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Dire denuncia iter pericolosi per la presa in carico delle donne vittima di violenza

Dire denuncia iter pericolosi per la presa in carico delle donne vittima di violenza

Il Coordinamento dei Centri Antiviolenza Dire – Donne in rete contro la violenza della Calabria denuncia iter pericolosi per la presa in carico delle donne vittima di violenza in una lunga nota.

Il Coordinamento dei centri antiviolenza della Calabria afferenti a Dire – Donne in rete contro la violenza – organizzazione nazionale che raccoglie oggi in Italia 106 Cav, 62 Cr, con 20.711 donne accolte e 2874 attiviste, «prende atto di una grave situazione: ci sono centri antiviolenza in Calabria – come l’associazione “Astarte” di Catanzaro – che stanno portando avanti progetti di accoglienza delle donne e minori vittime di violenza non conformi con le procedure nazionali e internazionali, quali la Conferenza Stato Regioni del 2022 e la Convenzione di Istanbul».

«La violenza di genere non deve essere affrontata come questione emergenziale – è scritto in una nota – bensì come fenomeno strutturale e culturale radicato nella società e ciò ha bisogno di progetti condivisi e di politiche integrate. È fondamentale evidenziare che esiste a livello nazionale una specificità della metodologia di accoglienza dei Centri Antiviolenza e delle Case Rifugio basata su un approccio e su una metodologia di genere, non giudicante e sulla co- costruzione di un percorso definito insieme alle stesse donne, applicando il principio di autodeterminazione (nel rispetto dei loro tempi) , della massima riservatezza e anonimato.
La “presa in carico” della donna e dei minori vittime di violenza deve essere gestita da donne qualificate e formate, presenti nei centri antiviolenza e nelle case rifugio, già autorizzati e riconosciuti a livello istituzionale, e non può essere demandata a soggetti terzi, quali le Famiglie affidatarie, e i Single forniti di sola buona volontà, come previsto dal progetto “Regalami un sorriso” comunicato dall’associazione Astarte di Catanzaro».

Continua la nota: «Le motivazioni alla base di tutto ciò sono molteplici: Sicurezza e protezione: Le donne vittime di violenza si trovano spesso in situazioni di grave pericolo. Solo chi è qualificato è in grado di predisporre la procedura della valutazione del rischio e di mettere in atto le misure necessarie per garantire la sicurezza e la protezione delle stesse donne e dei minori. Comprensione del trauma: La violenza di genere è un trauma complesso che ha effetti devastanti sulla salute e sulla vita di una donna. Solo chi è qualificato è in grado di comprendere la natura del trauma e di fornire un supporto adeguato e ciò al fine di elaborare il vissuto violento delle donne. Empatia e rispetto: Le donne vittime di violenza hanno bisogno di essere ascoltate e credute. Solo chi è qualificato è in grado di creare un ambiente sicuro e di fiducia attraverso la tecnica “dell’ascolto attivo”. Professionalità e competenza: La presa in carico delle donne e dei minori vittime di violenza di genere richiede formazione e competenze specifiche a livello psicologico, legale, medico e sociale.
Nessuno mette in dubbio la buona volontà di fare del bene e aiutare le donne vittime di violenza da parte di molti, ma bisogna distinguere il voler far del bene rispetto al saper far bene che presuppone formazione, competenze ed esperienza convalidata a livello nazionale».

«Si tratta perciò di predisporre percorsi che abbiano una coerenza con le norme esistenti, con le procedure accreditate e già definite per aiutare le donne e i minori vittime di violenza – prosegue la nota – Accogliere una donna implica dover avviare un “progetto” dedicato, individualizzato, di aiuto concreto, adeguatamente e costantemente supportato stante la loro vulnerabilità, al fine di recuperare la propria autostima, l’empowerment e la propria indipendenza; inoltre la presenza di minori, vittime di violenza assistita, richiede ulteriori azioni specifiche da dover mettereinatto. Non si può delegare l’accoglienza della donna e dei minori in fase emergenziale alla permanenza presso una famiglia affidataria priva delle competenze, ciò può solo portare che ritornino sui loro passi o che vengano ri-vittimizzate. Non si tratta di mettere in atto la semplice buona volontà o l’accoglienza, quanto piuttosto di operare efficacemente con gli strumenti predisposti e conosciuti dai centri antiviolenza e dalle case rifugio».

«Stupisce – conclude – che gli organismi donatori non abbiano effettuato una analisi approfondita, valutando la pertinenza del progetto rispetto a quelle che sono le norme nazionali in vigore. In ultimo da evidenziare è la situazione di grave rischio e pericolo per la donna e i minori con le possibili reiterazioni dei comportamenti violenti da parte degli autori maltrattanti che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza delle stesse ed estendersi e gravare sulla famiglia accogliente». (rcs)

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