di ERCOLE INCALZA – Senza dubbio il G7 di Villa San Giovanni in Calabria ha messo in evidenza un dato importante e sicuramente sconosciuto, a mio avviso, dalla maggior parte della intellighenzia economica del Paese; mi riferisco ai dati prodotti dall’ICE (Istituto Commercio Estero) e che riporto di nuovo sinteticamente di seguito: nel 2023 l’export italiano ha raggiunto la quota di 626 miliardi di euro, un dato che ha consentito al nostro Paese di salire al sesto posto dei principali esportatori mondiali e, sempre dal rapporto, emerge che l’export dei prodotti italiani è cresciuto del 30,4% rispetto al 2019 e del 60,5% in confronto al 2012.
Del rilevante valore di 626 miliardi di euro, valore che rappresenta la nostra forza produttiva e commerciale, quasi il 30% proviene dal Sud; su questo dato è opportuno fare una precisazione infatti il rapporto dell’Ice precisa: «La provenienza territoriale delle vendite sui mercati esteri si conferma fortemente concentrata nelle Regioni del Centro-nord, da cui proviene l’87,7% dell’export nazionale, mentre il Mezzogiorno ne attiva il 10,9%».
In realtà si dimentica che una rilevante quota di produzione agricola del Sud viene acquistata “alla pianta”, cioè alcuni mesi prima del raccolto operatori del Centro Nord scendono nel Mezzogiorno e acquistano vari prodotti che poi trasformano ed esportano; ma molta quantità di olio, di vino viene acquistata nel Mezzogiorno e messa sul mercato; analogo discorso va fatto per il comparto degli agrumi, per il comparto dei latticini. In realtà trattasi di prodotti il cui packaging viene fatto in aree del Nord e poi esportato. Ci sono vari Istituti di ricerca che hanno approfondito un simile fenomeno che, alla fine di questo mio articolo, ho definito una vera dicotomia tra la capacità di produrre e la capacità di mantenere il valore aggiunto della produzione nel territorio di origine. Lo scorso anno l’Istituto di ricerca della Coldiretti “Divulga” pubblicò un interessante lavoro sul danno causato ai processi logistici del settore agrario dall’assenza di una adeguata offerta infrastrutturale soprattutto nei collegamenti Sud – Nord e dimostrò che il danno era stato nel 2022 pari a 93 miliardi di euro. Spero che quanto prima la Coldiretti possa approfondire ulteriormente il reale contributo del Sud nell’export italiano, sono sicuro che la previsione del 30%, anche alla luce delle quantità movimentate, sarà ampiamente confermata.
Ma il Mezzogiorno oltre alla rilevanza dell’attività produttiva contiene delle condizioni legate alla componente logistica che superano la dimensione nazionale e diventano riferimento portante dell’intero impianto mediterraneo. Vengono in realtà meno le logiche localistiche delle singole realtà regionali e, nel caso specifico, diventano riferimento portante, ad esempio, i tre ambiti territoriali della Campania, della Basilicata e della Calabria.
Ma tutto questo stranamente non è congeniale con quello indicatore che vede il Pil pro capite medio delle Regioni del Sud fermo ad una soglia di 21.000 euro contro i 36.000 del Nord con punte addirittura superiori ai 42.000 euro.
Ed allora sorge spontaneo un interrogativo, o meglio una serie di interrogativi: Ma la produzione del Mezzogiorno, soprattutto quell’agroalimentare è gestita da società del Sud o esistono realtà produttive del Nord o, addirittura di altri Paesi che svolgono tali attività e assicurano non un PIL per le realtà locali ma un Pel (Prodotto Esterno Lordo)? Questo approfondimento, insisto, forse farebbe bene a farlo la Coldiretti perché deve essere un lavoro capillare; Ma la logistica delle merci prodotte al Sud è assicurata da operatori del Mezzogiorno o anche in questo caso sono determinanti le società del Nord del Paese o della Unione Europea? Esistono in questo caso dati che vanno solo aggiornati ma che portano già ad una prima conclusione: l’intero Mezzogiorno, comprensivo anche delle isole, movimenta annualmente circa 160 milioni di tonnellate; ogni tonnellata movimentata produce un valore aggiunto per le attività logistiche di circa 12 euro, cioè circa 2 miliardi di euro; di tale valore nel Sud rimane appena il 7%.
Questi due indicatori trovano anche una chiara e motivata presa d’atto: nel Sud, dei quattro impianti portuali transhipment di Cagliari, Augusta, Gioia Tauro e Taranto, svolge una attività adeguata e rilevante solo Gioia Tauro; nel Nord ci sono 8 impianti portuali attrezzati per il transhipment e per attività terminali non di transhipment; nel Sud esiste solo uno impianto interportuale organico quello di Nola Marcianise, nel Nord ne esistono, ormai adeguatamente strutturati, circa 9 ed inoltre, sempre nel Sud, pur esistendo grandi aree della produzione non esistono adeguate aree mercato.
Il sistema finanziario non agevola, o meglio, non supporta iniziative portate avanti da realtà produttive del Sud e non esistono forme di Partenariato Pubblico Privato (PPP) capaci di costruire le condizioni per creare autonomie gestionali locali. Le logiche con cui vengono definiti gli incentivi legati al Fondo di Sviluppo e Coesione vanno integralmente rivisti perché in realtà dopo oltre venti anni non hanno modificato le condizioni che hanno mantenuto inalterata la presenza delle otto Regioni del Sud nell’Obiettivo Uno, cioè tutte hanno un PIL pro capite inferiore al 75% della media europea.
Questo paradosso spero emerga in un incontro internazionale come il G7 di Villa San Giovanni ed è bene che il Governo italiano comprenda che un simile paradosso non può rimanere a lungo un semplice dato statistico, una semplice conferma dell’assenza di un processo programmatico capace di ribaltare, una volta per tutte, una consolidata volontà a mantenere inalterata una dicotomia tra capacità di produrre e capacità di trasferire i vantaggi ottenuti nelle realtà territoriali generatori dei processi produttivi, logistici e commerciali.
In fondo basterebbe rispettare le regole del mercato, basterebbe rispettare le regole di una sana logistica per incrementare il dato sconcertante del PIL pro capite dell’intero Mezzogiorno. (ei)