svolta a giustificazione del conferimento del titolo accademico di onorificenza dal prof. Antonio Borghesi, docente di Finanza Aziendale presso la stessa Facoltà di Ingegneria dell’UniCal, che nel suo intervento chiarisce il concetto tra “Economia Manageriale” e “Scienza delle Realizzazioni”. «Il contributo che Silvio Berlusconi ha dato alla Scienza Economica Manageriale, quale archetipo dell’imprenditore innovatore – ha sostenuto il prof. Borghesi – è straordinariamente vasto. Dai comportamenti imprenditoriali di Silvio Berlusconi emerge in termini anticipatori l’idea di un ruolo non semplicemente adattivo dell’impresa, bensì quello di agente modificatore del contesto ambientale».

Concludendo il suo intervento il prof. Borghesi sottolineò: «Resta la consapevolezza che lo studio del “caso Berlusconi” ha fornito e potrà ancora fornire in futuro spunti di grande stimolo ai ricercatori, i quali dall’osservazione dei suoi reali comportamenti potranno trarre rinnovate basi di teorizzazione».

Un pensiero profetico alla luce degli eventi che hanno visto Silvio Berlusconi Presidente del Consiglio e uomo politico italiano 

Una frase che assume oggi, a distanza di 33 anni dal conferimento del titolo accademico onorario in “Ingegneria Gestionale” al presidente Silvio Berlusconi, una sua valenza quasi profetica, alla luce di quanto accaduto nel nostro Paese, a partire dal 1994, da quando, costituendo il partito di “Forza Italia” decise di scendere in campo politico direttamente, aprendo un nuovo capitolo nel sistema politico italiano,  dando credibilità anzitutto, mediante rapporti di alleanze, a quelle figure e soggetti che non appartenevano all’area dell’arco costituzionale, collocati in una posizione di destra come il Movimento Sociale e l’ emergente Lega di Bossi, che aveva all’ordine del giorno e nell’impegno politico la “secessione”, che significava una spaccatura dell’Italia.

Già la delibera del conferimento del titolo accademico onorario al presidente Berlusconi fu adottata dal Consiglio della Facoltà di Ingegneria a maggioranza denotando una spaccatura e di questo se ne parlò molto prima, durante e dopo, sia all’interno dell’Università che fuori, addirittura con interrogazioni parlamentari.

La lezione dottorale del neo ingegnere gestionale Berlusconi 

Di questo il cavaliere, neo ingegnere gestionale dell’UniCal, n’era cosciente tanto che nella “Lection Doctoralis”, tenuta subito dopo la lettura del testo e la consegna della pergamena di laurea, ad opera del Rettore Giuseppe Frega, intrattenendosi in una conversazione con gli studenti presenti in aula, ne sottolineò l’aspetto nel momento in cui sentì il bisogno di estendere i suoi ringraziamenti alle varie autorità accademiche ed al Corpo Accademico. Rivolto a questi disse di sapere della decisione registratasi di voto non unanime assunto sul conferimento del titolo accademico onorario: «Mi dispiace – confessò durante la sua conversazione – che questo fatto abbia potuto creare un minimo di divisione, anche perché normalmente sono convinto uomo di concordia. Di solito, quando arrivo io e c’è gente che litiga, li metto d’accordo. Speriamo che succeda anche stavolta».

Chissà quale sarebbe stata la sua posizione, il suo giudizio e la posizione politica che avrebbe assunto di fronte a quanto sta accadendo in questi momenti nel nostro Paese in materia della legge sull’autonomia amministrativa ed altro ancora, che mettono a rischio la buona governabilità e la democrazia stessa vigente in questo momento. Sarebbe una gran cosa approfondirne la situazione per come si è arrivati a questa situazione ed ecco che la profezia del prof. Antonio Borghesi ci sembra opportuna approfondirla magari con dei lavori di tesi di laurea specifiche nella stessa Università della Calabria. Chiedersi soprattutto se ancora oggi la sua posizione sarebbe stata  ferma nel fare da spalla e sostegno a due componenti politiche di destra che collocano il Paese Italia in un contesto europeo non certamente di serena governabilità quanto di contrapposizione e di equilibri che portano verso l’incognito. Eppure in origine prima di impegnarsi attivamente in politica la sua posizione gravitava attorno al Partito Socialista. Questo è quanto si ricorda ed è giusto verificarne la validità o meno.

Per ritornare all’evento del 27 novembre 1991 prendono corpo e valore le nove domande che  furono  poste dagli studenti al neo laureato in ingegneria gestionale Berlusconi, dalle quali emersero posizioni riguardanti il suo futuro rapporto con l’UniCal, del trattamento della figura dell’ingegnere in Italia rispetto ad altri Paesi europei, del rapporto tra mondo accademico e delle scienze con il mondo della produzione pura, dello stato sociale e del rapporto con il mondo dell’informazione, delle possibilità dei giovani di entrare nel mondo del lavoro come in Italia quanto in Calabria, delle potenzialità sperimentali dell’UniCal nel rapporto con il mondo industriale in modo da favorirne investimenti, della particolare attenzione verso i laureati dell’UniCal in generale ed in particolare dei laureati in ingegneria, della concorrenza imprenditoriale di fronte alle posizioni extracomunitari emergenti.

Per ogni domanda diede una risposta e con due pensieri finali che rimangono validi ancora oggi e stimolanti, sia per l’UniCal che per i suoi giovani studenti e laureati: «Queste opere vanno fatte vedere, vanno portate all’attenzione nazionale in primo piano. Sono stupito e felice. Complimenti. Auguri Calabria”; mentre agli studenti: “Preparatevi bene, non temete di osare e battervi per raggiungere quel che sembra impossibile raggiungere. Provate, riprovate, lavorate anche quando gli altri riposano e vedrete che il successo sarà vostro. Io, da oggi, vi sarò più vicino, sarò più vicino a questa Università del profondo Sud. La materia uomo qui non manca, la vostra intelligenza, la vostra cultura saranno le armi vincenti di questa bellissima terra di Calabria».

I benefici che l’Unical ricevette dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi

Il conferimento della laurea onorifica al Presidente Berlusconi in Ingegneria gestionale fa parte della storia ultra cinquantenaria del corso di laurea in questione, che nel frattempo è cresciuto di molto per come diremo in avanti; mentre è un dato di fatto che l’evento stesso fa parte della storia complessiva ultra cinquantenaria della stessa Università, per il ruolo che ha svolto come Presidente del Consiglio nel 1994, impegnandosi a fare assegnare un contributo di 234 miliardi di lire, con delibera Cipe, che saranno destinati alla realizzazione dei cubi del progetto Gregotti.

Tutto ha avuto inizio con una lettera inviata dal Rettore, prof. Giuseppe Frega, e dal presidente della concessionaria Bonifati S.p.A., Aldo Bonifati, al sottosegretario della Presidenza del Consiglio dei Ministri Gianni Letta, nel mese di giugno 1994, con la quale lo si informava di intervenire sul presidente Berlusconi per fare in modo che all’UniCal, insieme all’Università di Reggio Calabria, venissero assegnati dei consistenti contributi sui fondi strutturali, già individuati dal Cipe con delibera del 28 dicembre 1993,  revocati alle regioni meridionali per mancata utilizzazione nei tempi previsti dalla normativa. Si chiedeva, altresì, un intervento urgente sul Ministro dell’Università, Stefano Podestà, e sul Ministro del Bilancio, Giancarlo Pagliarini, affinché la richiesta avanzata venisse accolta.

Il 3 agosto 1994 il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (Cipe) approvava il programma di edilizia universitaria della Regione Calabria prevedendo per l’Università della Calabria un contributo di 234 miliardi di lire, che saranno destinati alla realizzazione di diversi cubi del progetto Gregotti, utilizzati per le attività didattiche e scientifiche dei dipartimenti afferenti alle Facoltà di Ingegneria e Scienze.

L’Università e il presidente della Concessionaria Bonifati S.p.A. vengono informati della delibera Cipe in data 5 agosto 1994 tramite una missiva del capo della Segreteria del Presidente del Consiglio dei Ministri, dott. Giampiero Massolo.

Sono trascorsi esattamente trent’anni da quella delibera Cipe e dalla comunicazione del Presidente Berlusconi e bisogna ricordare all’attuale dirigenza, come all’intera comunità universitaria, composta da studenti, docenti e non docenti, che quel contributo rimane il più alto ricevuto dall’Università della Calabria da parte degli organismi statali del nostro paese ed il penultimo erogato in ordine di tempo della sua storia ultra cinquantenaria.

Grazie a quel finanziamento l’UniCal ha potuto realizzare e mostrare le opere che oggi si vedono e si utilizzano tranne che il complesso edilizio finale di piazzale Vermicelli che si è potuto realizzare grazie ad un finanziamento finale di circa cento miliardi di lire, gestito dalla concessionaria Bonifati S.p.A.

Dall’evento Berlusconi all’attualità dei nostri giorni che hanno portato all’affermazione del corso di laurea in Ingegneria Gestionale

Dall’evento Berlusconi sono trascorsi 33 anni ed il corso di laurea in “Ingegneria gestionale” a oggi è cresciuto molto apportando dei cambiamenti nell’approccio e nella organizzazione formativa, dalla laurea triennale a quella specialistica.

Della vecchia generazione di docenti che hanno portato il loro contributo all’affermazione di tale corso di laurea, oltre al prof Francesco Del Monte e al prof. Antonio Borghesi, sento con stima ed affetto il dovere di ricordare pure il prof. Manlio Gaudioso ed il prof. Lucio Grandinetti, tra l’altro Pro Rettore dell’UniCal nel periodo di rettorato del prof. Giovanni Latorre, e a livello femminile un ricordo per la prof.ssa Antonella Reitano. Si ricordano nel periodo storico iniziale pure il prof. Piero Migliarese e Antonio Volpentesta.

Nel frattempo è maturata una nuova generazione di docenti in tale corso di laurea, il cui ricordo è flebile dal momento che ho lasciato la presenza attiva nell’Unical da ben quindici anni e comunque sono da ricordare per i miei tempi: il prof. Luigino Filice, che si è occupato pure della dirigenza del Centro Residenziale, quale delegato del Rettore Gino Crisci; il prof. Roberto Musmanno,  che tra l’altro, fuori dall’UniCal, si è occupato di infrastrutture, in qualità di assessore regionale con il Presidente della Giunta Mario Oliverio, per finire con il prof. Saverino Verteramo, che insegna Strategia e Organizzazione.         

Da quando è nato tale corso di laurea si presume che oltre 1500 studenti hanno conseguito la laurea quinquennale o magistrale in ingegneria gestionale, con l’aggiunta a questi degli innumerevoli studenti che negli ultimi venti anni hanno conseguito il titolo della laurea breve triennale.

Al momento ci sono circa 900 studenti iscritti tra laurea triennale e magistrale all’Università della Calabria. I corsi sono tenuti da 20 docenti afferenti principalmente al Dipartimento DIMEG (Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica e Gestionale) diretto dalla prof.ssa Francesca Guerriero.

Il corso di laurea è molto dinamico e propone ai suoi studenti numerose attività da svolgere anche all’estero, con esperienze di tesi presso aziende e visite aziendali. Il tasso di occupazione è altissimo e spesso il Dipartimento riceve delle visite da parte di aziende che selezionano i ragazzi attraverso attività di formazione come il Percorso di Eccellenza. La coordinatrice del corso di laurea è la prof.ssa Giusy Ambrogio, che insegna Tecnologie e sistemi di lavorazione.

Un corso di laurea che ha maturato due Associazioni per studenti e laureati

Nel 2018 è nata  l’Associazione “Alumni” ed è composta da ex studenti laureati in ingegneria gestionale e nell’arco di questi ultimi cinque anni ha promosso diverse  iniziative per la formazione e il networking. Il presidente attualmente è il dott. Ing. Antonio Cannistrà, importante dirigente di una multinazionale finlandese e per questo vive in Finlandia.

Per quanto riguarda IGeA  la sua nascita risale al mese di  Febbraio del 2012, quindi ad oggi conta più di 12 anni di attività. L’acronimo sta appunto per “Ingegneri Gestionali Associati”, il che raffigura il principale target studentesco a cui ci si avvicina.  “IGeA ha come Mission  – ci dice il suo presidente Emanuele Macri – quella di promuovere la crescita professionale e umana degli associati, instaurando contatti tra studenti, aziende e istituzioni, un processo che avviene organizzando e partecipando ad un ampio e diversificato ventaglio di attività ed eventi in Calabria e in Europa”.

“Infatti, IGeA fa parte del prestigioso circuito Europeo di studenti di Ingegneria Gestionale ed Industrial, l’ESTIEM (European STudents of Industrial Engineering and Management), con il nome di “Local Group Calabria” all’interno del quale ci sono circa 78 associazioni simili alla nostra sparse nelle principali città europee. In Italia siamo solo noi e una piccola rappresentanza del Politecnico di Milano. Un Network che ci permette di sentire profumo di Europa qui dall’Università della Calabria, con la possibilità di organizzare eventi Internazionali qui nel Campus con studenti provenienti da tutta Europa”.

“Negli anni infatti – ci dice sempre Emanuele Macrì – ne abbiamo organizzati più di 30, ogni volta con persone e nazionalità diverse. L’ESTIEM rappresenta anche una possibilità per i nostri soci di viaggiare verso gli altri Local Group, scoprendo nuove culture ed esportando le nostre radici anche al di fuori del Campus. Inoltre, sono molti gli eventi locali che proponiamo, come per esempio la RUNical, ovvero la Maratona Universitaria che vede ogni anno correre sul Ponte Bucci più di 300 persone, tra studenti, docenti e Personale UniCal, con l’obiettivo di condividere un momento di grande condivisione sociale e portare entusiasmo nel Campus”.

“Mi piace spesso definire IGeA – ci dice ancora il suo presidente Emanuele Macrì –  come una sorta di “Simulazione Aziendale”, ovvero un contesto in cui studenti e studentesse di questo Corso di Laurea hanno la possibilità di apprendere, seppur in un contesto accademico e studentesco, le dinamiche reali di un’azienda, applicando metodi e tecniche del mondo lavorativo all’organizzazione delle nostre attività. IGeA è infatti divisa in “Comitati” o “Gruppi di Lavoro”, ognuno specializzato in una specifica funzione che contribuisce al processo di organizzazione dei nostri progetti, dando appunto uno stampo fortemente aziendale alla nostra struttura organizzativa”.

A proposito dell’esperienza internazionale degli studenti nel frattempo, proprio in questi giorni, su iniziativa del Dipartimento DIMEG (Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica e Gestionale), con direttrice la prof.ssa Francesca Guerriero, in collaborazione del Servizio Internazionale della stessa Università, diretto dal dott. Giampiero Barbuto, sta per concludersi  presso il College di Staten Island di  New York, la seconda edizione della Scuola estiva “Summer Abroad 2024”, che vede la partecipazione di 14 studenti della Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale, accompagnati dalla prof.ssa Giusy Ambrogio, coordinatrice del corso di laurea in ingegneria gestionale, insieme al suo vice, prof. Saverino Verteramo. Una  scuola con una durata di sei settimane, le prime tre all’UniCal e le ultime tre a New York.

Un lavoro e dei risultati che avrebbero certamente incantato ed entusiasmato il neo laureato “honoris causa” in ingegneria gestionale Silvio Berlusconi, per come quel giorno si espresse durante la sua lezione dottorale nel rispondere alle domande come alle sollecitazioni che gli arrivavano dagli studenti.

Cover story: Giovanna Russo garante detenuti Comune di Reggio

«Se dovessi usare il testo di una canzone per raccontarmi, oggi sarebbe: la geografia del mio cammino, di Laura Pausini. Sono una persona molto semplice, sicuramente. Oggi sono una donna consapevole, forte, determinata, serena, con un suo equilibrio e con le complessità tipiche del mondo femminile. Sono una donna a cui la vita non ha regalato nulla anzi, ho sempre dovuto combattere il doppio per raggiungere risultati che altri raggiungevano più facilmente. Ho provato cosa sia la cattiveria delle donne contro le donne. So che la strada è ancora tutta in salita, ma non temo il percorso, né le arrampicate. Sicuramente sono consapevole di essere una persona che non calpesta gli altri per crescere, perché è capitato che lo facessero con me. Quando qualcosa ti fa soffrire hai due possibilità nella vita: comportarti come loro, oppure rimanere te stessa e permettere al dolore di migliorarti. Nei difetti umani che abitano anche il mio carattere scelgo la seconda strada. C’è una domanda che cerco sempre di pormi quando entro in relazione con le persone: e se questo fosse fatto a te? Ecco questa domanda ci eviterebbe la sofferenza che spesso anche involontariamente infliggiamo gli altri. Ci eviterebbe quel malessere diffuso che oggi domina la nostra società, quel malessere che fonda la sua origine nell’egoismo del raggiungere necessariamente un obiettivo» (Giovanna Russo).

di PINO NANO – Da quattro anni esatti, 4 agosto del 2020 il giorno della sua nomina, l’Avvocato Giovanna Francesca Russo è il Garante dei diritti delle persone private della Libertà Personale del Comune di Reggio Calabria. Un’autorità indipendente nominata dal sindaco per le tutele e i problemi legati alle garanzie dei diritti nelle carceri e dei detenuti che le occupano. Un vero e proprio rappresentante istituzionale all’interno del grande pianeta penitenziario di questa città così bella che rimane però, purtroppo ancora oggi, al centro dei grandi riflettori della cronaca nazionale.

È istintivo chiedersi “Ma cosa fa in realtà il Garante dei diritti dei detenuti? È solo un lavoro di inutile rappresentanza istituzionale o è qualcosa di diverso e di più importante? E guardando le tante foto di questa giurista reggina che ci sono in rete diventa altrettanto naturale domandarsi: ma non sarà troppo per una donna, in una terra come la Calabria, un ruolo così complesso e delicato come quello che si vive all’interno di un carcere?”.

Decido allora di cercarla, e ne ricevo in cambio il regalo di un incontro tra i più affascinanti di questi mesi.

«Forse – mi dice – aveva proprio ragione la mia maestra della scuola materna, Clara: smettila di giustificare chi sei! Oggi non giustifico più la mia naturale tendenza di mettere la squadra, le amiche, le persone che valgono al centro della mia vita. Non credo di dover render conto se sto bene con me stessa, se mi fa piacere investire, aiutare e supportare le giovani generazioni e le donne in particolare, se vivo nella testarda convinzione che certi tetti di cristallo vadano forzati, scoperchiati, nella certezza che il meglio debba ancora venire. Sono amica e sorella delle donne che sanno tenersi senza temersi. Ho sempre creduto nella forza delle donne che sanno fare squadra. Ho sempre creduto fermamente che le donne, il giorno che decideranno di unirsi con lealtà fiducia, sincerità, coerenza, nel dialogo e lontane dal chiacchiericcio, cambieranno davvero il mondo.

L’altra sera, proprio al compleanno di una cara amica, Lucia, ho approfondito la conoscenza con una collega. Sorridevamo all’idea che molto spesso, dalle nostre parti le donne siano legate dal pregiudizio di chi sia l’altra. Poi conoscendoci scopriamo e allarghiamo questa cerchia di “sorellanza”. Il futuro che ci attende è donna, ma al contempo mi sia consentito dirlo, leggendo la complessità dei tempi, reputo sia fondamentale che le donne non sminuiscano mai il valore della complementarietà degli uomini. Non è una sfida. Non siamo rivali, ma è la bellezza della diversità che darà alle nuove generazioni un futuro migliore, più autentico, di ritorno ai valori che contano».

A parlarmi tantissimo di lei, e tantissimo bene, era stata nelle settimane scorse Maria Joel Conocchiella, la “pasionaria di Libera in Calabria”, la ragazza a cui don Luigi Ciotti ha affidato la cura di uno dei territori più difficili della regione, la provincia di Vibo Valentia. Già questo l’avevo trovato molto interessante e intrigante, e mi era bastato per cercarla. Solo l’idea che una donna di 39 anni avesse scelto di offrire la sua professionalità al servizio dei diritti delle persone detenute mi poneva mille interrogativi e mille curiosità professionali.

Ecco allora che alla fine riesco ad avere le notizie che mi servono.

Scopro così che “Il Garante dei diritti detenuti”, opera prima di tutto per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale mediante la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene delle persone comunque private della libertà personale. Non solo questo, ma il Garante “svolge le sue funzioni anche attraverso intese ed accordi con le Amministrazioni interessate volte a consentire una migliore conoscenza delle condizioni delle persone private della libertà personale, mediante visite ai luoghi ove esse stesse si trovino, nonché con associazioni ed organismi operanti per la tutela dei diritti della persona, stipulando a tal fine anche convenzioni specifiche”.

Non è certamente un lavoro di tutti i giorni, e non è un ruolo per nulla semplice da svolgere. Anzi, immagino sia un compito di una delicatezza estrema, ma anche pieno di rischi personali per chi lo esercita, se non altro per le criticità negative che governano il pianeta carcere.

Provo a scavare di più nella decisione del sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà e scopro che per statuto comunale “Il Garante promuove, inoltre, l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone comunque private della libertà personale ovvero limitate nella libertà di movimento domiciliare, residenti o dimoranti nel territorio del comune di Reggio Calabria. E tutto questo con particolare riferimento ai diritti fondamentali, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport, per quanto nelle attribuzioni e nelle competenze del Comune medesimo, tenendo altresì conto della loro condizione di restrizione”.

– Avvocato Russo, ma è un incarico adatto ad una donna questo che svolge da quattro anni a questa parte? Non sarebbe stato più semplice per lei fare l’avvocato penalista o civilista nel suo studio privato? Posso chiederle come è arrivata a questa scelta? Una scelta ricercata, desiderata, obbligata, imposta?

«È certamente un incarico delicatissimo. Non è stata una scelta ricercata, desiderata, tanto meno obbligata o imposta. Noi avvocati quando giuriamo pronunciamo la seguente formula: “Consapevole della dignità della professione forense e della sua funzione sociale, mi impegno ad osservare con lealtà, onore e diligenza i doveri della professione di avvocato per i fini della giustizia e a tutela dell’assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento”. Si può essere avvocati in varie forme purché non si tradisca mai l’alta funzione per la quale abbiamo prestato giuramento. Promuovere e difendere la dignità della persona umana, e i suoi diritti inalienabili, vuol dire farsi carico e farsi voce di tutti i poveri, gli esclusi, gli emarginati, gli abbandonati – i veri e propri “ultimi” delle periferie recluse, che però sono i destinatari privilegiati dell’annuncio evangelico. Difficile o adatto per una donna? Una donna è adatta tanto quanto un uomo. Non è una questione di genere, quanto la capacità umana di saper andare oltre, superare le proprie chiusure egoiche e l’indifferenza».

Ricapitoliamo. 39 anni, Giovanna Francesca Russo è oggi Garante per i diritti delle Persone Private della Libertà Personale del Comune di Reggio Calabria, ma è anche Presidente della Federazione Italiana Diritti Umani – Comitato città Metropolitana di Reggio Calabria, ed è Mediatore Penale e Penale Minorile, Mediatore Scolastico con perfezionamento in gestione delle devianze e delle situazioni a rischio, nonché nella gestione dei conflitti e procedure di de-escalation. Ma è anche Vicepresidente Nazionale dell’Associazione Italiana dei Mediatori Penali e Minorili. Nell’alveo di una collaborazione istituzionale finalizzata alla massima diffusione della tutela dei diritti delle persone private della libertà personale ha svolto attività di concerto con il Comando Provinciale dell’Arma dei Carabinieri di Reggio Calabria nell’ambito della quale sono stati organizzati seminari formativi che la stessa ha rivolto ai militari dipendenti. Poco tempo fa ha anche ricevuto un riconoscimento per la qualità del suo operato dalla Vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno. Un curriculum davvero invidiabile sotto questo profilo.

– Avvocato, le rifaccio la domanda: ma che ci fa una come lei con tutta questa sua esperienza professionale nel chiuso di un carcere come quello di Reggio Calabria, dove credo che il profumo della criminalità organizzata non sia solo una favola per i rotocalchi d’estate?

«Ci sto per combattere qualsiasi forma di sopraffazione mafiosa che soffoca la funzione del trattamento, nega il diritto al reinserimento, che viola il dettato costituzionale, che tradisce la funzione della pena e vanifica i diritti umani. L’incontro, il primo di una serie “Giustizia dentro e fuori le mura” partendo dalla lettura de “il Grifone”, di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, dove hanno dialogato con la città il Procuratore Capo di Napoli Dott. Nicola Gratteri, il Procuratore Capo di Reggio Calabria Dott. Giovanni Bombardieri, il Procuratore Aggiunto di Catania Sebastiano Ardita voleva e vuole essere l’avvio di un percorso per parlare con la collettività sul tema e di come sia necessario oggi più che mai investire seriamente in cultura della legalità tra i giovani e con i giovani dentro e fuori le mura. La criminalità organizzata è un cancro e raccontare come stanno le cose è il primo coraggioso passo per non subirle. Lo dobbiamo ai nostri giovani».

Dietro questo piglio caratteriale tutto meravigliosamente femminile c’è in realtà una vita di studio vero, di analisi, di ricerca, di approfondimento, di viaggi e di esperienze le più variegate nel mondo del volontariato e della chiesa moderna che oggi fanno di questa donna, un esempio di costruzione per una giustizia giusta.

– Avvocato, ma non teme il rischio che un giorno uno dei “suoi” detenuti le chieda di portare fuori dal carcere una lettera o un messaggio diretto magari alla famiglia? Non teme che una sua risposta negativa potrebbe comportare un rischio per lei e per la sua famiglia?

«Alla domanda provocatoria che mi fa le rispondo su come ho reagito, e su come si è lavorato in questi anni. Un Garante tutela diritti e non singole richieste personali o, peggio, posizioni giuridiche. Per la difesa ci sono gli avvocati. La garanzia dei diritti è una questione molto seria. Il rischio delle “richieste” improprie è un fatto ovvio per chi conosce il carcere e la pedagogia della devianza. L’importante è come si risponde. Quando imposti la tua comunicazione sulla certezza del diritto, sulla osservanza delle regole per tutti nessuno escluso, sulla trasparenza operativa, il messaggio dentro arriva forte e chiaro. Se temo in rischi? I rischi sono sempre dietro l’angolo. L’importante è come reagiamo noi, senza mai flettere di un millimetro. Reggio è stato il primo Ufficio del Garante dei diritti dei delle persone private della libertà personale, che ha siglato in Calabria con la Procura di Reggio Calabria un protocollo anche a tutela dei diritti e delle garanzie delle persone private della libertà personale. È di pochi giorni fa il rinnovo del Protocollo con il quale si è registrato l’allargamento all’amministrazione penitenziaria reggina, a firma del Direttore reggente, la Dottoressa Roberta Velletri, e avvenuta con tanto di autorizzazione da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria».

Dentro questa risposta c’è per intero il carattere e la fermezza di questa donna reggina, che – -pensate – è ricercatrice universitaria alla Mediterranea di Reggio Calabria presso il Dipartimento Di.Gi.Es. con un progetto dottorale in corso, in co-tutela con la Francia ICT di Tolosa, nel quale sta studiando sul tema della funzione della pena incardinato nella cattedra di Filosofia del Diritto di cui è titolare l’Ordinario Prof. Daniele Cananzi. Così come è componente del Consiglio Direttivo del Centro Europeo di Studi Penitenziari, collabora da diversi anni con l’ISESP “Istituto Superiore Europeo di Studi Politici” CDE, Centro di documentazione Europea accreditato alla Commissione Europea nell’ambito di ricerca e studi politici e sulla cultura politica. Sul suo curriculum postato dal Comune di Reggio Calabria si precisa che siamo in presenza di una Giurista esperta in diritti umani e sviluppo umano integrale e della persona, che ha collaborato con l’Osservatorio sul Federalismo fiscale e collabora con il Laboratorio di Filosofia Politica e Giuridica presso la Cattedra di Filosofia del Diritto Estetica del diritto ed ermeneutica giuridica del Di.Gi.Es.

– Avvocato, ma non sarebbe stato più facile per lei, e forse anche più comodo dedicarsi all’insegnamento universitario che comunque coltiva mi pare con grande entusiasmo?

«Il progetto di ricerca che sto conducendo da anni è frutto di analisi scientifica e metodologia guidate dal mio maestro che dirige lo studio sul quale mi sto specializzando: un ripensamento della funzione della pena nell’ambito della filosofia del Diritto a partire da Foucault per approdare e valutare se possibile lavorare sulla giustizia degli affetti di cui tanto ha scritto uno dei massimi teologi Italiani: Monsignor Pierangelo Sequeri. Sa, nella cattedra della quale faccio parte, la serietà della ricerca universitaria è la più alta forma di compartecipazione responsabile che l’accademia deve donare alla società civile, ai giovani in particolare. È un servizio reso al diritto e alla costruzione di una giustizia giusta. L’entusiasmo per la ricerca, di cui Lei parla, è massimo anche perché sono consapevole che l’opportunità offerta dalla Mediterranea non può essere sprecata. Fare ricerca scientifica da un osservatorio: il Garante, che legge la crisi del sistema penitenziario e apre in chiave giuridico-filosofica a nuove prospettive. Per risponderle, non è comodo, ma necessario bilanciare la passione per la ricerca al rigore del ruolo. Il percorso universitario di studio, nel suo progetto di ricerca originale, non nasce slegato dalla funzione».

Giovanna Russo nasce a Reggio Calabria il 16 marzo 1985, dove oggi vive e lavora. Dopo la maturità scientifica conseguita presso il Liceo Scientifico “Alessandro Volta” di Reggio Calabria, consegue la Laurea di Dottore in Giurisprudenza presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Frequenta per anni la scuola politica monsignor Lanza e partecipa alla formazione della scuola politica del CVX, con i gesuiti, di Calascio nel 2011. Si specializza poi presso la Scuola di Specializzazione per le professioni legali, e subito dopo consegue il Master Universitario di Secondo Livello in «Management Politico. Esperti in Cultura Politica e Studi Europei e del Mediterraneo», presso il Dipartimento DiGieS dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria con lode e pubblicazione della tesi. Percorso che le ha consentito di acquisire competenze tecniche e manageriali necessarie e fondamentali per lo svolgimento delle professioni interne al sistema sociopolitico e all’amministrazione pubblica a tutti i livelli, Nazionale ed Europeo, nonché di affinare funzioni dirigenziali già ricoperte presso enti privati. Consegue poi un secondo Master di II livello per le Dirigenze superiori “Il dirigente nel settore scolastico. Competenze gestionali ed organizzative”. Quanto basta per immaginare nel suo futuro anche un ruolo apicale ai vertici del sistema giudiziario italiano.

– Avvocato, mi dica la verità: so che non ama rilasciare delle interviste…

«Sì, effettivamente ho posto delle resistenze, non sono abituata a parlare di me. Riconosco che è la prima volta che rispondo a qualche domanda personale».

– Cos’è, ritrosia personale o è lei che si è data una regola di comportamento per via del lavoro delicatissimo che fa?

«Sono una donna, una professionista consapevole che la riservatezza nel mio settore sia fondamentale. Lavoro tanto, studio per passione, parlo il giusto e amo tenere riservatissima la mia vita tanto per una questione di stile quanto di tutela delle persone che amo».

– Le prometto che eviterò di entrare nella sua vita privata…

«Mi chieda pure, oggi faccio un’eccezione, perché c’è il tempo del tacere e si svela quello del parlare. Sempre il giusto e per quanto mi è possibile, rispondo con un sorriso».

– Allora mi spieghi perché lo fa?

«Lo faccio perché, se tieni tutto dentro di te rischi che le risonanze verso l’esterno vengano vanificate da assenza di narrativa. La narrativa della vita, quella a cui il mondo moderno ha smesso di credere per mancanza di coraggio. Lo faccio per dire come stanno le cose, senza flettere di un millimetro e con la schiena dritta. Oggi più che mai bisogna avere la capacità, la moralità, e l’onestà di guardarsi dentro e condividere con altri il proprio modo di operare nel mondo».

– Come arriva ad occuparsi di carcere e di detenuti?

«Arrivo ad occuparmi di carcere e detenuti mentre facevo altro nella vita, ma un fil rouge già teneva tutto insieme. Venivo dall’Avvocatura regionale, ero già avvocato, avevo vissuto un periodo professionale e di formazione in uno degli studi più seri della città accanto a colleghi di altissimo profilo con i quali sono ancora oggi in ottimi rapporti e contemporaneamente mi occupavo di procedure giuridiche e progetti europei di tutela e reinserimento dei soggetti deboli. Aggiungo che il destino forse era già a lavoro per me».

– Cosa intende dire?

«Sin da ragazzina ho vissuto l’associazionismo e gli ambienti cattolici nei quali forte è sempre stata l’attenzione verso i soggetti a cui deve essere data una seconda chance. Il giorno della domanda: mi telefona un’amica e mi dice: “hai visto che al Comune di Reggio Calabria hanno pubblicato il bando per Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, se non lo fai tu, chi deve farlo?”. Le rispondo: “credo sia molto impegnativo perché il sistema è complicato!”. Quattro anni fa non ero la donna che sono oggi.  Mi blocca e aggiunge: ma ti rendi conto che le cose devono cambiare? Serve certezza delle regole e sguardi umani. Presi quella telefonata come un segno. Sa, prego molto sulle scelte che sono chiamata a compiere e feci discernimento prima di inviare quella pec.  Il 4 agosto 2020 era destino che diventassi la Garante. Una scelta coraggiosa quella del Comune di Reggio: la prima donna in Calabria ad essere nominata Garante in una delle città più difficili e complicate della regione se non d’Italia assieme ad altre realtà del Sud».

– La sua prima esperienza in carcere? “Da avvocato”. Ha qualche ricordo non propriamente felice?

«Si, il primo suicidio in carcere, lo ricordo ancora oggi, era piena estate. Alcune cose te le porti per sempre dentro di te: la chiamata istituzionale con la quale venivo avvisata, lo sgomento tanto delle persone detenute quanto degli uomini dello Stato dinnanzi alla sconfitta della vita e del sopravvento della morte. Un suicidio è sempre una sconfitta, uno strappo per tutti. Il carcere solo chi lo conosce veramente può capirlo, e potrà riordinarlo, sistemarlo».

– Se tornasse indietro rifarebbe questa strada?

«Assolutamente sì, c’è un mondo sul quale lavorare ancora moltissimo per mettere ordine».

– Come vive questa sua condizione istituzionale una volta rientrata a casa?

«Ho imparato a gestire le emozioni, addestrandomi al discernimento quotidiano. Ho metabolizzato quanto la passione sia nulla senza la disciplina e il controllo. In questo mi hanno particolarmente aiutata gli esercizi spirituali ignaziani i primi nel 2011. Ricordo con affetto l’importante periodo estivo vissuto a Calascio accanto a Padre Vincenzo Sibilio, un gesuita tutto d’un pezzo, faccio memoria delle confessioni della sera e soprattutto delle sue fortissime parole che ancora tuonano tra mente e cuore: Amare è servire, Servire è Amare».

– Non deve essere facile tornare la sera a casa dopo un’intera giornata in carcere?

«Quando rientro a casa e chiudo il portone cerco di non portare dentro la sofferenza di quei luoghi. È una sofferenza di tutti, servirebbero pagine per narrarla, servirebbe partire da una politica descrittiva degli sguardi, ma di tutti nessuno escluso. Mi sento responsabile per la tutela dei diritti dei detenuti, ma contemporaneamente sento e scelgo di voler esternare in opere e senza omissioni vicinanza istituzionale al personale di polizia penitenziaria e all’amministrazione tutta perché sono consapevole, conoscendo il mondo carcere, che non si tratta di posizioni contrapposte, ma di ruoli diversi nei quali ciascuno concorre alla garanzia dei diritti».

– Posso scrivere che il suo è un ruolo di immensa mediazione?

«Più che di mediazione parlerei di equilibrio. Un Garante deve leggere con equilibrio e senza contrapposizioni sterili le realtà carcerarie. Siamo in un momento storico difficilissimo, e un Garante attento sa bene che, se la Polizia Penitenziaria soffre e sta male, questa sofferenza inevitabilmente si ripercuote sulla popolazione detenuta contraendone i diritti. Dicevo lascio fuori casa le emozioni, ma porto dentro le mozioni e il lavoro, quello sì. L’Ufficio del Garante è impegnativo, faticoso, di grandi responsabilità, e delicatissimo per le ragioni che ben si possono comprendere. La vita però, so che è fatta di scelte, e io ho scelto da che parte stare: quella di tutelare i diritti di tutti combattendo la criminalità dal di dentro. Mi spiego: Sono ben consapevole che il disordine di questi anni ha determinato caos e che il caos genera spazi e maglie in cui la sopraffazione mafiosa si annida e invade la vita di quelle persone recluse che vorrebbero ritrovare la via della libertà scontando la propria pena secondo i principi costituzionali. Dobbiamo lavorare uniti più che mai».

– La sua famiglia ha condiviso con lei questa scelta?

«La mia famiglia mi ha sempre accompagnata in ogni scelta della vita personale e professionale. Il loro amore, il loro senso del dovere e del rispetto, l’impegno per e con gli altri sono i valori con i quali sono cresciuta e che accompagnano da sempre i miei passi. Sono sicura che non sempre siano sereni, ma scelgono di accompagnarmi con grande attenzione, amore e comprensione anche quando la preoccupazione, mai palesata, soprattutto di mia madre prende il sopravvento. Ricordo ancora il giorno della nomina, quando rientrata a casa mio padre affrontò l’argomento con la solita serenità delle poche parole che usa trasmetterci, mia madre mi pose le domande che tutte le mamme preoccupate rivolgono ai figli».

– Ma lei davvero crede che sua madre non si renda conto della difficoltà del suo lavoro e dei rischi connessi?

«Io sono convinta che per amore, anche quando non condivide soprattutto i ritmi, finga bene per supportarmi e garantirmi libertà nelle scelte. Il cuore di una madre sa! Oggi credo che in parte sia più tranquilla, è consapevole che non sono sola. Oltre all’affetto della mia famiglia di origine, ho una squadra, una famiglia allargata che è una impenetrabile muraglia di rapporti solidi fatta di donne e uomini che lavorano con lealtà per la garanzia della legge e la tutela dei diritti. Quando scegli di tutelare diritti delicatissimi, in ambienti come il carcere fai una scelta di vita ne accetti i pro ed in contro».

– Avrebbe potuto diventare un avvocato di successo, non crede? E invece trascorre molte giornate in carcere.

«Il successo è una conseguenza, non un obiettivo. Dopo averne viste tante, dopo aver ricevuto colpi bassi e non poche subdole prevaricazioni mai a volto scoperto, ma sempre dietro le spalle, pensa che il successo mi riguardi? Io tengo particolarmente al lavoro della mia squadra. Aggiungo, una persona importante un giorno mi disse: Il tuo successo è che tu non fai mai finta di niente. Il far finta di niente sono consapevole che uccida la società. Io sono quello che il Signore ha voluto per me. C’è un canto ecclesiastico al quale sono legata: come Tu mi vuoi».

– È una risposta evangelica mi pare?

“Si, lo è. La fede è uno dei miei tre pilastri. Ho avuto la fortuna nella vita di incontrare guide che mi hanno educata al senso evangelico della gestione delle responsabilità. Quando ti viene affidato un ruolo, sai che il successo non solo è una conseguenza della costanza, ma deve essere con e tra le persone che sono al tuo fianco e che devi valorizzare. Da soli non si va da nessuna parte. Sono vissuta e cresciuta a Salice, periferia a nord della città, a pane e parrocchia. Trascorrevo interi pomeriggi con gli amici del catechismo e i nostri ambienti erano gli spazi parrocchiali. Quell’ambiente è stato determinante per la mia formazione. Sono diventata catechista a soli tredici anni, ricordo ancora quando Don Giuseppe Abramo ci accompagnò dall’allora Arcivescovo Vittorio Mondello il quale esordì: ma hanno bisogno del catechismo o faranno catechismo? Fu un’avventura umana e spirituale che durò ben dieci anni, la più formativa della mia vita, quella che mi aiuta ancora all’equilibrio e alla riflessione. Don Abramo fu il mio primo padre spirituale, sono certa che accompagni ancora oggi i miei passi. Le confesso che andando al cimitero per commemorare i miei nonni un fiore per lui c’è sempre».

– E il suo obiettivo più ambizioso?

«Investire per la costruzione di un reale welfare penitenziario che si fondi su un pensiero primo: ripartire da quella che chiamo la realizzazione di una casa di vetro. Creare così sane e solide relazioni tra persone che concorrono quotidianamente alla realizzazione del bene, della giustizia giusta nel mondo penitenziario. Oggi siamo al collasso. Non a caso giorni fa alla presenza dei Procuratori Gratteri, Bombardieri e Ardita portai l’esempio delle aquile e dei corvi».

– Se posso dirle quello che penso è che lei è una donna di grande carattere…

«La ringrazio per il riconoscimento, sicuramente è anche un pregio che riconosco a molte donne. Ma come tale aggiungo che ogni pro, ha anche i suoi contro. Nella società odierna facciamo fatica, viene spesso additato come difetto soprattutto quando si vuole che le cose non cambino. Io, invece, credo che il futuro sia donna, non sono una femminista, precisiamolo. Sono una donna di carattere che crede nella bellezza della complementarietà dei ruoli uomo-donna».

– Qual è il rischio più reale per chi vive il carcere come lei dall’esterno ma lo vive poi nei fatti anche all’interno?

«Quando conosci il mondo carcere sai che per garantire realmente diritti devi essere disposta a scontrarti contro poteri forti che sul carcere hanno interessi. Una volta un servitore dello Stato mi disse: quando ti occupi di poveri, detenuti, immigrati devi essere disposta agli attacchi dei poteri che su queste persone speculano per interessi personali. La storia ne è testimone. La sovraesposizione la metti in conto, ma scegli comunque da che parte stare: “Ci sono loro, ma ci siamo anche noi”».

– Non capisco, mi aiuti a capire per favore….

«Oggi il mondo carcere è un problema più ampio di quello che percepiamo, e soprattutto la narrativa a volte è troppo feroce, altre arriva in maniera falsata e a risentirne è la società tutta. Il sistema penitenziario esige tanto interventi in urgenza, quanto azioni di programmazione nel medio lungo periodo. Penso al sovraffollamento, ai suicidi, alle strutture, alle criticità dei soggetti psichiatrici e non solo, al tema del trattamento, al reinserimento, al lavoro, ma non trascuro assolutamente i numeri della polizia penitenziaria, le specificità dei ruoli, al necessario supporto che meritano, alla formazione da ripensare in ragione di una pedagogia criminale sempre più mutata».

– Cosa le hanno insegnato i tanti colloqui in carcere con i detenuti?

«Che il settore penitenziario va ripensato. Che dobbiamo essere tanto rigorosi quanto umani. Garantire il trattamento nell’inderogabile osservanza delle regole. Più ambiziosi fuori nel promuovere una giustizia giusta, e meno individualisti al fine di realizzarla concretamente. Lavorare sodo sulla prevenzione, sulla cultura della legalità, sulla possibilità da dare ai giovani di scegliere da che parte stare. Investire sulle politiche del lavoro e rendere lo Stato e la legge più appetibile del potere mafioso. Dobbiamo investire con credibilità nei confronti delle giovani generazioni. Serve però un’assunzione di coscienza di gente perbene, che riesca a tenere fuori gli ambienti grigi. Sarà difficile, ma non impossibile».

– Tantissima roba, mi pare…

«Servirà lavorare con grande abnegazione, con spirito di squadra, con la competenza di chi il carcere lo conosce davvero e soprattutto in sinergia, con trasparenza e lealtà. Sintetizzo. Sono sempre più convinta che la fermezza delle regole e il dialogo responsabile con la popolazione detenuta sia lo strumento efficace, in questo momento più che mai per fermare o quantomeno arginare le importanti criticità che si vivono all’interno. Il detenuto è persona. Il confronto che tendenzialmente per chi conosce il carcere sa che può palesarsi strumentale nelle richieste deve essere gestito nella fermezza dei ruoli, e nell’inderogabile umanità costituzionale. Ribadisco, dal mio ruolo e con il grande rispetto che nutro per l’Amministrazione penitenziaria tutta, in questo preciso momento storico, il dialogo e la programmazione interistituzionale ciascuno dal proprio ruolo serviranno a garantire la sicurezza, l’ordine, i diritti, la speranza, la legalità e il necessario contrasto alla criminalità e alle mafie che ancora oggi da dentro comandano».

– Si porta dietro un ricordo forte di questa sua esperienza?

«Mi porto dentro il dolore dell’umanità reclusa. Gli occhi di chi non è stato fortunato nel nascere in una famiglia sana. La frattura di chi vorrebbe uscire dalla rete della criminalità ma per paura non ci riesce, il rischio di chi esce peggio di come è entrato. Mi porto dentro gli attacchi ricevuti ogni volta che si è lavorato a tutela dei diritti, toccando settori quali la sanità, per esempio. Ci sono interessi poco limpidi sul carcere, e dobbiamo avere il coraggio di scardinarli. Ho per fortuna anche ricordi belli di attestazione di lealtà, rispetto, solidità dei rapporti umani, indipendenza dei ruoli e solidarietà nel fare squadra contro il male, mi riferisco ad esempio alla Magistratura di Sorveglianza, alla Presidente Daniela Tortorella a cui va tutta la mia stima personale e professionale. Ho iniziato a leggere il non detto del carcere accanto a lei e alla Direttrice Patrizia Delfino. Mi porto dietro di questi anni l’importante ruolo della Polizia penitenziaria tutta, a cui i detenuti sono per legge affidati, delle Comandanti che hanno retto i difficilissimi e gravosi compiti di ordine e sicurezza in questi anni, Giuseppina Crea, Maria Luisa Alessi, Gabriella Mercurio, Giada Graziano, cito loro per rappresentanza, ma tanti sono i volti e i nomi che scorrono nella mia mente. Mi porto dentro la complessità dell’umano».

– Posso chiederle cosa sognava, da bambina, di fare da grande?

«Da bambina sognavo di fare il medico. La cura dell’altro è qualcosa che ti abita dentro sin dalla nascita. Poi invece ho studiato per diventare avvocato e da avvocato non credo di aver tradito il mio sogno originario, seppur declinato in una forma diversa di cura».

– In che senso avvocato?

«È l’aver cura dei diritti e delle tutele fuori e dentro le mure per una giustizia più giusta. Aggiungo che l’educazione, il contesto, le relazioni abbiano inciso molto. Credo che si nasca con dei “talenti” nel senso cristiano del termine e che essi vadano messi a frutto per il prossimo. Penso che serva una nuova dimensione di pensare e concepire il diritto. Dobbiamo realizzare un umanesimo giuridico che si impone alle porte delle nostre coscienze. Serve ripartire dalla Deontologia del Fondamento».

– Le materie che più l’appassionavano a scuola?

«Tendenzialmente tutte, sono una curiosa. Mi piace molto leggere, e mi piace analizzare e verificare ciò che apprendo tanto nello studio quanto nella vita. Se dovessi fare una cernita, le direi matematica, religione, italiano, storia e filosofia. Scrivere è stata sempre la mia passione, è un modo di trasmettere sui fogli bianchi della vita una narrazione che resti per sempre. Ricordo ancora quando vinsi nel ’95 il primo premio letterario alla memoria del Prof. Richichi quale martire della libertà, per un componimento sul tema appunto della Libertà. Vede che era forse tutto scritto?».

– Che futuro immagina per la sua vita professionale? Ancora carcere?

«Lei ha parlato prima di risposta evangelica. Credo sia tutto scritto, e il caso non esiste. Sicuramente l’auspicio è continuare a dedicarmi al settore penitenziario per cui ho studiato tanto e mi sono specializzata, sono consaORI DEIciascuno chi può e chi deve è chiamato a fare la sua parte».

– Che famiglia ha alle spalle? Intendo dire sorelle? Fratelli?

«Ho una famiglia solida. Ho la fortuna di essere nata in una famiglia sana che mi ha trasmesso valori forti, ma soprattutto mi ha dato l’opportunità di realizzarmi. Mia madre e mio padre mi hanno educata al senso del dovere e del rispetto degli altri. Sono valori che oggigiorno vengono puntualmente traditi in nome del raggiungimento di qualche fine egoistico. Di tutte le domande questa, mi creda, è la più difficile. Tendo a non parlare mai di loro, è il mio senso di protezione che scatta immediato. Da mio padre ho ereditato il rumore degli sguardi, è un uomo molto buono ma fermo. Non parliamo molto, non è mai stato necessario. Mia madre è il mio riferimento di donna. Una forza e una tenacia determinanti per la mia crescita. Una donna profondamente cristiana, un’insegnante, una mamma in ogni circostanza, mi ha trasmesso il fortissimo senso del dovere e dell’impegno. Non è stata una madre permissiva, ci siamo sempre dovuti guadagnare tutto io e i miei fratelli. Un giocattolo andava meritato, prima dovevi portare buoni voti a casa e ha sempre tenuto moltissimo alla condotta a scuola e nella vita. Siamo tre figli e i miei fratelli sono le mie ali. Siamo molto uniti. Mio fratello è la roccia nella quale faccio molto affidamento, un uomo di poche parole, ma giuste: una sua solita frase è ricordati di affrontare le difficoltà con il sorriso e persevera. Mia sorella è la più piccola di casa, la bellezza del rapporto tra sorelle te lo godi nella fase adulta. Una complice, una confidente, una consigliera fidata. Ha una spiccata sensibilità ben celata da risolutezza e rigore. Entrambe siamo impegnate nel mondo della giustizia. Mio fratello è sposato, a discapito di credenze popolari, ho un ottimo rapporto con la mamma dei miei nipoti. Loro, infine, ma mai per ultimi sono il sorriso quando rientro a casa, il ristoro da ogni fatica, la domanda a ogni sacrificio: non per cosa, ma per chi?».

– E i nonni?

«I nonni sono stati determinanti nella mia crescita. Ho accennato dell’importanza della trasmissione dei valori forti. Una non l’ho mai conosciuta ed è la nonna da cui ho ereditato il primo nome per volontà di mia madre che la perse troppo giovane. Gli altri tre ho avuto la fortuna di godermeli fino all’età adulta. Mi mancano, ma li ricordo con il sorriso sempre. So di essere stata fortunata perché mi hanno trasmesso valori che contano e che spesso purtroppo non ritrovo più, o raramente. Dovessi raccontarle una frase che spesso mi viene in mente della nonna che mi cresciuta: ricordati quando esci da casa mani e capelli sempre in ordine. La penso e sorrido era il suo senso di compostezza e di dignità, oggi banalizzeremmo sull’apparenza».

– Avvocato, come e dove trova lo spazio per una sua vita privata?

«Su questo sono poco diligente nel senso che ho poco spazio per me. Da quattro anni non riesco a dedicarmi molto tempo. Garantire i diritti è tra i valori più alti del nostro Stato, io ho sentito di volermi dedicare nelle modalità e con i tempi necessari, lo rifarei. Questo inevitabilmente mi ha portata a sottrarre tempo alla mia vita privata. Un richiamo che rivolgo a me stessa. Per contro, il mio senso del dovere prevale su tutto e non mi pesa affatto quello che faccio o le scelte che ho preso. Sarà che sono cresciuta con il forte esempio di papà che mi ha educata al lavoro, al silenzio a fare bene il bene, alla serietà nel fare le cose. Oggi sono una donna che non si pone il problema della vita privata se questa era la sua domanda. Ciò che è pensato per noi troverà il modo di raggiungerci».

Sorride e con simpatia mi risponde come Giorgia al festival di Sanremo: “non ti conviene, ho un carattere difficile”.

– Mi dice qual è l’ultimo libro che ha letto e che non parla di detenuti?

«Mi fa sorridere questa domanda. Appaio forse una donna monotematica? Le confesso che divoro qualsiasi libro. Negli ultimi anni ho dato maggiore spazio a quelli delle grandi tradizioni spirituali. L’ultimo libro che ho letto è Dare cuore a ciò che conta. Il Buddha e la meditazione di consapevolezza. Anzi mi consenta di condividerle una frase: “METTÀ, LA GENTILEZZA AMOREVOLE”. C’è una grande domanda che attraversa le nostre esistenze, che ne svviamo consapevoli o meno: qual è lo scopo della nostra vita? Io penso sia quello di realizzare la felicità. […] Dal più profondo del nostro essere noi desideriamo essere felici. […] Una buona condizione materiale non è sufficiente. Nessun oggetto, per quanto bello e prezioso, ci appaga completamente. Abbiamo bisogno di qualcosa di più profondo, che mi piace definire affetto umano. […] Così, quando prendiamo in esame le nostre origini e la nostra natura, scopriamo che nessuno nasce libero dal bisogno di amore. In ultima analisi, il motivo per cui l’amore e la compassione portano la felicità più grande risiede semplicemente nel fatto che la nostra natura li preferisce a ogni altra cosa”».

– E l’ultimo concerto di musica che è andata a sentire?

«Fuori città confesso sia passato troppo tempo effettivamente. Sono stata al concerto dei Coldplay a Milano, San Siro luglio 2017; a Reggio l’ultimissimo quello tenuto dalla orchestra del Conservatorio Cilea in occasione dei festeggiamenti per il 210° anniversario della fondazione dell’Arma nella riqualificata piazzetta dell’Integrazione dei Popoli ad Arghillà. Voglio in questa occasione però ricordare, perché ho particolarmente gradito la scelta delle musiche e la direzione di Beatrice Venezi, del concerto di Natale dell’Università Mediterranea. Mi ha chiesto l’ultimo ma non il primo. Glielo racconto io: il primo concerto avevo 4 mesi, 14 luglio 1985 Claudio Baglioni a Reggio Calabria comodamente dal passeggino. È e rimane il mio cantante italiano preferito. Il prossimo concerto Ultimo: vorrei andarci con mia sorella, ne parlavamo proprio qualche giorno fa».

– E l’ultima scampagnata con vecchi amici e amiche del cuore?

«Scampagnata molti anni fa, credo nel 2011, con gli amici di sempre quelli con i quali sono cresciuta. Abbiamo tutti preso poi direzioni diverse, ma sappiamo di esserci sempre, gli uni per gli altri. Sono pur sempre quella bambina cresciuta a pane e parrocchia, e non lo dimentico perché è a quella bambina che tengo fede ogni giorno. Non frequento molte persone, esco poco. Il tempo però per le amiche cerco però di trovarlo sempre, anche se anche loro sono molto impegnate».

– Posso dirle grazie, Avvocato?

«Per che cosa, scusi?»

– Per le cose che mi ha raccontato, e soprattutto per il modo come me le ha raccontate. Grazie davvero.

Rocco Lico: è di Mileto l’astronomo dei buchi neri

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di PINO NANO – “Per la comunità scientifica osservare i buchi neri potrebbe portare a scoprire fenomeni che oggi sono impossibili da prevedere.

Osservare i buchi neri significa infatti poter guardare direttamente che cosa accade quando la materia si trova in condizioni estreme.

Vuol dire anche fare un passo in avanti importante nella comprensione dei segreti del cosmo e avere “un nuovo strumento di indagine per esplorare la gravità nel suo limite estremo”…

Il tema è assolutamente affascinante, oggi parliamo del grande buco nero al centro della nostra galassia, la Via Lattea, conosciuto come Sagittario A*. Gli scienziati di tutto il mondo non hanno più dubbi, la foto che ormai ha fatto il giro del mondo è la prima prova visiva diretta della presenza di questo enorme buco nero. L’immagine è stata realizzata dall’Event Horizon Telescope (Eht), un array che collega otto osservatori radioastronomici in tutto il mondo che poi formano un unico telescopio virtuale delle dimensioni della Terra.

“Il progetto -spiega l’astronomo italiano Rocco Lico- prende il nome dall’orizzonte degli eventi, il confine di un buco nero oltre il quale nulla può sfuggire, nemmeno la luce. Questa immagine cattura la luce distorta dalla potente gravità del buco nero, che ha una massa pari a quattro milioni di volte quella del Sole. Ma quello che si vede in questa in immagine non è il buco nero stesso, che per definizione non possiamo vedere perché non emette luce. Cerchiamo di capire un po’ meglio cosa rappresenta questa regione centrale scura circondata da una struttura brillante a forma di anello. Quando la luce passa nel raggio d’azione della forte gravità esercitata dal buco nero, la sua traiettoria viene fortemente distorta. I raggi di luce che si avvicinano troppo all’orizzonte degli eventi ci finisco dentro e spariscono per sempre dentro quella parte scura centrale che chiamiamo ‘ombra del buco nero’. Invece, i raggi di luce che non si avvicinano troppo dopo aver fatto qualche giro attorno all’orizzonte degli eventi riescono a sfuggire e creano l’emissione a forma di anello che vediamo in questa immagine ottenuta con Eht, che chiamiamo anello di fotoni”.

Vi chiederete, ma cosa c’entra la Calabria con i buchi neri della Via Lattea?

Bene, uno degli scienziati che in questi anni si è occupato di questo progetto e che ha partecipato in prima persona a questa ricerca internazionale che oggi ha prodotto risultati inimmaginabili, è proprio uno di noi, Rocco Lico, un ex ragazzo di Calabria, nato e cresciuto a Mileto, siamo alle porte di Vibo e a due passi da Nicotera e Tropea. Un ricercatore che ha studiato al liceo scientifico ‘Giuseppe Berto’ di Vibo Valentia e che poi, dopo una laurea brillantissima all’Università di Bologna ha preso le ali ed è finito nei più grandi centri di ricerca di astrofisica del mondo.

«Questa immagine del Grande Buco Nero – confessa lo scienziato – già rappresenta un risultato storico e fornisce la prima evidenza visuale diretta dell’esistenza stessa di Sagittario A*, finora soltanto postulata. Questi nuovi risultati confermano con estrema precisione alcuni aspetti chiave della Teoria della Relatività di Einstein e aggiungono un’informazione fondamentale alla conoscenza della fisica dei buchi neri».

– Ma come ci arriva lei a questo progetto?

«Per questo lavoro ho dato il mio contributo sia nel processo di calibrazione dei dati sia nel processo di analisi, svolgendo un ruolo attivo in particolare nel gruppo di lavoro che si occupa delle tecniche di ricostruzione delle immagini, prendendo parte a tutte le fasi del processo di imaging”.

– Me lo spiega in termini più semplici per favore?

«Ci provo. Da un lato ho co-guidato un team che si è occupato della calibrazione strumentale dei telescopi, in cui abbiamo sviluppato nuove metriche di valutazione delle immagini, che ci hanno aiutato a caratterizzare le fluttuazioni strumentali nei dati e a districarle dalla variabilità intrinseca di Sagittario A*. Dall’altra parte, ho co-guidato il team che ha prodotto decine di milioni di immagini con diversi algoritmi, usando vari cluster di calcolo in Europa (IAA, MPIfR) e USA (Google cloud computing), che ci hanno permesso di ricostruire l’immagine finale che abbiamo poi pubblicato».

Per i suoi contributi a questi risultati, Rocco Lico ha ricevuto dalla collaborazione EHT uno dei premi più prestigiosi del 2022, quello destinato ai “Giovani ricercatori dell’Anno”, con una motivazione a dir poco solenne: “All’astrofisico Rocco Lico per i suoi significativi contributi e la leadership nei processi di analisi delle immagini e di calibrazione dei dati di Sagittario A*. Questo lavoro ha contribuito a identificare e separare la variabilità intrinseca di SgrA* dalle fluttuazioni strumentali” .

Vi dirò di più. Per l’annuncio di questi risultati, il 12 maggio 2022, Rocco Lico è stato relatore ufficiale alle conferenze stampa di Madrid e di Roma, e successivamente è stato uno dei sei membri del panel di esperti, selezionato dallo European Southern Observatory (ESO), per una sessione in diretta di domande e risposte per la stampa di tutto il mondo. E all’interno del progetto internazionale di cui parliamo, in collaborazione con EHT, Rocco Lico coordina oggi il gruppo di lavoro sui nuclei galattici attivi. Contemporaneamente è anche co-leader del team che si occupa dell’analisi dei dati per la calibrazione dei telescopi e del team che si occupa di produrre milioni di immagini per mezzo di supercomputer.

La materia di cui ci occupiamo è complessa, ma la sua è davvero una storia di straordinaria eccellenza tutta italiana, che vi racconto dopo aver atteso per mesi una sua risposta, alle prese lui in giro per il mondo con i suoi lavori di ricerca, le conferenze e le sue prove sul campo, perché la vita di un astrofisico – mi dice – è fatta di mille prove sul campo e di mille verifiche concrete con il mondo reale della ricerca.

– Rocco, lei è giovanissimo, posso chiamarla Rocco? Proviamo a darci del tu?

«Certamente, con immenso piacere».

– Allora, per favore mi spieghi in maniera semplice cosa sono i “buchi neri super massivi” che tu e il team di cui fai parte state analizzando?

«I buchi neri super massivi (SMBH), come noi li chiamiamo in gergo scientifico, sono quei buchi neri con masse dell’ordine di milioni o miliardi di volte la massa del Sole e svolgono un ruolo fondamentale nell’evoluzione cosmica delle galassie che li ospitano. Fondamentalmente, ogni galassia massiccia nell’universo ospita un SMBH al suo centro, inclusa la nostra galassia, la Via Lattea, che ospita un SMBH da 4.3 milioni di masse solari, noto come Sagittarius A*».

– Ma perché è importante conoscere la loro struttura e la loro dimensione? Come riuscite a farlo?

«Studiare le proprietà di questi oggetti è importante per comprendere le leggi che governano l’evoluzione delle galassie e dell’universo. Misurare queste proprietà ovviamente non è per niente facile. Per accedere a regioni così compatte, e quindi per realizzare un’immagine come quella che abbiamo pubblicato, è necessaria una risoluzione angolare estremamente elevata, che può essere ottenuta sia aumentando la frequenza di osservazione sia utilizzando un’apertura molto ampia del telescopio!».

– Come avete fatto?

«In questo contesto, lo strumento più potente è la cosiddetta tecnica nota come interferometria su lunghissima base (VLBI), che consiste nell’utilizzare due o più radiotelescopi, separati da una distanza chiamata baseline, che raccolgono contemporaneamente la radiazione elettromagnetica, come un reticolo di diffrazione. Tale schiera di telescopi simula un singolo radiotelescopio virtuale ad alta risoluzione con un diametro equivalente alla lunghezza massima della linea di base».

– Alla fine, il risultato è stato strabiliante?

«Per poter ottenere l’immagine dell’ombra di Sagittario A*, il buco nero super massivo situato al centro della Via Lattea a una distanza di oltre di 27000 anni luce dalla Terra, è stato necessario assemblare un una rete globale VLBI operante ad una lunghezza d’onda di 1.3 mm, che rappresenta un telescopio virtuale delle dimensioni della Terra con una risoluzione angolare mai raggiunta prima. In pratica è come se l’intero pianeta Terra fosse un grande radiotelecopio».

– L’immagine dell’ombra del buco nero al centro della galassia M87, conosciuto come M87*, è molto simile a quella di Sagittario A*, il buco nero al centro della nostra galassia. Sarà che sono un profano, ma perché questo risultato è così importante?

«Questa è un’ottima domanda! In entrambi i casi, l’immagine EHT rivela una morfologia dominata da una struttura asimmetrica ad anello che circonda un’ombra centrale e oscura proiettata dall’orizzonte degli eventi del buco nero. Però questi due buchi neri risiedono al centro di galassie completamente diverse e soprattutto hanno masse molto diverse. M87* è oltre 1500 volte più massivo di Sagittario A*. Quindi, la notevole somiglianza delle ombre di Sagittario A* e M87*, sebbene le loro masse differiscano di circa 3 ordini di grandezza, indica che la presenza degli gli anelli fotonici è una caratteristica universali dei buchi neri (indipendentemente dalla loro massa), e la loro forma e dimensione corrisponde esattamente a quanto previsto dalla teoria della Relatività di Einstein».

– Prima hai accennato alla ricostruzione di milioni di immagini, ma cosa significa?

«Anche questa è un’ottima domanda! Questo telescopio grande come la Terra in realtà è composto da un numero limitato di telescopi che di conseguenza producono un numero limitato di informazioni. Pertanto, ricostruire un’immagine con le informazioni acquisite da questi telescopi equivarrebbe, metaforicamente, a cercare di ricostruire una frase conoscendo solo alcune delle lettere che compongono le parole all’interno della frase, come nel gioco della ruota della fortuna. Per questo motivo sono stati sviluppati diversi algoritmi e tecniche ad-hoc di ricostruzione dell’immagine, che vanno appunto a riempire questi buchi che abbiamo nei dati. Abbiamo quindi generato milioni di immagini con diverse combinazioni di parametri per i diversi algoritmi e poi le abbiamo mediate per ottenere l’immagine finale, che e è quella che meglio rappresenta e si adatta ai dati ottenuti delle osservazioni. E questo ha richiesto un enorme potere di calcolo e l’utilizzo di supercomputer, sia per la produzione di tutte queste immagini sia poi per l’analisi successiva».

– Perché nel caso di Sagittario A*, che è molto più vicino a noi rispetto ad M87*, la ricostruzione dell’immagine è stata più complicata?

«È vero che Sagittario A* è più vicino rispetto a M87*, ma ci sono due fattori che hanno complicato ulteriormente il processo di ricostruzione dell’immagine. Da un lato, il fatto che Sagittario A* abbia una massa circa 1500 volte inferiore a quella di M87*, implica tempi scala di variabilità molto più brevi, rendendo l’immagine “mossa”. In altre parole è come cercare di fotografare un soggetto in movimento, che cambia continuamente forma. D’altra parte, ci sono anche gli effetti prodotti dal mezzo interstellare che si trova tra la Terra e il centro galattico, che rendono l’immagine “offuscata”. Metaforicamente, è come se questo soggetto in movimento che sitiamo cercando di fotografare fosse anche in mezzo alla nebbia. E anche in questo caso sono state sviluppate delle sofisticate tecniche di analisi ad-hoc per attenuare entrambi gli effetti».

– E il domani cosa ci riserva?

«La ricostruzione delle immagini dell’ombra dei buchi neri al centro della galassia M87 e della Via Lattea rappresenta solo il primo passo verso la comprensione dei meccanismi fisici su scala dell’orizzonte degli eventi. Il passo successivo sarà lo studio della dinamica del gas che viene accresciuto dal buco nero e dei getti di plasma relativistico che nei casi più estremi vengono espulsi lungo l’asse di rotazione del buco nero stesso. Quindi nel prossimo futuro cominceremo a vedere non solo delle immagini ma anche dei ‘filmati’ veri e propri che ci dicono come questi oggetti variano in funzione del tempo».

– Che effetto fa sapere di far parte di un team di ricerca che conta oltre 300 studiosi di tutto il mondo?

«Il fatto che ad ottenere questi risultati sia stato team così numeroso e non un singolo scienziato non è un caso. Le tecniche osservative e di analisi oggi diventano sempre più complesse e più diversificate. Quindi serve la sinergia di più persone con diverse competenze per raggiungere grandi obiettivi. E in effetto negli ultimi anni la maggior parte dei più importanti risultati relativi al mondo dell’astrofisica è stata ottenuta grazie a grandi collaborazioni scientifiche. Far parte di questo mondo mi riempie di gioia certamente, ma richiede anche tanta responsabilità, estremo rigore e tanta dedizione».

– A quali altre ricerche ti stai dedicando adesso?

«In questo momento sto lavorando all’analisi di osservazioni a diverse frequenze di un sistema binario formato da ben due buchi neri super massicci, noto come OJ287, a circa 5 miliardi di anni luce dalla Terra. E in parallelo sto lavorando ad osservazioni ad alta risoluzione di un sistema binario galattico noto come RS Ophiuchi, in cui l’interazione tra una nana bianca e una stella di tipo gigante rossa dà luogo periodicamente a delle esplosioni termonucleari che producono un aumento temporaneo della luminosità del sistema. E sto lavorando a tanti altri progetti interessanti di cui magari avremo modo di parlarne in futuro».

Rocco Lico, dunque, un figlio prestigioso di questa terra, un giovane studioso che oggi rischia di passare alla storia per i risultati delle sue ricerche e delle sue intuizioni. Davvero straordinario.

Lui, attualmente è ricercatore post- dottorato presso l’Istituto di Radioastronomia a Bologna, uno dei centri di ricerca dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (IRA-INAF), e presso l’Instituto de Astrofísica de Andalucía a Granada, uno dei centri di ricerca del consiglio superiore della ricerca scientifica in Spagna (IAA-CSIC). Si è laureato in astrofisica e cosmologia presso l’università ‘Alma Mater Studiorum’ di Bologna dove nel 2015 ha poi conseguito un dottorato di ricerca in astrofisica e cosmologia. Ma durante il dottorato ha svolto una parte delle sue ricerche negli Stati Uniti presso la Boston University.

Dopo il dottorato ha lavorato presso l’università di Bologna e l’Istituto di Radioastronomia (IRA-INAF) e fino al 2020 è stato ricercatore presso il Max-Planck-Institute for Radio Astronomy in Germania (MPIfR). Prima di trasferirsi a Bologna ha svolto per tre anni le sue ricerche a Granada presso l’Instituto de Astrofísica de Andalucía. Attualmente ha collaborazioni attive con diversi centri di ricerca in Europa, negli Stati Uniti e in Asia. Oggi fa parte della collaborazione scientifica ‘Event Horizon Telescope’ (EHT), il progetto che utilizzando una rete di telescopi sparsi in diversi continenti ha recentemente realizzato la prima immagine del buco nero al centro della Via Lattea.

Come dirlo meglio? Siamo ai massimi livelli della ricerca internazionale della Via Lattea.

– Rocco, ma nella tua vita c’è solo la passione per la fisica e l’astronomia?

«Devo confessarti che ho un’altra grande passione, che è la musica!»

– Non mi dirai che trovi anche il tempo per cantare?

«Per cantare forse no, ma per suonare la chitarra certamente sì! E ti confesso anche che la prima cosa che faccio quando mi trasferisco in una nuova città per lavoro è comprare una nuova chitarra».

– Suoni da solo o in una band?

«Questo in realtà non credo sia rilevante ai fini di questa intervista, magari non lo scrivere, ma assieme ad altri amici musicisti abbiamo creato un progetto musicale che abbiamo chiamato “Greenfinch Sound Project”. Si tratta di un progetto basato su brani inediti e composizioni originali, con sonorità che spaziano tra il tra rock, jazz e musica cantautorale. Alcuni brani li abbiamo già registrati e pubblicati. Altri sono in arrivo!».

– Vogliamo ripartire dall’inizio?

«Sono nato e cresciuto a Mileto, un paesino di qualche migliaio di abitanti nel profondo sud dell’Italia, in provincia di Vibo Valentia».

– Che famiglia hai alle spalle? Intendo dire fratelli? Sorelle? Nonni…

«Ho un fratello maggiore: abbiamo avuto la fortuna di avere due ottimi genitori, che con grande umiltà hanno saputo creare una bella famiglia molto unita. Purtroppo, non ho conosciuto i due nonni, sono mancati prima che io nascessi, ma ho avuto due nonne fantastiche. Le nonne si chiamavano Rosina Scoleri e Caterina Mangone, e vivevano entrambe a Mileto. E ho due bellissime nipotine!».

– Che infanzia ricordi?

«Ho passato una bellissima infanzia in Calabria, fatta di cose semplici, a contatto con la natura, circondato da persone amorevoli, all’insegna di solidi valori affettivi e familiari».

– Hai qualche ricordo personale di quella stagione?

«Tanti, anzi, tantissimi. Per esempio, ho ricordi indelebili dei lunghi e piacevoli pomeriggi in spiaggia con la mia famiglia durante le calde giornate estive, che cominciavano e finivano con un breve viaggio in macchina ascoltando Zucchero Fornaciari, Fabio Concato e tutta la buona musica cantautorale italiana, di cui mio padre era un grande appassionato”.

– Il luogo dove andavate al mare?

«Si chiama località Punta Safò, credo che sia ancora uno dei posti più incantevoli della terra».

– I tuoi genitori, Rocco?

«Mia mamma si chiama Maria Luisa Valente ed è un’insegnante di scuola dell’infanzia. Mio papà, Antonino Lico, che purtroppo da qualche anno non c’è più, era impiegato presso l’ente nazionale per l’energia elettrica (ENEL)».

– E tuo fratello?

«Mio fratello si chiama Francesco: E un libero professionista Agrotecnico laureato, e da qualche anno lavora presso il Ministero della Pubblica Istruzione come amministrativo».

– Che scuole hai frequentato?

«Le Scuole elementari e medie a Mileto, poi ho frequentato il liceo scientifico ‘Giuseppe Berto’ a Vibo Valentia».

– Delle scuole superiori, Rocco, quali insegnanti credi che valga la pena di ricordare?

«Sicuramente ricordo con affetto la professoressa di inglese, che non si limitava a farci fare esercizi di grammatica secondo gli schemi obsoleti del programma ministeriale, ma ci faceva tradurre i testi di Eric Clapton. Ci faceva guardare film in lingua originale e interagire con persone madrelingua. E ricordo con piacere anche il professore di Francese, che faceva le sue lezioni con una passione incredibile, facendoci capire quanto sia importante avere la giusta motivazione per perseguire le cose che piacciono davvero».

– Ricordi il nome della tua insegnante di inglese al Berto? E quello del professore di francese?

«Come potrei dimenticarli? La professoressa Falbo ci insegnava Inglese e il professore Gallarello ci insegnava Francese».

– Come nasce poi la tua scelta universitaria?

«Ho avuto interesse per l’astronomia sin da piccolo, come succede a molti. Nel mio caso però la passione che ho sviluppato è stata sufficientemente profonda, da perdurare poi negli anni. Subito dopo il liceo la scelta universitaria è stata alquanto chiara sin da subito. L’Università più vicina con un corso di laurea in astronomia era l’Università di Bologna, peraltro una delle Università con una lunga tradizione accademica cominciata nel XI secolo. Ovviamente, ‘università più vicina’ si fa per dire, ero cosciente che uscire dalla propria comfort zone e ritrovarsi per la prima volta completamente da solo in una città a mille chilometri di distanza da casa, lontano dagli affetti, non sarebbe stato facile. Ma avevo la giusta motivazione per fare questo grande passo, e soprattutto sapevo di poter contare sull’appoggio e la fiducia dei miei genitori. Mia mamma, in particolare, mi ha sempre incoraggiato a perseguire ciò in cui credo, anche se quella sera della partenza ricordo la fatica immensa che ha fatto per trattenere le lacrime».

– Cosa è stata Bologna per te?

«Al momento, dopo Mileto, Bologna è la città dove ho vissuto più a lungo e senza dubbio la ritengo la mia seconda patria».

– Il tuo primo incarico?

«Il mio primo incarico è stato proprio a Bologna, subito dopo la laurea magistrale. Ho avuto una borsa di studio presso l’istituto di Radioastronomia, uno dei centri di ricerca INAF con sede a Bologna, per continuare il lavoro che avevo iniziato con la tesi, che poi ha prodotto la mia prima pubblicazione scientifica».

– Quello che non capisco è come sia nata in te la passione per l’astronomia? Dai libri? Dalle favole? Dai racconti? Da cosa più specificatamente?

«Ho sempre avuto interesse per l’astronomia fin da piccolo. Leggevo libri, guardavo e registravo le puntate di Superquark in tv, e osservavo il cielo di notte. Poi i miei genitori mi hanno regalato un’enciclopedia astronomica con delle VHS che hanno stimolato ancora di più il mio interesse. E con l’acquisto di questa enciclopedia è arrivato anche un piccolo telescopio, con il quale riuscivo a vedere gli anelli di Saturno, i satelliti di Giove e i crateri lunari, e lì sono rimasto letteralmente folgorato. Ma il colpo di grazia credo sia arrivato nel 1997, con il passaggio della cometa Hale-Bopp visibile a occhio nudo, di una bellezza disarmante, che non so per quante ore ho osservato instancabilmente dal balcone del bagno di casa mia a Mileto».

– Le tue prime esperienze importanti?

«Le prime esperienze importanti risalgono al 2012, quando ho presentato per la prima volta i risultati di una mia ricerca a una conferenza internazionale tenutasi a Bordeaux, e qualche mese dopo a un workshop sui buchi neri a Tokyo. In entrambi i casi erano le primissime conferenze di fronte a un pubblico di massimi esperti del tema, e oltre alla naturale ‘ansia da prestazione’, ricordo come per la prima volta io abbia potuto associare dei volti a delle persone che conoscevo solo per nome per via dei lavori che avevano pubblicato».

– Rocco, la ricerca, l’analisi, lo studio a cui tu sei più legato?

«Al momento, tra le varie ricerche a cui ho contribuito, quella a cui sono più legato è sicuramente quella che ha portato alla realizzazione dell’immagine dell’ombra del buco nero al centro della Via Lattea, noto come Sagittarius A*. Per questa ricerca ho guidato e fatto parte di diversi team nell’ambito della collaborazione Event Horizon Telescope, che vede impegnati diverse centinaia di scienziati da tutto il mondo, ed è stato un viaggio incredibile tra molte sfide scientifiche e tecnologiche, e l’utilizzo di tecniche di analisi tra le più all’avanguardia dell’astrofisica moderna. È sorprendente vedere quali risultati gli esseri umani possono realizzare quando collaborano insieme in una perfetta sinergia»ß.

– Come finisci, ad un certo punto della tua vita, in America?

«Quando facevo il dottorato di ricerca a Bologna, lavoravo sui buchi neri e i cosiddetti getti relativistici che vengono prodotti nei casi più estremi. Uno dei luminari in questo ambito è il prof. Alan Marscher, all’epoca direttore del dipartimento di Astrofisica della Boston University, che ha pubblicato alcuni degli articoli più influenti in questo ambito di ricerca. In quel periodo avevo ricevuto una borsa di studio del programma Marco Polo dell’Università di Bologna, che mi avrebbe permesso di effettuare una parte delle mie ricerche all’estero, e ho approfittato per proporre un progetto proprio al Prof. Alan Marscher, che ha accettato e in breve tempo mi sono trasferito a Boston».

– A che livello è oggi il mondo della ricerca italiana in questo settore?

«Siamo un paese di sognatori, e nonostante il governo italiano non investa molto nella ricerca scientifica, siamo sempre sul pezzo e cerchiamo di ottimizzare le risorse che abbiamo a disposizione. Chiaramente con più mezzi e strumenti si potrebbe fare molta più ricerca, ma cerchiamo di guardare con ottimismo al futuro».

– Posso chiederti come fai a conciliare il tuo ruolo con i legami che hai ancora in Calabria? Insomma, che rapporto hai ancora con la tua città natale?

«I legami con la Calabria sono molto forti. Lì è dove c’è la mia famiglia e dove sono cresciuto. D’altronde, come diceva Corrado Alvaro, “l’infanzia e l’adolescenza rappresentano l’inventario dell’universo”. Quindi in maniera spontanea e naturale appena riesco ci faccio un salto, proprio come in questo momento in cui sto leggendo il tuo messaggio e mi trovo su un treno diretto in Calabria dove passerò qualche giorno con la mia famiglia».

– Ti è mai capitato in giro per il mondo di “vergognarti” di essere figlio della Calabria?

«Naturalmente no! Vergognarsi delle proprie origini equivarrebbe a vergognarsi di se stessi. E questa dovrebbe essere una regola universale, non solo per chi è calabrese. Non credi?».

– Che consiglio daresti ad un giovane aspirante astronomo che oggi volesse intraprendere la tua carriera?

«Al di là dell’aspetto più ‘romantico’ di dedicarsi allo studio dell’universo e dei suoi misteri, sul piano più pragmatico questo tipo di carriera comporta una serie di sacrifici materiali e mentali che bisogna essere disposti a fare. Pertanto, la cosa più importante è avere la giusta motivazione. La carriera che intraprendiamo può avere un enorme impatto nella qualità della nostra vita. Un essere umano trascorre in media un terzo della propria vita a lavoro. Quindi è molto importante ambire a un lavoro che sia il più gratificante possibile, qualsiasi esso sia».

– Rocco tu sei appena rientrato in Italia dal Messico. Cosa ti porti dietro di questo tuo ultimo viaggio all’estero?

«È stata un’esperienza incredibile, non solo dal punto di vista scientifico, come ovviamente era prevedibile, ma anche umano. Quando si viaggia in questi posti così lontani si scoprono nuove realtà socio-culturali che ti arricchiscono come persona e ti aprono la mente facendoti scoprire un mondo che altrimenti non avresti mai potuto conoscere stando seduto in ufficio davanti a uno schermo».

– Rocco, qual è stata, secondo te, la vera arma del tuo successo?

«Non nascondo che la parola ‘successo’ mi crei un certo disagio, probabilmente potrebbe essere questa una delle ‘armi’ a cui ti riferisce in questa domanda. Per qualsiasi traguardo si possa raggiungere, in ambito lavorativo e non, credo sia molto importante mantenere sempre i piedi ben saldi e ancorati per terra».

– Quante volte all’anno riesci a tornare a casa tua?

«Da quando ho lasciato la Calabria, il che vuol dire da più di venti anni, ci torno sempre almeno un paio di volte all’anno. Ma non mi basta mai, credimi». (pn)

RAFFAELLA DOCIMO – curriculum vitae

Con Giorgia. Per l’Europa del Mediterraneo

Prof.ssa RAFFAELLA DOCIMO

Candidata alle Elezioni Europee dell’9-9 giugno Collegio Sud

Questo è il mio curriculum:

Laurea in Medicina e Chirurgia, I° Facoltà Università degli Studi di Napoli (110/110 e lode)

Specializzazioni in “Odontostomatologia” e in “Igiene e Medicina Preventiva”, Università degli Studi di Napoli

Professore Ordinario di Malattie Odontostomatologiche (dal 2001 a tutt’oggi) Titolare di Odontoiatria Pediatrica, Università degli Studi di Roma Tor Vergata

Direttore della Scuola di Specializzazione in Odontoiatria Pediatrica, Università degli Studi di Roma Tor Vergata

Responsabile Odontoiatria dell’Età Evolutiva – Policlinico Tor Vergata – Roma

Professore a contratto Corso di Laurea in Odontoiatria e Protesi Dentaria – Università Medica Internazionale di Roma- Unicamillus (dal 2021 a tutt’oggi)

Presidente Corso di Laurea in Igiene Dentale, Università degli Studi di Roma Tor Vergata (2003-2010 e 2013-2022)

Presidente della SIOI, Società Italiana di Odontoiatria Infantile (2014-2015)

Responsabile SIOI, Ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina, Roma, Progetto Odontoiatria Pediatrica Save The Children “Illuminiamo il futuro” (2014-2017)

Oltre 180 pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali ed internazionali e libri scientifici

Giornalista pubblicista. Stampa e Tv

Presidente Commissione Rilascio Licenze Pubblicità Sanitaria, Ministero della Salute (2018-2021)

Membro Consiglio di Amministrazione, Ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina, Roma (2013-2018)

Goodwill Ambassador Working for Peace (2003-2004)

Socio Fondatore “Associazione Roma per il Teatro Opera di Roma” (dal 2002 a tutt’oggi)

Membro del Programma “I live MAXXI”, Fondazione MAXXI, (2010-2015)

Membro Associazione “Amici del MAXXI”, Fondazione MAXXI, Roma (2016-2023)

Membro Consiglio d’Amministrazione Museo MAXXI, Roma (2023 a tutt’oggi))

Cover Story: Pippo Marra un protagonista della società dell’informazione

di SANTO STRATI – Utilizzare la parola “visionario” è persino riduttivo: Giuseppe (per tutti Pippo) Marra è molto oltre che un visionario. “Re” dell’informazione con un gruppo multimediale internazionale che porta il suo nome (GMC) non è più, da molti anni, solo il brillante giornalista e direttore che ha portato l’Agenzia Adnkronos a traguardi stellari, bensì un eccellente e apprezzatissimo manager della comunicazione globale.Con il vantaggio di conoscere, davvero come pochi, il mondo dell’informazione.

Come Presidente dell’Adnkronos, Pippo Marra ha avuto intuizione e visione nell’immaginare la realizzazione di un gruppo di comunicazione in grado non solo di fornire – cosa che fanno tutte le agenzie di stampa – materiali informativi a giornali, televisioni e media online, bensì di “produrre” contenuti (oltre che notizie, foto e video), sì da poter proporre un’offerta mondiale unica e straordinariamente completa.

È una complessa organizzazione che ha richiesto un impegno di non poco conto, ma, dietro, c’è la capacità di Pippo Marra di aver saputo interpretare e anticipare gli scenari della comunicazione, già in tempi in cui la Rete non era ancora così sviluppata. L’esperienza, l’intuito, la competenza hanno fatto il resto. In un mondo sempre più globalizzato, sempre più assediato da montagne di fake-news, riuscire a farsi notare, apprezzare, scegliere, non è sicuramente una strada percorribile da tutti.

Lo scorso anno l’Adnkronos (adn sta per “agenzia di notizie” mentre kronos era l’agenzia giornalistica di Pietro Nenni) ha festeggiato i suoi primi 60 anni. Un evento che è stato celebrato dal Presidente Sergio Mattarella e dalla Premier Giorgia Meloni e che è servito proprio a ribadire la qualità del servizio offerto (oggi anche alle aziende) là dove la comunicazione stenta ad arrivare al pubblico o viene veicolata in modo poco professionale. Comunicare significare mediare tra la fonte e l’origine della notizia e il destinatario finale: una regola che si applica ovviamente, in primo luogo, al giornalismo, ma si attaglia perfettamente al progetto ideato e ottimamente realizzato da Pippo Marra.

In occasione del 60° anniversario, Marra ha scritto sul bel libro celebrativo una frase importante: «In tutti questi anni, Adnkronos si è globalizzata. Ha raccontato il nostro Paese e ha attraversato le sue frontiere. Passo dopo passo, abbiamo sviluppato la nostra attività instaurando rapporti di collaborazione con i principali operatori dell’informazione e della conoscenza in giro per il mondo. Ben sapendo che, di questi tempi, il mondo fa parte della quotidianità di ogni Paese e che a cavallo di quei confini occorre imparare a muoversi con professionalità, competenza, curiosità, passione civile».

Senza trascurare – aggiungiamo noi – il grande orgoglio delle proprie origini. Pippo Marra è calabrese (è nato a Castel Silano, nel Crotonese), dalla testa ai piedi. Un illustre figlio della sua amatissima terra. Un protagonista che non mai smesso di sottolineare la sua appartenenza e il suo amore per la terra che gli ha dato i natali.

Un altro dei figli di Calabria, andato via a conquistare (e c’è riuscito) il mondo, a raggiungere il successo, grazie anche a quel particolare dna che caratterizza tutti noi calabresi. Quella proprietà biologica innata che racchiude la voglia di arrivare, di vincere e farsi valere, contro qualsiasi stupida forma di ghettizzazione (un tempo da subire, senza scampo) e di razzismo. Negli anni Cinquanta a Torino apparivano sull’uscio della case “Non si affitta a meridionali” ed era avventuroso esibire la propria provenienza. Eppure, in tanti hanno saputo contrastare con la propria capacità e la voglia di successo le isterie antimeridionaliste, raggiungendo traguardi impensabili: medici, scienziati, ricercatori, uomini delle Istituzioni, artisti, poeti, letterati, etc.

Pippo Marra appartiene a quella schiera di calabresi, orgogliosi e cocciuti, forti di un senso di appartenenza unico (e da tutti invidiato) che ha reso forse più difficile il percorso, ma alla fine ha rivelato la qualità di tanti personaggi , che oggi possono e devono rappresentare un modello ideale per le nuove generazioni.

Cavaliere del Lavoro, padre entusiasta di due gemelli oggi sedicenni, una vita movimentatissima, ma riservata e sempre un passo indietro, secondo la vecchia scuola. Il racconto del suo successo è avvincente.

– L’Adnkronos è un gruppo consolidato e autorevole, conosciuto in tutto il mondo. Quanto deve questo successo alla sua calabresità?

«Non ho bisogno di ricordare il legame che ho con la mia terra e le mie radici. Per me è motivo di conforto e anche un po’ di vanto. La calabresità, se così vogliamo chiamarla, fa parte della mia vita e della mia personalità. D’altra parte, come si dice oggi, il mondo è “glocal”, un impasto di ragioni ataviche e di apertura verso altri territori e altre culture. L’importante è non dimenticare mai le proprie origini. Tanto più quando quelle stesse origini appartengono a un’infinità di persone che si sono distinte e realizzate trovandosi a dover uscire dai propri confini di casa.

È stato il mio caso, e quello di moltissimi altri. Molti dei quali hanno dato lustro alla loro terra anche da lontano, migrando e piantando radici in mondi lontani».

– Come spiega questo forte di appartenenza che caratterizza tanti uomini e donne che hanno raggiunto posizioni apicali, in ogni parte del mondo, che si scopre hanno in comune l’origine calabrese?

«La Calabria è una terra di grande autenticità. Una terra a volte ferina ma sempre generosa. Che ti lascia dentro un’impronta che non viene mai sbiadita per quanto ti capiti di approdare altrove. L’emigrazione in un certo senso (qualche volta un senso amaro) fa parte del nostro destino. Ma per quanto si giri il mondo ci resta sempre dentro l’anima una traccia profonda del nostro passato, delle nostre famiglie, dei nostri ricordi. Vale per molti luoghi, è ovvio. Non voglio essere troppo campanilista. Ma quella traccia la si ritrova particolarmente in una gran quantità di calabresi che hanno fatto i mestieri più diversi. Spesso con risultati che meritano almeno un pizzico di orgoglio di campanile».

– Lei è nato nel Crotonese, a Castelsilano, un paesino con meno di 1000 anime. Conoscendo la sua riservatezza, è troppo chiederle di ricordare luoghi e persone della sua vita?

«Non amo mai parlare troppo di me. Un certo grado di riservatezza fa parte anch’esso di quelle radici di cui parlavo prima. Sono i fatti che parlano di noi più di quanto non facciano il nostro orgoglio e il nostro compiacimento.

Ho molti amici, moltissime persone a cui sento di dovere tantissimo. Li ricordo quotidianamente, senza mai esibire troppo i miei sentimenti. Mi viene da dire che anche questo fa parte di un certo spirito calabrese. Quanto alla mia famiglia, mia moglie, i miei figli, ho la fortuna di godere del loro amore infinito e di poterlo infinitamente ricambiare. Non c’è bisogno, credo, di aggiungere altro».

– Roma ha rappresentato la grande svolta. La sua Agenzia stava vicino ai Palazzi del potere e ne riferiva puntualmente e in modo imparziale segreti, vizi e virtù. Come ha conquistato il suo spazio tra i giornali, facendosi largo tra le due Agenzie di stampa più importanti?

«Non mi sento così vicino alla Roma dei palazzi. Li conosco, li esploro, qualche volta ovviamente li frequento. Ma la forza e il valore di una grande fonte di comunicazione, quale è l’Adnkronos, sta soprattutto nella sua capacità di scrutare un mondo più vasto di quello che domina le prime pagine. Stiamo raccontando il potere, cercando di decifrare la sua evoluzione. E uno dei nostri privilegi è la costante interlocuzione con quelle forze e quegli ambienti che possono fare la differenza in ragione del peso che hanno nei destini del mondo e del nostro Paese».

– Il medagliere di ogni giornalista, qualche volta, è fatto di scoop. Ne possiamo ricordare qualcuno che l’ha vista protagonista?

Da questo punto di vista, se posso citare un episodio, uno solo, è l’intervista che a suo tempo ci concesse il Santo Padre, parlando per la prima volta con un’agenzia di stampa. Molte delle cose che Papa Francesco ha rivelato nel suo libro, appena dato alle stampe, si possono rintracciare in quella conversazione lontana, che a suo tempo destò grande curiosità. Ma il mondo è fatto anche da tante altre voci e il nostro compito è appunto quello di rivelarne tutta la complessità».

– Dall’Agenzia di Notizie (Adn) al Gruppo Marra Comunicazione. Ci racconti questo percorso e quanti e quali personaggi l’hanno aiutata o creato difficoltà? È nota la sua profonda amicizia col Presidente Cossiga. Che ricordo conserva?

«Lei mi ricorda che c’è un lungo percorso alle mie spalle ed è ovvio che di quel percorso facciano parte tante amicizie e tanti legami. Con il presidente Cossiga ho avuto una lunga consuetudine, fin da prima che diventasse Capo dello Stato, e lungamente anche dopo, negli anni che per lui furono più amari.

Ricordo con emozione tante conversazioni che spaziavano dai destini politici agli aspetti più umani, quasi intimi. Cossiga era un uomo di profonda cultura, di grande passione pubblica ma anche di umanità curiosa, affettuosa, mai banale. Ho sempre tenuto per me quelle conversazioni ed esse continueranno a restare dentro di me, come a sottolineare un patto di mutua, amichevole riservatezza che ci ha sempre legato.

Da lui ho impaurato molto e considero uno dei grandi privilegi della vita essere stati così vicini nelle contingenze e nelle vicissitudini più diverse – e più appassionanti – che abbiamo attraversato.

– Il Palazzo dell’Informazione a piazza Mastai, a Roma, è il suo gioiello. Com’è nata l’idea e come l’ha poi realizzata?

«Si cresce, ci si espande e tutto questo a volte diventa più visibile, quasi simbolico. Il Palazzo dell’informazione è un luogo di incontro tra persone che hanno le conoscenze e le esperienze più varie. Da parte mia, ovviamente, c’è un certo orgoglio nel vedere anche fisicamente, logisticamente, la crescita del nostro gruppo. Ma ricordo sempre che tutto questo non lo facciamo mai da soli. Ci confrontiamo con persone e mondi che sono spesso al di fuori della nostra routine lavorativa. Aver pensato a un ambiente nel quale le persone potessero trovarsi a proprio agio, scambiarsi opinioni e risultati, confrontarsi con le più diverse sensibilità resta un punto fermo della nostra politica. Il Palazzo lo evidenzia, ma non lo imprigiona. Non è un castello crociato di quelli che si edificavano nel lontano Medio Evo. Piuttosto è una frontiera che si attraversa quotidianamente e liberamente. In questo è davvero un luogo simbolico. Evoca un’accoglienza, mai una chiusura. Lo vedo e lo vivo come un pezzo della nostra identità sempre in cammino».

– Roma è la città più grande della Calabria: ci vivono circa 600 mila calabresi. E tra questi: illustri chirurghi, scienziati, grand commis di Stato, uomini delle Istituzioni, personaggi dell’economia, della finanza, dell’Università, della politica. Chi frequenta e chi sono i suoi amici più cari?

«Di amici ne ho e ne ho avuti tanti. Ma tutti questi nostri legami per me non sono mai per me la ragione di un’esibizione, tanto meno di un’ostentazione. Il mio carattere e la natura del mio lavoro mi spingono a dialogare a tutto campo, ad avere curiosità per le persone più diverse, a stringere amicizie anche con chi svolge attività e coltiva pensieri diversi dai miei. L’ho già detto e mi ripeto. Non amo mettere in vetrina i miei legami, non lo considero appropriato. Quello che conta, per me, è lavorare in squadra, valorizzare le persone con cui condivido la fatica, aprirmi ad ambienti nuovi.

Non si costruisce nulla nell’isolamento e nella solitudine. E il mestiere di comunicare si fonda appunto principalmente sull’apertura verso il prossimo. Di qui non discendono vincoli di complicità, obblighi troppo stretti. Semmai il gusto di scoprire aspetti inediti. Diciamo che in questo caso le amicizie sono una metafora della esperienza lavorativa. E il fatto di aver incontrato tanti amici avendoli conosciuti prima per ragioni professionali è una delle caratteristiche più interessanti di questo lavoro. Laddove il pubblico e il privato finiscono per interfacciassi e per crescere insieme. Non sempre all’unisono, ma quasi.

Anche in questo caso la “calabresità” è parte di questo sodalizio che lega tra loro persone diverse ma con radici comuni».

– Per concludere: un sogno nel cassetto? Quanti ne ha realizzati e cosa ha ancora in mente di fare?

«Di sogni ne ho coltivati tanti e ho avuto la fortuna di realizzarne più d’uno. Ma il vero sogno è quello di non fermarsi, di non dormire sugli allori, di non tirare mai i remi in barca. I miei collaboratori lo sanno. Sono una persona appagata ma anche inquieta, ansiosa. Non sono abituato ad accontentarmi. Penso che dentro ognuno di noi ci sia una molla che spinge sempre ad andare oltre, a cercare nuovi territori, a migliorare se stessi. Per quanto è possibile, s’intende.

È il mito di Ulisse, che non per caso approda anche in Calabria. Alla mia età potrei guardare indietro con una certa soddisfazione e decidere che ci si può accontentare. Ma poi invece ci si rende conto che dentro di noi c’è una molla che spinge ad andare sempre oltre. Un po’ per ambizione, forse. Un po’, meno, per abitudine. E un po’, di più, molto di più, perché ci si sente infine legati agli altri. Alle persone con cui si lavora, a quelle che abbiamo incontrato quasi per caso, a quelle che ci hanno sorpreso, alle moltissime a cui ci siamo affezionati e verso di cui ci sentiamo in debito. A quel punto si riprende la navigazione e si cerca un’altra rotta, un altro approdo.

Sapendo che neppure questo, però, sarà mai definitivo». (s)

Le monetine su Craxi: l’autocritica del PD, il revisionismo a destra

di RAFFAELE MALITO – Trenta anni fa, il 30 aprile 1993, si consumava, davanti l’hotel Raphael, con il lancio delle monetine contro Bettino Craxi, la barbarie giustizialista di Mani Pulite e, con essa, la fine della prima Repubblica,  l’inizio del populismo che ha stravolto le regole della civiltà politica, il sopravvento del giustizialismo  sulla civiltà giuridica con la rottura degli equilibri dei poteri sanciti nella nostra Costituzione. Il Corriere della Sera ha ricordato, con grande precisione, questo anniversario, cruciale nella storia d’Italia, ricostruendo quella giornata con i commenti e i pensieri di alcuni  protagonisti di quel tempo, uno dei magistrati del pool Mani Pulite, Gherardo Colombo, il segretario del Pds, Achille Occhetto, Il capo ufficio stampa di Fini, Francesco Storace, le testimonianze di Luciano Del Castillo, l’unico fotografo tra quella folla inferocita, il figlio Bobo Craxi.  Un anniversario che, come accade, ogni anno, quando si ricorda, il 19 gennaio, la morte del grande leader socialista, avvenuta ad Hammamet, nel 2000, è l’occasione per riflettere sulla storia italiana di quel tempo: la distruzione di un’intera classe politica, preceduta dall’attacco stragista della mafia contro lo Stato con l’ uccisione di Giovani Falcone e Paolo Borsellino.                                                                                    

Ma le rievocazione del tentato linciaggio di Craxi, dopo che, la sera prima,  con il voto segreto, la Camera dei Deputati aveva rigettato quattro delle sei autorizzazioni a procedere nei suoi confronti, è anche la spia delle viltà che, oggi, trenta anni dopo, rivelano, alcuni dei protagonisti di quella stagione, dimenticando o nascondendo quanto avevano detto e fatto in quel tempo.                                                                 

Gherardo Colombo che oggi tenta di accreditarsi come garantista e rispettoso della dignità umana e personale  anche dell’indagato, ha dimenticato che è stato uno dei pilastri , insieme  con gli altri inquisitori del Pool Mani pulite, Davigo, Di Pietro, D’Ambrosio e il loro capo, il Torquemada Borrelli,  tutti ideatori ed esecutori della rivoluzione giudiziaria con la missione di annientare un’intera classe politica.  Alcuni dati di quella rivoluzione,  che si è espressa con la più colossale operazione di repressione penale  e di polizia giudiziaria della nostra storia: 3500 arrestati, 30000 inquisiti tra i quali 400 parlamentari, decine di ministri ed ex ministri, quattro ex presidenti del Consiglio, centinaia di imprenditori, sindaci, assessori, presidenti di grandi imprese pubbliche e private.  Chi non ha retto all’inquisizione si è suicidato: come il parlamentare socialista Sergio Morioni, i manager Cagliari e Gardini. 

Colombo, insieme con gli altri due della triade giustizialista, Davigo e Di Pietro, andò, in diretta televisiva, al Tg1 a minacciare  il governo di non approvare il decreto che si proponeva di modificare sostanzialmente la carcerazione preventiva.                        

Oggi, dopo trenta anni, di fronte al video delle monetine e dell’assalto a Craxi dice con anima candida :“A me fa lo stesso effetto di allora: io credo che sia sempre necessario rispettare le persone: in quell’occasione fu violata la dignità dell’onorevole Craxi : quelle immagini mi colpiscono negativamente, non si dovrebbero  mettere le persone alla berlina”.                                                           

Ma non risulta che, in quel tempo, Colombo disse o fece qualcosa di sostanziale per cambiare il modus operandi del Pool Mani pulite.                                                         

L’altra anima candida a cui il Corriere ha chiesto un commento sul 30 aprile 1993 è quella del segretario, di quel tempo, del Pci che aveva cambiato  nome in Pds, Achille Occhetto. Quella sera aveva promosso un’infuocata manifestazione nella vicina piazza  Navona proprio sui temi della  corruzione  e della campagna giudiziaria, all’indomani del voto alla Camera che aveva bocciato la richiesta di autorizzazione a procedere contro Craxi. Sull’onda del disdegno e delle accuse lanciati sulla piazza dei militanti, la corsa verso la casa di Craxi, l’hotel Raphael.  Sul posto c’erano già i camerati del MSI, i leghisti. Nessuno scrupolo per i militanti pdiessini, già comunisti: tutti insieme  al linciaggio del nemico-corruttore che si aspetta, esca dall’Hotel: nel frattempo era arrivato il camerata Teodoro Buontempo con due sacchetti pieni di monete che distribuisce a tutti, senza distinzioni politiche  di destra o sinistra. Craxi rifiuta di cambiare uscita e, protetto, dalla polizia va verso l’auto e si allontana dalla bolgia inferocita. Si conclude la storia politica del grande leader socialista e, simbolicamente,  cambia la prima repubblica e si apre la stagione del populismo.                                                                                                                         

A distanza di tanti anni, su Occhetto grava quella vergogna dei militanti del suo ex partito che manifestano, insieme, con i fascisti, senza alcuna distinzione, con assoluta brutalità, contro Craxi. E dice: “quella cosa  fu organizzata dal Msi. Io fui subito contrario perché fu una roba sommaria, una reazione inaccettabile”. Ma poco prima, nel suo infuocato comizio a piazza Navona, non aveva risparmiato nessuno. Non aveva detto di aver fatto votare, alla Camera, contro l’autorizzazione  a procedere contro Craxi. Oggi dice; “con Craxi c’erano grandi divisioni ma quelle immagini mi colpirono molto: umanamente e politicamente. Fu un esempio di barbarie innescata furore giustizialista: quella notte, senza dubbio, fu aperta la via per il populismo.”Dopo trenta anni ci si sarebbe aspettato qualcosa di più di questa caritatevole riflessione: Occhetto in quegli anni non viveva fuori dall’Italia, non era uno spettatore qualsiasi delle cose politiche del nostro Paese, era il segretario di un grande partito e nelle vicende di quel tempo, di quell’assalto al  sistema politico non poteva non dire nulla, non poteva non pensare che la conclusione non poteva  che essere quella del linciaggio a un grande dirigente  della politica italiana e, con lui, dell’attacco all’equilibrio dei poteri costituzionali, troppo semplice e, diciamolo, troppo facile e comodo, oggi, riconoscere  che quel che accadde davanti l’hotel Raphael fu una barbarie.                                                                                                   

Se la cava con un pusillanime, “ho zero ricordi di quella sera – dice Storace- ma le immagini delle monetine sono una cosa orrenda”. E aggiunge: “non mi risulta affatto che quella protesta fosse stata organizzata dai nostri”. Il capo ufficio stampa del Msi, non sapeva niente, era in vacanza. Forse, alle Maldive.                                                

È doloroso il ricordo del figlio Bobo Craxi: “mi telefonò  che era notte e mi disse: “Bobo tu non hai idea di cosa è successo: sono venuti in duecento sotto casa mia, mi hanno tirato di tutto: ho visto lo squadrismo”. E alla domanda, “ha mai visto suo padre piangere?”, risponde:  “ma si figuri, impossibile. Mio padre era addolorato, ma di indole era indomito. Il vero dramma di quei mesi era che non dovevamo più difenderci solo politicamente e dai Pm: era a rischio proprio l’incolumità fisica di tutta la nostra famiglia.

“Ancora a carica di emozioni è la testimonianza del fotoreporter Del Castillo: “Capii che il re era caduto. Di quei momenti ricordo l’orgoglio di quest’uomo, che uscii a testa alta: poteva scappare dal retro, ma credo che volesse dare una lezione a tutti”.

Dopo trent’anni bisogna solo non dimenticare. (lem)

STORIE / 25 Aprile: Fausto Gullo, il Costituente cosentino

di ANNA MARIA VENTURA – Il 25 Aprile  può essere considerato come il più importante appuntamento civile che la nostra Nazione rinnova da settantotto anni. In questa data si riporta alla memoria viva, in ragione di accadimenti storici fondamentali, la Liberazione del Paese dall’occupazione nazifascista e la nascita della Repubblica democratica. La Resistenza Italiana e la lotta di liberazione riscattarono il paese e lo fecero padrone del proprio destino. Un destino di libertà, custodito e difeso dalla Costituzione. Questa, pensata e scritta dai Padri e dalle Madri Costituenti, sancisce fondamenti, principi e garanzie della nostra libertà e dei nostri diritti fondamentali. Ai valori della Resistenza e della Costituzione dobbiamo ancorarci per affrontare ogni momento della storia presente e futura. In particolar modo l’oggi, dopo una pandemia che ha minato la sicurezza e mutato comportamenti e modi di vivere e il dolore di una guerra che sta facendo sanguinare il cuore dell’Europa e che si aggiunge ai numerosi conflitti presenti in ogni parte del mondo. In tale contesto è necessario ribadire l’importanza dei valori della libertà e dell’uguaglianza, della democrazia e dell’indipendenza e riappropriarci di quei principi fondamentali richiamati dalla nostra Costituzione che devono declinarsi innanzitutto nella centralità della dignità della persona, nella giustizia sociale, nel rispetto dell’ambiente quale parte integrante del nostro vivere quotidiano, nel ripudio della guerra. Un ripudio da riaffermare sempre con grande forza, correlato alla solidarietà verso la resistenza della popolazione ucraina e il sostegno al diritto alla pace di tutti i popoli del mondo che, contro la loro volontà, subiscono la violenza e l’ingiustizia della guerra. Si pensi alla guerra civile in Siria che perdura da dodici anni, al conflitto israeliano-palestinese, alla guerra, che in queste ultime ore sta insanguinando il Sudan.

Il 25 Aprile non sia solo un esercizio di memoria, ma concretamente, con i nostri comportamenti, improntati alla pace, al rispetto delle diversità, all’accoglienza, all’inclusione rendiamo omaggio a chi si è battuto per la libertà a costo della propria vita. Rendiamo ancor più nostro il concetto della Liberazione, figlia della Resistenza e madre della Costituzione repubblicana.

Certamente un contributo molto interessante, per evidenziare anche il ruolo di assoluto primo piano delle donne nel cammino democratico del nostro Paese è fornito da Nella Matta con il libro In cammino verso i diritti, che racconta le tappe salienti delle leggi che hanno cambiato la vita delle donne e creato condizioni di uguaglianza e parità. Il libro contiene anche le biografie delle ventuno Madri Costituenti. Il volume, edito da Jonia Editrice e promosso dalla sede di Cosenza dell’AiParC – Associazione Italiana Parchi Culturali, è stato presentato anche a Roma, a Palazzo Giustiniani, Sala Zuccari, il 16 Settembre 2022.

Dei Padri Costituenti, mi piace raccontare, in occasione di questo 25 Aprile, con ricordi personali, il calabrese Fausto Gullo, certamente uno degli uomini più importanti e rappresentativi del panorama politico e culturale della storia dell’Italia repubblicana. Grande figlio di Calabria, fu uomo politico eccezionale, dotato di grande sensibilità e cultura, aperto ai problemi e ai bisogni della sua gente e protagonista di primo piano della storia d’Italia, dagli anni del fascismo, di cui fu strenuo oppositore a quelli della nascita della Repubblica, della quale fu Padre Costituente, Ministro per ben due volte e Deputato dal 1948 al 1972, nelle fila del Partito comunista, fino a pochi anni prima della morte.

Nacque a Catanzaro, dove il padre, ingegnere, si era trasferito per ragioni di lavoro, il 1887. Ma ben presto, divenuto orfano, si trasferì a Cosenza, non mancando, però, di trascorrere lunghi periodi dell’anno nel paese d’origine della sua famiglia, Macchia di Spezzano piccolo, oggi Macchia di Casali del Manco. È qui che conobbe il terribile stato di miseria e soggezione in cui vivevano i contadini, per i cui diritti si batterà per tutta la vita. Grazie ai suoi decreti, viene ricordato come “Ministro dei contadini”. E’ qui che morì nel 1974, circondato dall’affetto della sua gente. La sua azione politica rilevante e incisiva appartiene ormai alla storia.

Quello che mi preme ricordare è la sua umanità, sarebbe meglio dire, la sua humanitas. A pochi, infatti, come a lui, si adatta meglio il termine latino, nell’accezione ciceroniana. Pochi, infatti, come lui, seppero realizzare il proprio miglioramento attraverso la cultura e l’applicazione di essa nella vita pratica e nell’azione politica. Un’altra definizione che, a parer mio, ben gli si addice è quella dell’orator di Quintiliano “vir bonus dicendi peritus”. “Bonus” lo fu senz’altro, provvisto com’era di tante virtù morali: onestà intellettuale, saggezza, altruismo, umiltà e “dicendi peritus” esperto del dire, affascinante oratore, dotato di eloquenza limpida e chiara, arricchita da ideali, valori, amore per la sua gente, quella dei paesi della “fascia silana” dove, ancora oggi, il suo nome suscita emozioni e ricordi di momenti edificanti. Forse il più bello è quello del suo ultimo comizio, con il quale si accomiatò dalla vita politica, ormai in età avanzata, ma ancora integro e forte nella mente e nel cuore.  “Vado via con le mani pulite” fu una delle sue affermazioni. Come risultò significativa quella frase, dopo Tangentopoli, il crollo della prima repubblica e la corruzione che, purtroppo, ancora dilaga in vasti settori della vita pubblica e amministrativa del nostro paese. Soprattutto della nostra Calabria.

Sono tanti i ricordi della sua vita che si affacciano alla mia memoria, quasi tutti legati a Macchia di Casali Del Manco, antico borgo dalla bellezza suggestiva, ricordi legati al tempo della mia infanzia e adolescenza. Sono ancora impressi dentro di me i suoni, i profumi antichi, i muri delle case e gli orti, i canti che accompagnavano le processioni della Madonna in festa, la laboriosità della gente, la quotidianità semplice, il lento, ma mai banale trascorrere del tempo, le voci gioiose dei bambini, che riempivano la piccola piazza e le vie del borgo.

Quei bambini sono diventati uomini e donne, che sentono fortemente l’amore, l’orgoglio e il senso di appartenenza a Macchia, custodendo, come in uno scrigno prezioso, quanto di bello e di importante hanno ricevuto in eredità: valori puri, preziose tradizioni, una innata propensione verso la cultura, una particolare spiritualità, che ha contagiato tutti coloro che hanno avuto la fortuna e il privilegio di nascere o vivere, se pure per un tempo breve, in questo luogo, che, ormai per molti è un luogo dell’anima. Proprio queste persone hanno fondato l’Associazione culturale   M.A.B. Macchia Antico Borgo, perché sono convinti che facendo conoscere la bellezza di questo borgo senza tempo, la sua storia, le sue tradizioni, la sua vita vera, autentica, i suoi valori condivisi, si possa offrire agli uomini di oggi, disorientati e in cerca di identità,  un’opportunità e un modello di esistenza altamente valida.

A questo mondo è appartenuto Fausto Gullo, che è vissuto in simbiosi con Macchia.

Il paese si illuminava, si risvegliava dal torpore dell’inverno, quando, all’inizio dell’estate, si aprivano le finestre di casa Gullo, per fare entrare la luce e l’aria in quelle stanze, che dovevano accogliere la famiglia per le ferie estive. Per noi bambini era la novità dell’estate, per la gente del paese un rito, che si ripeteva ogni anno. “Questa sera arriva Don Fausto” erano le parole che venivano ripetute di bocca in bocca. E i vecchi non si ritiravano nelle loro case, le donne rimanevano affacciate alle finestre, i bambini continuavano a far festa nella piccola piazza, finché, verso le “nove” di sera arrivava la macchina che conduceva Don Fausto e la moglie Donna Dora.

Subito una piccola folla di uomini si avvicinava a lui, che salutava tutti, sorridendo. Ricordo ancora l’impressione che suscitava in me bambina, la sua alta statura, la sua testa fiera, piegata leggermente da un lato, le sue mani tese a salutare.

Chiamava tutti per nome, uomini, donne, bambini del piccolo paese, riconoscendoli ad uno ad uno. Quello era il suo regno di cui non si sentiva affatto il re, ma un suddito fra tanti. Il portone dell’enorme casa rimaneva sempre aperto a tutti, la gente accorreva dai paesi vicini, a chiedere consigli, aiuto, o semplicemente a salutarlo. Egli accoglieva sempre tutti, per tutti aveva una parola affettuosa, a tutti dava un aiuto concreto.

Mi capitava spesso di andare in quella casa, dal momento che mio padre era per lui quasi un figlio, ed io amica d’infanzia delle sue nipoti. Lo trovavo sempre chino sulla scrivania, intento a leggere, a scrivere, in quello studio, dove il figlio Luigi avrebbe poi ambientato la famosa “Conversazione a Macchia”.

La sera, il salotto della sua casa si riempiva di tante persone: intellettuali, avvocati, uomini politici, ma anche di tanti paesani, semplici amici. Si conversava, si discuteva dei grandi temi, che caratterizzavano i dibattiti culturali e politici di quegli anni, in cui il mondo era diviso in due e, a meno che non si fosse destinati all’antinferno dantesco, bisognava stare da una parte o dall’altra. Ognuno esprimeva le ragioni della propria appartenenza, spiegandole a se stesso, prima che agli altri, cercando di fare chiarezza, di dare risposta a dubbi, qualora ce ne fossero stati, nel dialogo, nel confronto delle idee, nel rispetto e nella tolleranza delle opinioni altrui. Nel salotto di quel “palazzo” si dava un contributo alla storia, se è vero che essa si attua con le idee, prima che con le azioni, criticando, se è necessario, senza subire passivamente le decisioni altrui, vedendo in che direzione va il mondo e seguendola, se è quella giusta, altrimenti tornando al punto di partenza, se ci si accorge che occorre ricominciare. Ricominciare a sperare, per costruire, crescere, progredire! Si faceva quasi l’alba, le conversazioni si interrompevano, come per incanto la gente si dileguava, per tornare a riunirsi la volta successiva e continuare a discutere dal punto in cui il discorso era stato interrotto.

Così finiva l’estate, le finestre e il portone della grande casa si richiudevano, il silenzio ritornava nel piccolo paese. Era sorprendente l’alchimia, che si era venuta a creare, fra la vita di Fausto Gullo e quella del paese. Quando morì, fu come se morisse anche quella piccolissima parte di mondo, che nel giorno del suo funerale si riempì, per l’ultima volta, di gente, tanta, importante ed umile, che le stradine e la piccola piazza non potevano contenere tutta. Ora egli riposa nel cimitero di Spezzano Piccolo insieme a tanti che l’hanno amato, ma il suo ricordo è sempre vivo in tanti che lo amano ancora. (amv)

CATANZARO – Al Comune lo spettacolo “FM”

Domani sera, alle 21, al Teatro Comunale di Catanzaro, in scena FM, uno splendido testo di Franco Corapi, una magistrale messa in scena di Claudia Olivadese e Vincenzo Lazzaro con le voci in Modulazione di Frequenza di Sara Laura Raimondi Gianpaolo Negro.

Un urlo che si perde in un silenzio colpevole di una società che avrebbe potuto vedere e non lo ha fatto, un urlo che imbratta di sangue il bianco di una tela che avrebbe potuto ospitare un racconto sereno, un urlo che solamente chi non ha orecchie non vuole ascoltare, l’urlo di mille persone sopraffatte da una più che millenaria educazione dedita alla sottomissione, al bullismo della violenza di genere. Ecco cosa è FM non solo un acronimo che può ricordare l’universo femminile con accanto la parola Morte, non solo una modulazione di frequenza che disegna nell’etere canzoni d’amore eterno in cui il “non ci lasceremo mai” la fa da padrone.

“Finché morte non vi separi”, le “cinquecento catenelle d’oro” che hanno legato i cuori gli uni agli altri e che vengono spezzate nella maggior parte dei casi dal disagio dell’incomprensione che si sottomette nella facile via di fuga della sopraffazione violenta. Come sarebbe bello se la emme di FM fosse la emme di maschio e non di morte e la effe acronimo di felicità e non di fine. Come sarebbe bello leggere FM come Femmina e Maschio uniti in una pari dignità, crescita insieme, rispetto reciproco. Ma è la sfida che nasce sin dall’infanzia che diventa difficile da superare in un mondo in cui ci si dimentica di essere persone ancor prima di nascere uomini o donne.

Qual è quindi la colpa di chi uccide? Essere nato inutilmente in un corpo maschio? Qual è la colpa di chi muore? Essere nati inutilmente in un corpo femmina? Qual è la colpa di tutta la società che rimane lì a guardare dei corpi esanimi che hanno perso il valore unico di essere umano, di persone? Le responsabilità non sono mai da una parte sola, si dice, ma si dovrebbe anche capire una volta per tutte che le responsabilità sociali sono le più importanti, che si cresce nell’educazione del poco rispetto e del sopruso che si ha gli uni sugli altri; e dal sopruso all’abuso il passo è breve; e sarà sempre la parte più debole quale che essa sia ad avere la peggio.

FM è un racconto che rimane al di sopra di una mattanza quotidiana che percorre le vene dello spettatore colpevole e innocente allo stesso tempo, giudice e accusato testimone di un macrocosmo che vede sopraffatto e sopraffattore figli di un’educazione sbagliata che dobbiamo imparare a cambiare. (rcz)