È NECESSARIO REINVENTARE E RIFORMARE
OFFERTA PORTUALE: CREARE ORGANISMO

di ERCOLE INCALZA – Nella prima metà del 2024 i venti maggiori porti commerciali del mondo hanno movimentato circa 195 milioni di Teu (twenty-foot equivalent unit). Shanghai conserva il primato con 22,5 milioni di Teu, seguono Singapore, Ningbo Zhoushan e Shenzhen mentre Rotterdam con 7,2 milioni di Teu resta il più grande d’Europa. Il porto di Gioia Tauro nel 2024 ha movimentato circa 4 milioni di Teu.

Gli altri porti italiani portano questa soglia a circa 10 milioni di Teu. Questa asettica analisi che mette in evidenza una limitata incisività del nostro paese nei macro dati che caratterizzano la movimentazione mondiale dei container viene subito superata non appena si prende in considerazione la Mediterranean Shipping Company (MSC); non appena non si analizzano i dati di questa compagnia che è, a tutti gli effetti, la più grande compagnia di navigazione container al mondo, un colosso che solca i mari con una flotta imponente e un’influenza che si estende ben oltre i porti.

Il gestore di una simile compagnia è Gianluigi Aponte. Sotto la guida di Aponte, MSC diventa un gigante dello shipping. Oggi, nel 2025, la compagnia possiede e gestisce oltre 800 portacontainer, trasportando annualmente una media di 22,5 milioni di container. Un vero e proprio impero marittimo con una presenza in oltre 150 paesi e un ruolo cruciale nel commercio internazionale. Questo successo straordinario ha portato Gianluigi Aponte a diventare miliardario, con un patrimonio stimato da Forbes nel 2024 in 33,1 miliardi di dollari, collocandolo tra le persone più ricche del mondo e al secondo posto in Svizzera, paese dove risiede, precisamente a Ginevra.

Ho voluto riportare nelle linee generali cosa siano i dati legati alla movimentazione dei container e la dimensione economica di un soggetto che, a scala mondiale, riveste un ruolo chiave in un simile teatro della logistica mondiale solo per denunciare un rischio reale: la dimensione mondiale è talmente interessante ed è così forte l’attrazione delle convenienze logistiche offerte ad un grande operatore come Aponte da parte di altre portualità mondiali che la nostra portualità, specialmente quella caratterizzata da una offerta tipicamente di transhipment, rischia di essere sempre più marginale e rimanere caratterizzata sempre e solo da un dato davvero limitato, quello che da decenni caratterizza la nostra offerta portuale: 10 – 11 milioni di Teu.

Questo quadro di potenzialità però si scontra con un dato che giorno dopo giorno penso preoccupi sempre di più: la organizzazione della nostra offerta portuale; una articolazione fatta di realtà che sopravvivono solo nella ricerca di una conferma dei dati della movimentazione ormai consolidati da sempre.

Ed è arrivato anche il momento per ribadire ancora una volta che più di una riforma sia necessario ricercare una vera reinvenzione della nostra offerta portuale. Ormai da diverso tempo  elenco possibili formule di riforma organica della portualità e credo sia arrivato il momento di abbandonare ipotesi riformatrici che prospettino nuovi assetti geografici, nuovi assetti gestionali, forse è arrivato il momento per istituire da subito un vero organismo con delega a produrre, entro 90 giorni, un processo riformatore, Un simile organismo potrebbe istituirlo il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti o le Commissioni competenti della Camera e del Senato.

Penso sia anche necessario considerare i cambiamenti che nell’arco di un quinquennio caratterizzeranno le movimentazioni nel bacino del Mediterraneo, sì di quelle scelte portate avanti da quattro Paesi come l’India, l’Iraq, la Turchia ed Israele che attraverso la realizzazione di nuovi corridoi terrestri cambieranno la stessa dimensione dell’intero bacino. Mi riferisco, in particolare, ai progetti che ho già anticipato e che riporto di seguito: Corridoio Bassora – Bagdad – Mossul – Ankara – asse verso la Unione Europea attraverso il Corridoio 10 delle Reti TEN – T o l’asse Ankara – porti Altas Ambarli o Trebisonda;

Corridoio India – Middle East – Europe Economic Corridor (IMEC) (Mumbai – Riyadh – Haifa – Pireo).

Due Corridoi marittimo – terrestri che ridimensioneranno, in modo sostanziale, il transito attraverso il Canale di Suez ed esalteranno al massimo la portualità di Haifa in Israele e di Altas Ambarli o Trebisonda (Trabzon) in Turchia.

Né possiamo sottovalutare, come ho ricordato pochi mesi fa, l’intervento che Erdogan sta portando avanti in Turchia con la realizzazione del Canale Istanbul parallelo al Bosforo che rende fluido e sistematico il transito delle navi dal Mar Nero al Mar Mediterraneo.

I quattro Paesi prima richiamati portano avanti scelte e decisioni che, a mio avviso, sconvolgono il ruolo e le funzioni del bacino del Mediterraneo, sconvolgono le linee strategiche che i vari Paesi che si affacciano su tale bacino ed in modo particolare il nostro Paese, avevano sempre fatto.

Ultimamente ho anche ricordato che sia la Unione Europea, sia il nostro Paese, sia alcuni Paesi che si affacciano sul Mediterraneo non hanno ancora capito che questo processo incrina in modo sostanziale le economie sia dei Paesi della Unione Europea che di altri Paesi come in particolare l’Egitto che vede ormai la primaria fonte di introiti prodotta dal Canale di Suez altamente ridimensionata o come la stessa Libia che annulla del tutto le prospettive di crescita dei porti di Tobruk e di Bengasi. In realtà si avvia un ridisegno logistico dell’intera offerta infrastrutturale della Unione Europea e diventano riferimenti chiave i porti del Nord come Le Havre, come Ostenda, come Amburgo, come Rotterdam, come i porti di Danzica, ecc.

Come ho ribadito pochi mesi fa, sarebbe opportuno chiedere subito un inserimento, nella società che gestisce attualmente i tre macro progetti prima prospettati, dei nostri porti. Sicuramente per dare vita ad una simile ipotesi sarà necessario trasformare le nostre Autorità portuali in Società per Azioni; solo in tal modo, infatti, sarà possibile che porti transhipment come Cagliari, Gioia Tauro, Augusta e Taranto possano non solo gestire i flussi provenienti dai tre Corridoi provenienti dall’Est asiatico e dal Mar Nero ma evitare che nuove realtà portuali come quelle di  Igoumenitsa, di Durazzo e di Bar diventino gli Hub forti, gli unici Hub dominanti nella gestione delle varie provenienze. (ei)

OCCHIUTO IN TV, C’È RISCHIO DI AUTOGOL
QUANDO IL PROCESSO SI FA SOLO SUI MEDIA

di FRANCESCO RAO – C’è una strana regola non scritta, radicata nei comportamenti collettivi, che trasforma l’opinione pubblica in un’aula di tribunale parallela. Un atteggiamento, spesso amplificato dai media, che spinge intere comunità ad assaporare un senso di appagamento istintivo, giustizialista, quasi catartico: l’individuazione del colpevole prima e la sua condanna morale poi.

È un rito antico quanto il mondo, aggiornato alla velocità dei social attraverso i like e dei titoli della stampa urlati ai quattro venti. Ma quanto è legittimo, dal punto di vista giuridico e sociologico, il giudizio mediatico che si abbatte su una persona prima ancora che la giustizia faccia il suo corso?

La storia è piena di esempi. Il caso più emblematico – e tragico – è quello della crocifissione di Cristo: una condanna popolare, accelerata, emotiva, alimentata dal bisogno di placare l’ira di un popolo più che dalla ricerca della verità. Quella stessa logica – una forma primitiva di panoptismo emotivo, per usare un’espressione cara alla sociologia della comunicazione – torna ogni volta che una figura pubblica è colpita da un avviso di garanzia.

Tutto ciò è già accaduto in Calabria ed ha riguardato altri Presidenti di Regione.

La notizia dell’indagine che ha coinvolto il Presidente della Regione, on. Roberto Occhiuto, ha innescato – come prevedibile – una corsa alla semplificazione. Ma la Costituzione italiana, frutto della visione lungimirante dei padri costituenti, non ammette la gogna mediatica come strumento di giustizia. La colpevolezza, ricordo a me stesso, in uno Stato di diritto, è sancita solo da una sentenza definitiva, in terzo grado, passata in giudicato. Sino ad allora, la presunzione di non colpevolezza è un diritto personale intoccabile.

Ed è proprio qui che entra in gioco la sociologia del diritto. Come sottolineava Niklas Luhmann, il diritto è un sistema autonomo che funziona secondo proprie logiche, distinte da quelle dell’opinione pubblica o dei media. Il diritto non è “giustizia emozionale”, ma struttura razionale volta a garantire la coesione sociale attraverso la previsione astratta e generale delle norme. Una garanzia per tutti, anche – e soprattutto – per coloro che rivestono ruoli pubblici. L’avviso di garanzia non è una condanna: è uno strumento di tutela dell’indagato, che ha il diritto di conoscere le contestazioni a suo carico e difendersi.

Tuttavia, la sociologia della comunicazione ci ricorda che il diritto rischia di essere sovrastato dal “tribunale dell’opinione pubblica”, alimentato dai media, dai social network, dalla logica del tempo reale. La velocità con cui una notizia si diffonde, unita al bisogno collettivo di una narrazione forte, spesso costruisce storie a tesi: il potente sotto accusa diventa, in automatico, il simbolo del “male da estirpare”.

È il fascino eterno – e pericoloso – della tragedia greca. In essa, il destino dell’eroe non si gioca nei tribunali, ma nella piazza, tra passioni e premonizioni. Così oggi, nell’Italia mediterranea, si assiste a una trasfigurazione moderna di quell’antica ritualità: il sospetto diventa colpa, l’avviso di garanzia diventa sentenza, e il dibattito pubblico diventa dramma collettivo.

Ma le istituzioni devono restare salde. E chi, come il Presidente Occhiuto, ha scelto di esporsi pubblicamente – come ha fatto durante la trasmissione condotta da Nicola Porro – dichiarando la piena disponibilità a chiarire la propria posizione e a continuare il proprio lavoro per la Calabria, merita, oggi più che mai, di essere giudicato con gli strumenti della democrazia, non della vendetta sociale.

La sfida, per tutti, è restituire alla giustizia il suo tempo, al diritto il suo linguaggio e alla comunicazione il suo dovere: informare senza infiammare, educare senza erigere forche mediatiche. Solo così, potremo davvero parlare di uno Stato civile e di una società matura.

[Francesco Rao è docente a contratto Università “Tor Vergata” – Roma]

COESIONE, L’ITALIA È IN FORTE RITARDO
LA MID-TERM REVIEW SALVERÀ I FONDI?

«L’Italia è in forte ritardo sull’attuazione dei fondi Fesr 2021-2027». È quanto ha denunciato la Svimez nell’ultimo numero di Informazioni Svimez sullo stato di attuazione dei programmi italiani finanziati dal Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) nel periodo 2021-2027, e sulle opportunità e criticità connesse alla Proposta di revisione della Commissione europea.

Il 1° aprile 2025 la Commissione europea ha adottato la Comunicazione “Una politica di coesione modernizzata – Riesame intermedio”, accompagnata da una Proposta di modifica dei Regolamenti relativi al Fondo europeo per lo sviluppo regionale (Fesr) e al Fondo per una transizione giusta (Jtf) per il periodo di programmazione 2021-2027.

«La Comunicazione – ha spiegato la Svimez – si concentra sulle considerazioni politiche e gli obiettivi di policy sottostanti le misure prospettate, mentre la Proposta contiene le puntuali modifiche emendative da apportare ai vigenti Regolamenti. In entrambi i documenti sono illustrate e regolamentate specifiche misure per favorire cambiamenti strategici negli indirizzi e nelle modalità di funzionamento dell’attuale ciclo di programmazione delle politiche di coesione, da implementare nel contesto della procedura di “Riesame intermedio” (Mid Term Review) prevista dall’articolo 18 del regolamento Ue 2021/1060. La Commissione non si limita a intervenire sugli aspetti legislativi, ma propone valutazioni, orientamenti e vere e proprie esortazioni agli Stati membri e alle regioni, con ricadute potenzialmente significative sulle prospettive future di queste politiche».

«Il punto di partenza della Proposta – si legge – è la necessità che l’Europa intervenga in maniera urgente e decisa per mobilitare nuove risorse e iniziative per affrontare efficacemente la serie di gravi eventi economici e geopolitici dell’ultimo triennio. Eventi che hanno vorticosamente portato a rivalutare le principali priorità politiche dell’Unione e a ripensare le sfide delle transizioni verde, sociale e tecnologica, secondo un approccio che riconosca il ruolo fondamentale dell’autonomia strategica e delle capacità di organizzazione e resilienza dell’Ue. Dall’urgenza di queste nuove sfide deriva la necessità di reperire risorse dalle rubriche del bilancio 2021-2027 e dai fondi europei esistenti. La Commissione evidenzia inoltre che il finanziamento delle nuove priorità ed emergenze sorte negli ultimi anni indirizzerà anche il prossimo Quadro finanziario pluriennale (Qfp)».

La Commissione individua diverse ragioni per cui le politiche di coesione si prestano in modo particolarmente efficace a contribuire subito, con le loro risorse, al finanziamento di interventi allineati alle nuove priorità politiche dell’Unione e la proposta prevede di utilizzare il “Riesame intermedio” dei programmi 2021-2027 per operare, in maniera concomitante e coordinata per tutti gli Stati membri, la riprogrammazione delle risorse della coesione coerente con le nuove priorità individuate dalla Commissione.

Il Riesame intermedio è attualmente regolato dall’articolo 18 del regolamento Ue 2021/1060, secondo cui il 50% del contributo europeo per gli anni 2026 e 2027 (importo di flessibilità) relativo ai programmi di ciascun Stato membro possa essere definitivamente assegnato solo dopo l’adozione, in seguito al Riesame intermedio, di una apposita decisione da parte della Commissione europea. In particolare, entro il 31 marzo 2025, lo Stato membro presenta alla Commissione, per ciascun programma, una valutazione relativa ai risultati del riesame.

In altri termini, almeno da un punto di vista formale, le modifiche ai programmi saranno effettuate “su base volontaristica”, tenuto conto che la regolazione del Riesame intermedio non impone di proporre variazioni ai programmi, nei casi in cui lo Stato membro non le ritenga necessarie. Permangono, tuttavia, alcuni aspetti più “di sostanza” che verranno approfonditi nel proseguo che rendono tale volontarietà fortemente condizionata.

«La Proposta della Commissione – scrive la Svimez – contiene numerose opportunità per i programmi italiani finanziati dal Fesr ma, allo stesso tempo, impone la necessità di attente riflessioni e valutazioni. I programmi Fesr italiani presentano difatti non poche difficoltà attuative che ne hanno sinora rallentato l’individuazione e la realizzazione degli interventi. La situazione aggiornata al 29 maggio 2025 del monitoraggio della spesa delle politiche di coesione 2021-2027 evidenzia complessivamente bassi livelli di spesa dei programmi a livello europeo. Per l’Italia, tra le più lente in Europa, la percentuale di spesa delle risorse europee Fesr è pari al 7,5% (circa 3 miliardi di pagamenti su un valore complessivo di circa 42 miliardi). Da tali dati si evince che, anche a prescindere da qualsiasi Proposta di revisione dei regolamenti da parte della Commissione, l’Italia si sarebbe presentata in una situazione di oggettivo disagio e debolezza alla prova del Riesame intermedio. Riesame che difficilmente si sarebbe concluso con l’approvazione definitiva dei programmi da parte della Commissione in assenza di modifiche e riprogrammazioni che ne avessero rafforzato il contenuto. In quest’ottica, e tenuto conto delle analoghe difficoltà di implementazione affrontate nei precedenti cicli di programmazione, gli incentivi proposti dalla Commissione per reindirizzare le risorse dei programmi verso i nuovi ambiti strategici potrebbero rappresentare, da più punti di vista, una potenziale opportunità per il nostro Paese. Il tasso di cofinanziamento europeo al 100% sugli interventi realizzati all’interno dei nuovi obiettivi specifici consentirebbe di ridurre la dimensione finanziaria delle spese da realizzare e rendicontare, mentre la possibilità di avere un anno aggiuntivo per concludere la realizzazione degli interventi, riprogrammando almeno il 15% delle risorse a favore dei nuovi obiettivi, rappresenta un’occasione da non perdere per tutti i programmi nazionali e regionali.

«Per quel che concerne i potenziali ambiti di riprogrammazione – si legge – allo stato attuale, già circa tre miliardi di euro sono stati messi a disposizione delle tecnologie Step dai programmi nazionali e regionali del Fesr 2021-2027. Su questo punto andrebbe proposto un emendamento alla proposta che tenga conto di questa rimodulazione già effettuata dalle Regioni del Mezzogiorno nell’ambito del computo del 15% di riprogrammazione necessario per avere l’anno aggiuntivo di rendicontazione. Al di là delle tecnologie Step, sussiste un’ulteriore motivazione per la quale la riprogrammazione delle risorse potrebbe contribuire a migliorare l’avanzamento e l’efficacia degli attuali programmi Fesr: la possibilità di far confluire al loro interno interventi coerenti con i nuovi obiettivi strategici individuati dalla Commissione finanziati dalle risorse nazionali del Fsc e della programmazione operativa complementare (Poc) 2014-2020».

All’interno di questi due strumenti programmatori sono difatti già finanziati numerosi interventi riconducibili alle infrastrutture per la gestione dell’acqua (inclusa la prevenzione del dissesto idrogeologico), all’housing sociale e alle politiche abitative, alle infrastrutture per la transizione energetica. Potrebbe pertanto essere realizzata una coordinata azione di ricognizione, tesa a individuare quegli interventi che presentino tempi di realizzazione in linea con la scadenza del 2030 e coerenza con le regole e i requisiti europei per l’ammissibilità e la rendicontabilità delle spese (a partire dal principio del DNSH1). Le operazioni di trasferimento di interventi da fondi nazionali a fondi europei andrebbero in ogni caso realizzate con grande attenzione per evitare che facciano venire meno il carattere di addizionalità delle risorse per la coesione. A questo proposito, la Svimez ha segnalato l’opportunità di dare corretta attuazione all’articolo 51 bis del decreto-legge n. 13 del 2023, in base alla quale i rimborsi riconosciuti dalla Commissione europea a fronte di spese sostenute con risorse nazionali e rendicontate nell’ambito dei programmi cofinanziati dai fondi europei per la coesione devono essere trasferite sul conto corrente di tesoreria del Fondo di rotazione per l’attuazione delle politiche. Si tratta di un meccanismo che assicura che i rimborsi europei derivanti da progetti retrospettivi (cioè investimenti originariamente coperti con risorse nazionali, ma che successivamente sono inseriti all’interno un programma Fesr essere rendicontati e finanziati con le risorse europee) siano riutilizzati per finalità proprie della coesione. Ai fini di consentire un’effettiva addizionalità, andrebbe poi assolutamente risolto, come proposto dalla Svimez, il problema della “doppia copertura” degli interventi che si spostano dal Fsc ai programmi europei. In queste circostanze, difatti, le amministrazioni titolari dei programmi spesso non procedono, nel momento in cui l’intervento transita tra i progetti selezionati e rendicontati sul Fesr, a cancellare l’impegno contabile sul Fsc. In definitiva, il complesso processo di riprogrammazione che tutti i programmi dovranno affrontare nell’ambito della nuova procedura di Riesame intermedio rende opportuno rilanciare l’attività di coordinamento centralizzato a cui è chiamata la Cabina di regia del Fondo per lo sviluppo e la coesione istituita dal decreto-legge n. 60 del 2024. Per quanto incentrata sull’urgenza di reindirizzare maggiori risorse verso i nuovi obiettivi strategici dell’Europa, la Proposta contiene non poche indicazioni su quelle che potrebbero essere le tendenze e le prospettive delle politiche di coesione dopo il 2027. La prima indicazione riguarda la quota di risorse che verrà assegnata alla coesione nel futuro Qfp 2028-2034. Su questo punto la Comunicazione è categorica: “nel prossimo Qfp il mantenimento dello status quo non è un’opzione percorribile”. Maggiori risorse verranno riservate alle rubriche che coprono le nuove priorità strategiche dell’Europa e la coesione vedrà con ogni probabilità ridursi le proprie disponibilità. Vi sarà sicuramente un serrato confronto su questo punto, ma l’attuale contesto economico e geopolitico a livello mondiale non giocano a favore della coesione. La seconda indicazione deriva dalla sistematica centralizzazione che caratterizza i) l’individuazione delle priorità strategiche su cui concentrare le risorse; ii) gli strumenti, gli interventi e gli investimenti con cui perseguire queste priorità; iii) i beneficiari delle risorse. Questa tendenza alla centralizzazione sottende a un approccio per molti versi antitetico al modello place-based, che sino ad ora ha riconosciuto un ruolo strategico agli attori presenti sui territori, e in particolare alle regioni, nell’individuare i fabbisogni e le priorità nell’utilizzo delle risorse per la coesione. La sfida della nuova politica di coesione sarà quella di rafforzare la complementarità degli obiettivi di rafforzamento della competitività europea con le finalità di riequilibrio nelle opportunità di sviluppo dei territori meno avanzati. Non va infine trascurata l’indicazione della Comunicazione che invita gli Stati membri a facilitare l’uso di modalità di f inanziamento degli interventi basate sulla performance. Si tratta di una indicazione coerente con analoghe indicazioni contenute sia nel rapporto dell’High-level group on the future of cohesion del febbraio 2024 che nelle Conclusioni del Consiglio europeo sul futuro della politica di coesione del 30 novembre 2023. In questo quadro, l’esigenza di “rafforzare l’approccio territoriale degli investimenti”, prevedendo al contempo un “approccio maggiormente basato sui risultati”, richiederebbe un coinvolgimento diretto delle amministrazioni locali, a partire dai Comuni, nella governance della coesione, non disperdendo lo sforzo progettuale e attuativo determinato dall’esperienza del Pnrr. L’insieme di queste indicazioni, sulle quali la Svimez ha già espresso le proprie valutazioni, lasciano intendere come l’orientamento delle istituzioni europee sul futuro della coesione stia delineando una politica con meno dotazioni finanziarie, più agile nel funzionamento e nella governance, più mirata e dotata di priorità chiare strettamente legate a quelle strategiche dell’Unione e con un forte orientamento degli investimenti verso i risultati.

Si tratterebbe di cambiamenti rilevanti, con potenziali vantaggi in termini di efficienza, ma con anche rilevanti rischi di marginalizzazione delle politiche per la riduzione dei divari economici, sociali e territoriali nel quadro complessivo delle politiche europee. Di qui l’importanza, secondo la Svimez, di avviare da subito una riflessione anche a livello nazionale su quale posizione il nostro Paese dovrà sostenere nel momento in cui le proposte di regolazione e funzionamento del futuro ciclo di programmazione post 2027 diventeranno oggetto di negoziato a livello europeo.

È TEMPO DI RIBALTARE GLI STEREOTIPI E
DARE A CALABRIA L’IMMAGINE CHE MERITA

di PAOLA LA SALVIA – La Calabria, simbolo del fascino e dell’antica cultura del Mezzogiorno, si distingue per un patrimonio storico, archeologico e tradizionale di inestimabile valore. Questa Regione è un caleidoscopio identitario, sapientemente forgiato nel tempo dall’incontro e dall’influenza di varie civiltà che hanno lasciato sul territorio un segno indelebile, quali quella ellenica, quella romana e quella normanna.

La stratificazione di lingue, costumi popolari e pratiche religiose ha creato un retaggio unico, ove la tradizione convive in perfetta armonia con la modernità del presente. Questo connubio si esprime nelle feste popolari, dove ancora sopravvivono antichi rituali, nell’artigianato di ceramiche, tessuti e oggetti d’arte creati secondo tradizioni secolari, e in una cucina che intreccia sapori ancestrali con tocchi di modernità. Queste espressioni culturali sono il riflesso di una società che, pur avendo vissuto momenti difficili, ha saputo rinnovarsi e investire nel proprio futuro.

Purtroppo, questa ricchezza viene troppo spesso ridotta genericamente a uno stereotipo: quello di essere prevalentemente “terra di mafia”. È innegabile come una delle organizzazioni mafiose più potenti al mondo, la ‘Ndrangheta, abbia trovato radici proprio in questo territorio, ma questa organizzazione criminale, oggi, è presente in Calabria come nel resto d’Italia (oltre che in molte parti del mondo) rappresentando, pertanto, un problema globale. Perciò la presenza di questo fenomeno criminale non può e non deve oscurare il forte senso di integrità, onestà e impegno civico che caratterizza la maggioranza dei calabresi e oscurare le tante realtà virtuose presenti sul territorio, come imprenditori onesti, associazioni culturali vivaci, giovani innovatori e cittadini che si impegnano per il riscatto sociale della loro comunità.

In un contesto in cui il timore di infiltrazioni mafiose e l’instabilità giuridica compromettono l’immagine di interi territori, gli investitori nazionali ed esteri tendono a concentrare il loro interesse su aree percepite come maggiormente stabili e sicure, e l’assenza di investimenti incide negativamente anche sul turismo, una delle potenziali risorse economiche più importanti della Regione.

Il risultato è un circolo vizioso che crea ripercussioni economiche di notevole rilievo, ove la mancanza di investimenti si traduce in stagnazione economica, riduzioni nelle opportunità lavorative e un progressivo indebolimento del tessuto sociale locale. Infine, il peso degli stereotipi influisce negativamente anche sull’identità della comunità, specialmente quella dei più giovani, che spesso si sentono esclusi e rassegnati a fronte di questa visione pregiudizievole.

È manifesto come in un territorio l’assenza di capitali e di fiducia nel sistema economico e istituzionale non solo rallenta la crescita, ma alimenta anche una spirale migratoria soprattutto tra i giovani che, alla ricerca di un futuro migliore, decidono di abbandonare quelle aree. La fuga di capitale umano impoverisce ulteriormente i luoghi diminuendo le possibilità di sviluppo innovativo e consolidando un clima di sfiducia che si ripercuote su ogni aspetto della vita comunitaria.

Ed è proprio attraverso tali dinamiche che la mafia consolida il proprio potere. È notorio, infatti, come la criminalità organizzata trovi terreno fertile, che le consente di espandersi e di rafforzarsi, proprio in contesti segnati da povertà e arretratezza sociale ed economica.

Per una efficace attività di prevenzione e di contrasto contro la criminalità organizzata lo Stato deve, pertanto, intensificare la propria presenza e operare in maniera più efficace, soprattutto nei territori in cui le organizzazioni criminali cercano addirittura di sostituirsi alle Istituzioni. Di conseguenza, risulta fondamentale migliorare i servizi offerti, potenziare le reti di assistenza sociale e incentivare l’occupazione. Garantire un lavoro dignitoso rappresenta, infatti, uno strumento potente contro il crimine organizzato.

Recentemente in Calabria si è verificato l’ennesimo scioglimento di un Consiglio Comunale e questo accadimento è stato riportato da alcuni media come un fatto che prova come non si riesca ad allontanare la mafia da questa terra. Su tale vicenda è doverosa una riflessione: perché per azioni di singoli bisogna coinvolgere e infangare interi territori? A chi giova tutto questo? Questa narrazione distorta offusca il vero volto di una Regione che, come ogni altra parte d’Italia, ha le sue problematicità ma anche innumerevoli punti di forza.

La vita in Calabria è ben diversa da quella che viene descritta da qualche racconto e i calabresi non ci stanno a vedere la loro identità ricondotta a un singolo stereotipo, che tende a generalizzare e stigmatizzare un’intera comunità sulla base di azioni criminali commessi da una minoranza.

La Calabria è molto più della mafia: la realtà quotidiana, infatti, racconta una storia molto diversa, quella fatta da una comunità che, nonostante le difficoltà economiche e sociali, si contraddistingue per il lavoro onesto, la solidarietà e l’orgoglio per le proprie radici.

In Calabria vi sono molte persone che ogni giorno si impegnano per cercare di creare un tessuto sociale sano e dinamico, lavorando onestamente nei campi, nelle piccole imprese, nel commercio e nel settore pubblico. Le storie di imprenditori validi e onesti e di iniziative di sviluppo economico sono la prova tangibile di una Regione in continua evoluzione e di una popolazione che lotta quotidianamente per il proprio riscatto sociale e quello dell’intero territorio.

In ogni piccolo paese, in ogni città esistono realtà imprenditoriali che scommettono sul territorio, riscoprendo le tradizioni e integrandole con tecnologie moderne e nuove forme di economia. Progetti di valorizzazione del patrimonio culturale e naturalistico, come quelli che hanno portato alla creazione di parchi nazionali e iniziative turistiche, sono il segno tangibile di una terra che non si arrende e che guarda avanti con fiducia.

In Calabria sono numerosi gli esempi di rinascita e di trasformazione di beni e territori che sono stati affrancati alla mafia. Nella Regione, infatti, sono stati realizzati una serie di progetti che hanno saputo trasformare beni confiscati alla criminalità organizzata in strumenti per il bene comune, contribuendo a risollevare territori a lungo oppressi dalla presenza mafiosa.

Un esempio emblematico è rappresentato dal Parco Nazionale dell’Aspromonte, un’area che in passato, per quasi un secolo, è stata tristemente famosa perché teatro di reati efferati, intimidazioni spietate e pratiche mafiose, tra cui i famigerati “sequestri camminatori”.

In particolare, tra gli anni ’70 e ’90 la ‘ndrangheta utilizzò il territorio aspromontano come propria roccaforte non solo per compiere i sequestri di persona a scopo di estorsione (694 sequestri in circa 20 anni) ma anche per perpetrare una strategia del terrore. Tali delitti furono commessi allo scopo di ottenere consistenti guadagni e, allo stesso modo, per affermare il proprio potere e il controllo sul territorio. La stagione dei rapimenti di persone servì ad alimentare in maniera consistente le casse delle ‘ndrine che poterono, successivamente, investire le ingenti somme nel mercato del narcotraffico. Negli anni ’90, infatti, dall’industria dei sequestri di persona la ‘Ndrangheta passò a quella più redditizia del traffico internazionale di droga.

Con il passare del tempo, grazie all’impegno delle Istituzioni, delle Forze dell’Ordine e alla crescente mobilitazione civile, quell’area è stata riqualificata e affrancata alla mafia. La trasformazione del territorio aspromontano, culminata nella creazione del Parco Nazionale, ha rappresentato non solo un processo di riqualificazione ambientale e culturale, ma anche un percorso di riconciliazione con un passato doloroso. La memoria di questi eventi, pur restando una ferita aperta, è stata trasformata in un’opportunità per riscoprire e valorizzare l’identità locale, rigenerando il territorio e restituendolo alla collettività.

Il percorso di riqualificazione ha inoltre stimolato una sinergia tra enti pubblici, privati e cittadini, che con coraggio hanno eradicato la paura e l’omertà da quei sentieri della Montagna, creando un ambiente in cui la partecipazione attiva e il dialogo costruttivo hanno contribuito a dare nuova linfa al territorio.

Oggi l’Aspromonte è un Geosito riconosciuto dall’Unesco e non è solo una risorsa naturalistica e culturale di fama internazionale, ma anche un simbolo di resilienza e di capacità di rinascita, un modello virtuoso di come un’area, un tempo segnata da episodi drammatici e delittuosi, possa rinnovarsi e diventare una risorsa fondamentale per l’intera collettività.

In diverse città della Calabria, come nel resto del Sud d’Italia, alcuni immobili confiscati alla mafia sono stati riconvertiti in centri culturali, musei della legalità e spazi di aggregazione sociale. Queste iniziative non solo recuperano fisicamente i luoghi, un tempo nelle mani della mafia, ma li trasformano in simboli di resistenza e rinascita, e costituiscono dei modelli educativi per le nuove generazioni.

Questi esempi positivi dimostrano come il contrasto alla mafia non può limitarsi esclusivamente all’azione repressiva della Magistratura e delle Forze dell’Ordine, ma deve fondarsi anche sulla capacità di rigenerare e trasformare i territori in una leva per la crescita e la coesione sociale, riaffermando il valore della legalità e della partecipazione attiva.

Tutto ciò testimonia come, superando pregiudizi e rigide determinazioni, sia possibile costruire un patto sociale più solido e inclusivo, capace di valorizzare la storia e le potenzialità dei territori.

La Calabria, è una terra bellissima, essa offre paesaggi mozzafiato, un patrimonio archeologico di valore inestimabile e una tradizione enogastronomica di eccellenza, frutto di un’agricoltura che sa di terra e di sole.  È un territorio che, per quanto difficile e complicato, ancora oggi preserva uno sguardo non omologato, ma per troppo tempo l’immagine distorta di una terra dominata da ombre e pregiudizi ha oscurato le tante virtù del suo popolo resiliente e laborioso. La Calabria, infatti, è una di quelle terre che ancora oggi offrono un livello di genuinità che in altri posti è ormai introvabile.

Immaginate di passeggiare per le vie di un paesino antico: i bambini che giocano spensierati per le strade acciottolate, le piazze dove si fermano gli anziani per raccontare storie di un tempo passato, e le botteghe artigiane che offrono prodotti tipici di una tradizione millenaria.

La bellezza della Calabria e dei calabresi si svela a chi ha il coraggio di lasciarsi alle spalle le etichette e i pregiudizi. In ogni angolo, dalla costa cristallina ai monti che si ergono maestosi, si respira un’aria pura, lontana dal caos e dall’inquinamento delle grandi città. È in questi luoghi che si può sentire davvero il calore umano, la genuinità e la solidarietà che contraddistinguono la vita calabrese. Qui, ogni sorriso, ogni gesto di ospitalità e ogni ricetta tramandata di generazione in generazione racconta la storia di una terra fiera e resiliente che contrasta nettamente con la narrativa negativa imposta da certi media.

In Calabria, la libertà non è soltanto un diritto, ma un valore da conquistare quotidianamente attraverso il lavoro e l’impegno, ed i calabresi onesti e laboriosi sono il simbolo della resilienza contro la mafia e le avversità.

Il futuro di questa Regione risiede proprio nei giovani calabresi, essi rappresentano la speranza e il motore del cambiamento: sono loro che con le proprie idee innovative e la capacità di trasformare le difficoltà in opportunità, possono ridare una nuova linfa vitale alla Regione.

È giunto il momento di riscrivere la narrazione di questi territori; occorre che anche i media adottino un approccio olistico, responsabile e articolato, capace di rappresentare la complessità della Calabria e del Sud d’Italia senza cadere in facili generalizzazioni.

Raccontare le storie di successo e la valorizzazione delle sue eccellenze e delle realtà positive sono strumenti fondamentali per ribaltare gli stereotipi e restituire alla Calabria e all’intero Mezzogiorno d’Italia l’immagine che meritano.

Allo stesso tempo, è essenziale potenziare i servizi pubblici e creare opportunità di lavoro dignitoso, soprattutto per i giovani. L’occupazione rappresenta uno degli strumenti più efficaci per prevenire il reclutamento da parte di realtà criminali e per favorire uno sviluppo sostenibile. Investire in educazione, formazione professionale e infrastrutture non solo migliora la qualità della vita, ma contribuisce anche a costruire una nuova identità basata sul merito e sulla creatività.

Infine, occorre sostenere le imprese che operano nella legalità e incentivare il turismo culturale. Solo attraverso un approccio integrato, che unisca interventi economici, culturali e sociali, sarà possibile restituire a questi territori la dignità e il riconoscimento che meritano, promuovendo così un futuro di crescita e inclusione per tutte le sue comunità.

È tempo di dare voce a una Calabria vera, una Regione che si costruisce giorno dopo giorno grazie alla forza dei suoi cittadini, determinati a far emergere il proprio valore e a mostrare al mondo che la bellezza di questa terra risiede proprio nella sua autenticità.

La vera Calabria si riconosce nei volti e nelle storie di chi resta e resiste e, ogni giorno, si impegna nel rispetto della legalità per costruire un futuro migliore. (pls)

IN CALABRIA AUMENTANO VOLI E TURISTI
MA SI RIDUCE L’OCCUPAZIONE GIOVANILE

di BRUNO MIRANTE – È un economia regionale che cresce debolmente quella descritta dal rapporto annuale di Bankitalia presentato nella filiale regionale di Catanzaro. Tra i vari dati contenuti nel rapporto anche le analisi sul comparto turistico e sulla tenuta del sistema aeroportuale. «In base ai dati provvisori dell’Osservatorio sul turismo della Regione Calabria, nel 2024 le presenze turistiche sono aumentate di circa il 3 per cento – si legge nel rapporto – in misura inferiore rispetto all’anno precedente. I maggiori flussi hanno interessato in particolare la componente straniera, cresciuta di oltre il 10 per cento. Le presenze rimangono, tuttavia, ancora inferiori ai livelli prepandemici. L’unica provincia ad aver recuperato quasi del tutto i valori del 2019 è quella di Vibo Valentia, dove si concentra quasi un terzo dei flussi regionali (oltre la metà di quelli dall’estero)».

«I passeggeri transitati dagli aeroporti regionali – aggiungono da Bankitalia – sono cresciuti del 7,5 per cento, superando per la prima volta i livelli pre-pandemici; l’espansione ha riguardato soprattutto i transiti internazionali, aumentati di un quarto. Vi ha influito l’incremento del numero di voli, che è stato favorito anche dagli interventi regionali a sostegno del settore. Alla crescita degli scali di Crotone e Reggio Calabria, tuttavia, si è contrapposto il calo di Lamezia Terme, sia in termini di numero di viaggiatori che di movimenti aerei (rispettivamente -4,4 e -4,7 per cento). Nei primi quattro mesi dell’anno è proseguita la crescita dei passeggeri, aumentati di circa un terzo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (di oltre il doppio quelli internazionali)».

Il mercato del lavoro e le famiglie

«Nel 2024 il lavoro autonomo è diminuito mentre quello alle dipendenze ha continuato ad aumentare, ancora sospinto dalle posizioni a tempo indeterminato. L’occupazione giovanile, strutturalmente bassa, si è ridotta rispetto al 2023. Dopo l’aumento registrato nell’anno precedente, anche la partecipazione al mercato del lavoro è diminuita, con una popolazione di inattivi caratterizzata – più che nel resto del Paese – da un basso livello di istruzione e da un’età mediamente elevata. Il reddito nominale delle famiglie calabresi è cresciuto, beneficiando dell’aumento delle retribuzioni nominali e del miglioramento dei livelli occupazionali. È tornato a crescere anche in termini reali, favorito dal rallentamento dei prezzi. La perdita di potere d’acquisto accumulata nel biennio 2022-23 non risulterebbe però ancora del tutto recuperata. Nonostante l’aumento del reddito disponibile, la dinamica della spesa per beni e servizi è rimasta debole, ancora sostenuta da un ampio ricorso al credito al consumo. Dopo il deciso calo del 2023, la domanda di mutui per l’acquisto di abitazioni è aumentata, favorita anche dalla riduzione dei tassi di interesse».

Le imprese

«Nel terziario – si legge ancora nel rapporto – la crescita è proseguita in misura meno intensa rispetto all’anno precedente. Anche nelle costruzioni l’espansione ha perso intensità, a causa del ridimensionamento delle agevolazioni fiscali connesse con gli interventi di ristrutturazione edilizia; l’attività del settore ha tratto ancora beneficio dalla prosecuzione dei lavori relativi alle opere pubbliche.

La produzione nell’industria regionale si è stabilizzata, dopo il calo del biennio precedente. In presenza di un favorevole quadro di misure di sostegno pubblico, sia nazionale che locale, l’attività di investimento è rimasta stabile nell’industria, mentre è aumentata nei servizi; rimane molto contenuta la spesa in ricerca e sviluppo e quella rivolta all’utilizzo delle tecnologie avanzate e dell’intelligenza artificiale. Il rallentamento congiunturale ha inciso sulla redditività aziendale, che aveva registrato una crescita nell’anno precedente. La liquidità è rimasta elevata nel confronto storico, con una netta prevalenza dei depositi in conto corrente rispetto alle altre forme di impiego. In un contesto di tassi di interesse in calo, la dinamica dei prestiti è stata debole, in particolare per le imprese piccole, per effetto di una domanda ancora contenuta e di politiche di offerta improntate alla prudenza».

Innovazione: l’esempio del polo informatico di Cosenza

Al rallentamento dell’economia regionale, secondo Bankitalia, ha contribuito soprattutto il calo demografico che ha prevalso sugli effetti positivi derivanti dall’aumento della produttività del lavoro. Sui divari continuano a pesare le criticità del contesto istituzionale, che però ha mostrato segnali di miglioramento, anche grazie ai recenti progressi nel processo di digitalizzazione delle amministrazioni locali. «In presenza di un tasso di innovazione del tessuto produttivo ancora contenuto, risulta fondamentale il contributo del sistema universitario nel trasferimento delle conoscenze scientifiche. In particolare, il polo informatico di Cosenza, che negli ultimi anni ha registrato un rilevante sviluppo, può consentire di cogliere le opportunità derivanti dall’intelligenza artificiale». (bm)

[Courtesy LaCNews24]

LA MATURITÀ 2025 È SEMPRE PIÙ VICINA:
IN ESAME 18.155 STUDENTI CALABRESI

di GUIDO LEONE – Le vacanze per i 72.500 studenti reggini sono, dunque, iniziate già da sabato scorso, con l’ultimo suono di campanella. Ma non per tutti. A sospirare ancora fino al 29 giugno saranno gli 8.500 piccoli allievi della scuola dell’infanzia che termineranno la loro attività solo sabato 30 giugno.

Insieme a loro suderanno le proverbiali sette camicie i cinquemila allievi delle scuole media inferiori che, a termine del loro ciclo di studi, in questi giorni sono impegnati a conquistare la loro “minimaturità”. Gli esami per loro dovranno concludersi entro la fine del mese.

Mentre sta per entrare nel vivo la maturità 2025 per gli studenti delle quinte superiori, alle prese con le ultime ripetizioni, in attesa di affrontare mercoledì 18 giugno la prima prova, quella d’italiano, la madre di tutte le prove.

L’esame di Stato compie quest’anno 102 anni di vita, passando attraverso varie riforme e rifacimenti, non ultime quelle dettate dalle recente pandemia. Ma già da due anni si è tornati alla formula tradizionale.

E cioè: la commissione d’esame mista con tre membri interni e tre esterni, oltre al presidente anch’egli proveniente da altra scuola.

Saranno due le prove scritte a carattere nazionale, decise cioè dal Ministero dell’Istruzione e un colloquio.

Come già previsto per lo scorso anno, infatti, lo svolgimento delle prove Invalsi è requisito di ammissione all’esame, sebbene i risultati delle prove standardizzate non influiranno sugli esiti dell’Esame di Stato.

Qualche novità

Una delle novità più rilevanti di quest’anno riguarda il voto in condotta che sarà determinante per i crediti complessivi con cui gli studenti accederanno alla Maturità: il punteggio più alto per i crediti scolastici (questo vale anche per gli studenti del terzo e quarto anno) sarà assegnato soltanto a coloro avranno un voto pari a 9 o maggiore. Chi, invece, avrà meno di 6 in condotta non potrà sostenere gli esami, in caso di sufficienza dovrà discutere un elaborato come previsto dalla legge 150/2024.

Invece, a proposito dell’elaborato, l’argomento di discussione sarà relativo a materia di cittadinanza attiva e solidale fondata sul rispetto dei principi costituzionali. Altra novità. Più peso al percorso scolastico. Poi, mentre la traccia di italiano resta immutata nella struttura: sette proposte tra analisi del testo, testo argomentativo e riflessione su temi di attualità; la seconda prova scritta invece cambia approccio. Sarà predisposta sì a livello ministeriale, ma le commissioni potranno integrarla per renderla più vicina ai programmi effettivamente svolti durante l’anno scolastico.

La valutazione finale si basa su: prima e seconda prova: max 20 punti ciascuna. Colloquio: max 20 punti. Crediti scolastici: max 40 punti. La lode richiede 100/100 senza bonus, credito massimo e unanimità della commissione.

I numeri di questa edizione 2025

Quest’anno saranno 524.415 gli studenti  italiani coinvolti nelle prove (511.349 candidati interni e 13.066 esterni), mentre le commissioni sono 13.900 per un totale di 27.698 classi.

Le commissioni operanti in Calabria saranno in tutto 551 con altrettanti presidenti: 44 per la provincia di Vibo Valentia, 200 per la provincia di Cosenza, 98 per la provincia di Catanzaro e 50 per la provincia di Crotone. Nel Reggino le commissioni sono in tutto 159.

I candidati calabresi saranno in totale 18.155 tra interni ed esterni. In provincia di Catanzaro saranno 3.194, a Cosenza 6.374, a Crotone 1.599, a Reggio Calabria a 5.574 e a Vibo 1.414.

Le commissioni saranno presiedute da altrettanti presidenti (tra dirigenti e  docenti ordinari) e composte da 3.306 commissari esterni ed interni.

Nella provincia reggina, in particolare, nelle 159 commissioni opereranno 954 docenti tra commissari interni ed esterni su 316 classi; a Catanzaro 588 docenti su 196 classi; a Cosenza 1200 docenti su 399 classi; a Crotone 300 docenti su 100 classi; a Vibo Valentia 264 docenti su 87 classi.

Distribuzione dei candidati tra le principali tipologie delle scuole calabresi.

Prevalenti, come sempre, risultano i candidati degli istituti tecnici, seguiti dai licei scientifici, dai professionali. A seguire quelli dei licei scienze umane, dei  licei classici, e poi i licei linguistici, i licei artistici e infine licei musicali.

Il tradizionale  tam tam di illazioni sulle possibili tracce del tema di italiano

Il tormentone quest’anno è iniziato da un bel po’, soprattutto sulla rete. Favoriti D’Annunzio, Pirandello, Ungaretti e Italo Calvino, di cui ricorre il 40esimo anniversario dalla morte. Ed ancora Leopardi e Primo Levi per gli 80 anni dalla liberazione di Auschwitz.

Potrebbe anche incentrarsi su eventi storici come la fine della Seconda Guerra Mondiale (80 anni), sui processi della unificazione europea, le riflessioni sulla pace e la memoria sociale e collettiva. Infine,

il tema sulla intelligenza artificiale mentre la violenza di genere e le crisi geopolitiche restano quotate per i loro legami con l’attualità.

In tanta confusione gli esami paradossalmente restano l’unico punto fermo.

Si è detto che l’esame oggi è più facile, la maturità non è più l’incubo di un tempo quando bisognava portare interi programmi. Ma questa facilità è illusoria perché una selezione prima o poi arriva. Si tratterà di un esame d’ammissione universitario, di una selezione aziendale, oppure sarà la concorrenza nel posto di lavoro con i colleghi più preparati. Ci penserà la vita insomma a dare una valutazione e in definitiva a scegliere. Questo per l’aspetto privato.

Poi c’è l’aspetto collettivo. La scuola oggi è come una casa disordinata, dove si vive spesso nella  incertezza, un cantiere aperto dove riforme si succedono a controriforme. Una scuola priva di mezzi è destinata a rimanere scadente, compromettendo il livello generale della qualità, pregiudicando il futuro. Il sogno di una scuola come strumento forte e generale di elevazione per tutti sembra un po’ appannato al momento.

Gli esami, in questa confusione, paradossalmente costituiscono l’unico punto fermo:nei fatti, il solo dispositivo che formalmente regga, che riesca a dare alla scuola una illusione di efficienza, di funzione.

Allora è bene che questa “forma” rimanga rituale fino in fondo, nell’attesa che possa tornare a essere riempita di un serio contenuto oppure abolita.

Nel bene e nel male, come quei ricordi tenaci che tornano anche quando nessuno li chiama, l’esame di maturità ai nostri ragazzi resterà dentro per sempre.

Lo sogneranno la notte e ne parleranno di giorno fino allo spasimo: un po’ come quelle mamme che con i figli già laureati ci tengono tanto a raccontarti per filo e per segno la loro gravidanza (beata o terribile non importa).

Perché al di là della versione, del compito di italiano, delle materie in cui saranno interrogati, questo benedetto esame di maturità è un guado dal quale, passo dopo passo, sopra i sassi sdrucciolevoli del torrente, non si torna più indietro. Buona fatica a tutti e coraggio: ne vale la pena. (gl)

[Guido Leone  già dirigente tecnico Usr Calabria]

LA CALABRIA E I 30 ANNI DI SFIDE TRA
CRESCITA, LAVORO E SPOPOLAMENTO

di FRANCESCO AIELLO – La popolazione residente in Calabria si è ridotta da 2.063.300 unità nel 1995 a 1.850.366 nel 2023, pari a una flessione del 10,3%. A fronte di una sostanziale stabilità della popolazione nazionale (+3,8% rispetto al 1995), e di una crescita nel Centro-Nord (+8,1%), il Mezzogiorno mostra una tendenza negativa (-3,8%). Questi dati testimoniano un progressivo svuotamento della Calabria, con impatti potenzialmente strutturali su offerta di lavoro, domanda interna e tenuta del sistema territoriale.

L’andamento temporale mostra che il declino demografico in Calabria è continuo e privo di fasi di stabilizzazione significative. Già nel 2000 l’indice scende sotto soglia 99, accelerando tra il 2003 e il 2005 e, in misura ancora più marcata, dal 2014 in poi. Tra il 2014 e il 2023 si registra un calo di quasi 6 punti percentuali (da circa 95 a meno di 90), segno di un intenso processo di spopolamento. Particolarmente rilevante è la discontinuità post-2015, periodo in cui la popolazione del Centro-Nord raggiunge il picco massimo (circa 113 nel 2017), mentre quella calabrese prosegue nella discesa senza soluzione di continuità. A partire dal 2020, anche l’Italia nel suo complesso inverte il trend, pur restando ben distante dalla dinamica negativa del Mezzogiorno e, ancor più, della Calabria.

In sintesi, il dato calabrese si caratterizza per una dinamica divergente non solo rispetto al Centro-Nord, ma anche rispetto al resto del Mezzogiorno, configurandosi come una delle regioni a maggiore contrazione demografica strutturale dell’intero Paese.

Valore aggiunto aggregato

Espresso a prezzi costanti 2015, il valore aggiunto della Calabria registra un incremento da 28,6 miliardi di euro nel 1995 a 29 miliardi nel 2023 (+1,7%). Si tratta di una crescita risibile, soprattutto se confrontata con l’aumento osservato a livello nazionale (+21%), nel Mezzogiorno (+8,7%) e, in misura ancora più marcata, nel Centro-Nord (+25%). Questo divario evidenzia la bassa capacità del sistema produttivo regionale di generare espansione economica nel lungo periodo, anche in fasi di relativa stabilità macroeconomica.

L’evoluzione temporale, riportata in Figura 2, consente di cogliere con maggiore dettaglio la dinamica delle singole macro-aree in diversi periodi temporali. Nella prima fase (1995–2007), la Calabria mostra una crescita in linea con le altre aree: nel 2007 l’indice supera quota 115, poco al di sotto della media nazionale. Tuttavia, la crisi del 2008–2009 rappresenta un primo punto di criticità: mentre il Centro-Nord recupera rapidamente (superando quota 120 già nel 2010), la Calabria entra in una fase di stagnazione e poi di lento declino. Il secondo momento di frattura si osserva a partire dal 2012: mentre l’Italia e il Centro-Nord riprendono gradualmente a crescere, la Calabria e l’intero Mezzogiorno seguono una traiettoria divergente. Il valore aggiunto della Calabria si contrae quasi ininterrottamente fino al 2020, anno della pandemia, in cui tocca il minimo relativo (circa 87). In nessun’altra area del Paese si osserva una caduta così profonda. La ripresa successiva, pur visibile, è più contenuta: nel 2023 l’indice calabrese è ancora al di sotto del livello del 2007 e poco al di sopra del valore del 1995.

La Figura 2 segnala la fragilità della struttura produttiva regionale, incapace di resistere agli shock esogeni (2008, 2012, 2020) e poco reattiva nelle fasi di espansione. In questo contesto, la distanza accumulata rispetto al Centro-Nord e al dato nazionale assume una valenza strutturale, non più solo congiunturale.

Produttività del lavoro

Alla debolezza dell’espansione del valore aggiunto aggregato si affianca una dinamica altrettanto contenuta della produttività del lavoro. Misurata come valore aggiunto per occupato a prezzi costanti 2015, indica non solo che l’Italia è un paese a bassa crescita, ma anche che i divari territoriali di sviluppo rimangono ampi senza mostrare alcun significativo segnale di convergenza.

Nel 2023, la produttività del lavoro in Calabria è pari a 55.882 euro, a fronte dei 75.071 euro del Centro-Nord, dei 58.854 euro del Mezzogiorno e dei 70.786 euro della media nazionale. Il divario con il Centro-Nord resta ampio: nel 1995 la produttività calabrese era pari al 73,2% di quella settentrionale; nel 2023 è al 74,4%. Dunque, nessuna vera convergenza si è realizzata: i ritardi rimangono pressoché invariati. Un secondo elemento rilevante è la debole crescita della produttività del lavoro. Sebbene l’incremento percentuale cumulato nel periodo 1995–2023 sia positivo (es. +9,2% in Calabria, +6,1% nel Centro-Nord), il tasso medio annuo composto segnala la presenza di stagnazione: Calabria: +0,31% annuo; Centro-Nord: +0,25% annuo; Mezzogiorno: +0,22% annuo; Italia: +0,26% annuo.

L’Italia si conferma un sistema a bassa crescita della produttività, con effetti sistemici sull’economia nazionale. La Calabria, pur mostrando un tasso annuo medio leggermente superiore alla media nazionale, lo fa partendo da livelli molto più bassi, senza riuscire a ridurre significativamente i divari.

Tra il 2015 e il 2020, la produttività del lavoro in Calabria mostra una tendenza regressiva, passando da un massimo di 58.493 euro a un minimo di 52.743 euro. Questo calo, pari a circa il 10% in cinque anni, segnala un arretramento significativo anche prima dell’impatto pandemico, che nel 2020 ha ulteriormente aggravato la situazione. Solo a partire dal 2021 si registra una parziale ripresa, ma i livelli del 2023 restano inferiori a quelli del 2015, a conferma di una traiettoria debole e discontinua. I dati nazionali mostrano un andamento simile, ma con livelli più elevati e recuperi più rapidi. In altri termini, le fluttuazioni della produttività calabrese riflettono una struttura economica esposta a shock esterni, con bassa capacità di adattamento e scarsa resilienza, anche rispetto al resto del Mezzogiorno.

La Figura 4 mostra per la Calabria l’andamento della produttività del lavoro, degli occupati e del valore aggiunto aggregato (1995=100).

L’aumento della produttività è in larga parte il risultato di una dinamica occupazionale negativa: la contrazione degli occupati ha determinato un incremento meccanico dell’output per addetto, senza un corrispondente rafforzamento del valore aggiunto aggregato. Ciò suggerisce una produttività “per difetto”, indotta dalla riduzione dell’input lavoro, e non “per merito”, ovvero sostenuta da investimenti, innovazione o riorganizzazione produttiva. Fenomeni analoghi si osservano tra il 2008 e il 2014 e tra il 2016 e il 2019: in entrambi i periodi, la produttività si mantiene elevata o stabile a fronte di un calo significativo degli occupati e di un valore aggiunto debole. Solo nel biennio 2021–2023 si osserva una ripresa congiunta di occupazione e valore aggiunto, ma su livelli ancora inferiori a quelli precedenti la crisi del 2008. In questo contesto, il sistema economico calabrese appare poco reattivo, strutturalmente debole e vulnerabile agli shock.

Il confronto con il Centro-Nord rafforza questa interpretazione. In Calabria, l’aumento della produttività del lavoro si realizza in concomitanza con un marcato calo degli occupati, soprattutto tra il 2008 e il 2014, segnalando un effetto composizione. Nel Centro-Nord, invece, la produttività del lavoro presenta una dinamica più stabile, senza crescite spurie legate a riduzioni dell’input lavoro. Qui, sia l’occupazione che il valore aggiunto aggregato mostrano un’evoluzione più equilibrata, con una crescita robusta prima del 2008, un rallentamento contenuto durante le crisi, e una ripresa sostenuta nel decennio successivo. In sintesi, mentre in Calabria la produttività cresce “per sottrazione”, nel Centro-Nord è più coerente con un’espansione reale dell’attività economica, sostenuta da investimenti, innovazione e maggiore resilienza strutturale.

Pil pro capite

Il Pil pro capite è la sintesi delle contrastanti dinamiche demografiche e della capacità di creare ricchezza aggregata. Nel 2023, il reddito per abitante (a prezzi 2015) in Calabria si attesta a 17.235 euro, in crescita rispetto ai 15.435 euro del 1995 (+11,7%). Un aumento miù basso di quello osservato nel Centro-Nord, dove il PIL pro capite è passato da 31.250 a 35.629 euro nello stesso periodo (+14%). Il Mezzogiorno, nel suo complesso, registra un incremento simile a quello calabrese, passando da 17.814 a 19.824 euro (+11,3%), ma mantiene un livello di reddito più elevato.

Nel confronto nazionale, il gap rimane ampio e persistente: il Pil pro capite italiano cresce da 26.376 a 30.320 euro (+14,9%), ampliando la distanza relativa tra il Sud e il resto del Paese. Per avere un’idea dei divari territoriali di sviluppo, basti pensare che nel 1995 il Pil pro capite in Calabria rappresentava il 58,5% di quello del Centro-Nord; nel 2023 tale rapporto scende al 48,4%. Questa dinamica segnala un progressivo peggioramento del posizionamento relativo della regione nel quadro nazionale. In altri termini, in 30 anni i divari regionali di sviluppo sono aumentati piuttosto che ridursi.

I dati indicano che tra il 1995 e il 2007 la Calabria conosce una fase di moderata espansione, raggiungendo un massimo vicino ai 18.000 euro, ma dal 2008 in poi il trend si appiattisce. In particolare, tra il 2010 e il 2019 il PIL pro capite si stabilizza poco sopra i 16.500–17.000 euro, mentre il Centro-Nord si mantiene stabilmente oltre i 34.000 euro. La caduta del 2020, indotta dalla pandemia, porta il PIL pro capite calabrese sotto quota 16.000 euro, per poi risalire molto lentamente negli anni successivi.

Alcune conclusioni

L’analisi dei dati tra il 1995 e il 2023 restituisce un’immagine coerente e preoccupante della distanza crescente tra la Calabria e il Centro-Nord. Il declino demografico si accompagna a una stagnazione della capacità produttiva, una crescita debole della produttività del lavoro e un livello di reddito pro capite che, in termini relativi, arretra ulteriormente. I dati segnalano che il dualismo territoriale italiano non solo persiste, ma si aggrava.

Questa evidenza conferma sia che la regione non ha beneficiato in modo significativo delle fasi di crescita nazionale sia che gli shock macroeconomici colpiscono più duramente le aree strutturalmente deboli, che stentano nelle fasi di recupero. In tale contesto, la bassa ricchezza disponibile per abitante non è solo la risultante di una combinazione sfavorevole di crescita, produttività e demografia, ma è anche un fattore che alimenta un circolo vizioso: ostacola gli investimenti, frena i consumi, e contribuisce alla fuoriuscita di capitale umano, soprattutto giovanile. Qualunque strategia di riequilibrio territoriale dovrà necessariamente affrontare in modo sistemico queste fragilità strutturali. Ne deriva la necessità di politiche territoriali integrate, orientate a rafforzare capacità produttiva, coesione demografica e qualità del lavoro. (fa)

[Courtesy OpenCalabria]

[Francesco Aiello è direttore del Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza “Giovanni Anania” dell’Università della Calabria]

LA CALABRIA “TORRIDA” IN UN SUD CHE
BRUCIA MENTRE LE ISTITUZIONI TACCIONO

di FRANCESCO GRAZIANOIl Sud Italia è intrappolato in una morsa climatica che non accenna a mollare la presa. In questo weekend, temperature oltre i 40 gradi colpiscono la Calabria, la Sicilia e la Puglia. Un’ondata di calore che, da evento eccezionale, è ormai diventata la nuova norma. E mentre i cittadini boccheggiano e i campi si seccano, si fa fatica a scorgere una reazione concreta da parte delle istituzioni. Peggio ancora: si moltiplicano voci che negano l’evidenza scientifica dei cambiamenti climatici.

La normalità della siccità

In Calabria e in Sicilia le piogge sono ormai un ricordo lontano. La siccità, un tempo considerata una crisi passeggera, è diventata un elemento strutturale del paesaggio. I dati dell’Isac-Cnr (Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima) confermano che le giornate piovose si sono ridotte del 70% negli ultimi vent’anni in molte aree del Sud. L’Altopiano della Sila, noto un tempo per le sue abbondanti nevicate, ha più che dimezzato i giorni di neve all’anno. Le foreste si stanno ritirando, le sorgenti si prosciugano, e le falde acquifere sono sotto stress. La desertificazione, secondo l’Ispra, avanza ormai in oltre il 30% del territorio meridionale, con le zone interne della Sicilia e della Calabria tra le più colpite d’Europa.

Agricoltura al collasso

L’agricoltura, motore economico di molte zone del Mezzogiorno, è in ginocchio. Le colture tradizionali – ulivi, agrumi, ortaggi – non reggono più l’assenza di acqua e l’aumento costante delle temperature. La Coldiretti ha denunciato perdite per oltre 1 miliardo di euro solo nel primo semestre del 2025. I raccolti sono dimezzati, le spese per l’irrigazione sono insostenibili e molti piccoli agricoltori sono costretti a chiudere.

Sanità sotto pressione

Il caldo estremo non è solo un problema ambientale ed economico. È un rischio diretto per la salute. Gli ospedali calabresi e siciliani registrano un’impennata di ricoveri per colpi di calore, disidratazione e scompensi cardiaci, soprattutto tra gli anziani. La Croce Rossa ha lanciato l’allarme: le strutture sanitarie del Sud, già provate da anni di tagli e carenze, non reggono l’urto delle emergenze climatiche ricorrenti.

Turismo invernale compromesso

Il cambiamento climatico sta riscrivendo anche le mappe del turismo. L’Appennino meridionale, un tempo meta per sciatori e amanti della montagna, non garantisce più la neve, né per quantità né per durata. Le stazioni sciistiche della Sila, del Pollino e dell’Etna registrano stagioni sempre più corte e non redditizie, con ricadute sull’indotto e sull’occupazione locale. Il futuro del turismo montano al Sud appare appeso a un filo.

E le istituzioni?

Di fronte a questa emergenza, le Regioni appaiono smarrite, spesso divise tra annunci e immobilismo. Nessuna strategia unitaria, pochi piani di adattamento climatico, scarsissimi investimenti in prevenzione. Il Governo, da parte sua, ha rimosso ogni riferimento ai cambiamenti climatici dall’agenda politica. Nessun piano nazionale di transizione ecologica è stato rilanciato. Peggio ancora: si moltiplicano segnali negazionisti.

Dagli Stati Uniti, Donald Trump, tornato alla Casa Bianca, ha recentemente dichiarato: «Non c’è bisogno di combattere per l’energia pulita: il cambiamento climatico è solo una bufala». Un’affermazione che rimbalza anche in Italia, alimentando l’inerzia politica e disorientando l’opinione pubblica. Ma i dati parlano chiaro: l’Italia è uno dei paesi europei più esposti agli effetti del riscaldamento globale.

«Il Sud rischia di diventare la prima area semi-arida stabile d’Europa», ha dichiarato il climatologo Luca Mercalli. «Senza un piano nazionale di adattamento climatico, rischiamo una crisi ambientale, economica e umanitaria», ha avvertito Enrico Giovannini, direttore ASviS. «I cambiamenti climatici sono reali, misurabili, e già qui. Negarli oggi è come spegnere l’allarme mentre la casa brucia», ha scritto la climatologa Serena Giacomin.

L’impressione è che ci si stia arrendendo. Alla sete, al caldo, al fuoco, all’abbandono. Ma questa non è una condizione inevitabile. È il risultato di scelte (o non-scelte) politiche. Di un ritardo culturale e amministrativo che rischia di condannare il Sud a una spirale di degrado e spopolamento. Non si tratta più solo di tutela ambientale: è una questione di giustizia sociale, coesione territoriale, sopravvivenza economica. (fg)

[Courtesy LaCNews24]

LA DENATALITÀ E LA SCARSA PROPENSIONE
DEI GIOVANI A METTERE SU UNA FAMIGLIA

Che l’Italia sia un Paese con una forte criticità in ambito demografico non è una novità: i dati Istat più recenti (marzo 2025) confermano un continuo e preoccupante invecchiamento della popolazione italiana con appena 370mila bambini nati nel 2024, una diminuzione del 2,6% rispetto al 2023 e un nuovo minimo storico per la fecondità, pari a 1,18 figli per donna. Ma ciò che fino ad oggi è rimasto meno visibile è che le motivazioni della poca propensione alla natalità dei giovani non siano da ricercare soltanto nella difficile fase economica che stiamo attraversando, ma anche in fattori culturali, sociali e relazionali più complessi. Interessanti da studiare in correlazione con quelli che saranno gli effetti socioeconomici della denatalità, soprattutto se si vuole affrontare con positività il futuro.

La propensione alla genitorialità appare condizionata dalla voglia di crescere investendo su se stessi e sul proprio tempo, ma non solo.

«La questione va affrontata nella sua totalità, se si vogliono trovare soluzioni. La nostra ricerca analizza idee, opinioni e percezioni dei giovani in materia, e vuole contribuire alla comprensione del fenomeno per chi prende decisioni in materia», ha spiegato Nino Foti, presidente della Fondazione Magna Grecia (fondazione che, da quarant’anni fa della ricerca il suo cuore pulsante, in collaborazione con atenei, istituzioni, mondo del terzo settore, enti pubblici) in una conferenza stampa che si è tenuta ieri, nella Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio, alla presenza della Ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità, Eugenia Roccella.

Lo studio conferma e radicalizza un tema: “per fare famiglia ci vuole famiglia”. Chi decide di fare i figli pone al centro, come elemento condizionante, la presenza forte della propria famiglia di origine a cui appoggiarsi. Il desiderio di avere dei figli esiste ed è forte fra i giovani (per il 59,4% sarà una tappa fondamentale nella propria vita di coppia), ma la sua realizzazione è spesso condizionata dall’aiuto che potranno ricevere dai genitori. Ma una robusta ‘rete salvagente’ familiare se da un lato è il primo supporto alla nascita di una famiglia con figli, dall’altro frena la voglia di quei giovani che non vogliono abbandonare il “nido” (è la famiglia la parte più soddisfacente della propria esistenza per il 42%) – e che spesso non possono farlo per mancanza di risorse – anche a causa di una profonda sfiducia nel supporto esterno, terzo settore compreso. Inoltre, i nostri giovani non diventano “genitori per caso”: chi decide di avere un figlio lo fa per una “forte propensione” (46,4%) e giudica in modo molto negativo chi lo fa senza avere la giusta condizione economica. Fare figli non è più un destino, ma un progetto che spesso viene accantonato non solo per motivi economici ma anche per il timore di compromettere il proprio sviluppo individuale: non si è disposti a rinunciare alla ricerca della solidità economica (49,5%), di un lavoro soddisfacente (33,4%), di una relazione di coppia stabile (38,4%) e di tempo a disposizione (33,6%). Il fattore tempo ha poi un peso ancora più significativo rispetto al passato: elementi spartiacque sono infatti la realizzazione delle passioni personali (43,6%), così come, più marginali ma presenti, un depauperamento della quantità e della qualità del tempo libero per poter stare con gli amici, dedicare spazio a se stessi, partecipare ad eventi culturali o sportivi, viaggiare e praticare proprie passioni.

Rispetto al passato – inoltre – una famiglia senza figli viene considerata ugualmente una famiglia. Soprattutto dalle donne, che vorrebbero facilitare le adozioni (41,5%), e che prendono le distanze dalla necessità di diventare genitrici per corrispondere al problema della decrescita demografica (4%), aspetto al contrario più avvertito negli uomini (9,1%). Per i nostri giovani, dunque, se la denatalità è un problema sociale, fare figli è una questione totalmente privata e non una responsabilità collettiva. Le giovani donne, soprattutto, temono di più di “pagarla” in termini lavorativi.

Il tema cruciale, per il presidente della Fondazione Magna Grecia, è quello di affrontare la denatalità in modo forte anche nei suoi impatti: «La denatalità mette sotto pressione il patto sociale tra generazioni, per questo è urgente studiare come gestirne gli effetti. Il tema della longevità è centrale: vanno pensati nuovi modelli di sviluppo territoriale ed economico, anche per le aree interne. Siamo il paese “più anziano” d’Europa, e fra i primi al mondo per longevità: se non impariamo a guardare a questo anche in chiave di opportunità perdiamo un’occasione fondamentale di crescita», conclude.

In tal senso, con un nuovo “Osservatorio permanente su Denatalità, sostenibilità intergenerazionale e longevità”, la Fondazione intende aprire nuovi percorsi di ricerca e dibattito approfondendo per lo più quattro ambiti: invecchiamento attivo e silver age economy: la longevità considerata come leva trasformativa per ripensare la cittadinanza, il lavoro, l’economia, le politiche abitative e la partecipazione sociale; nuovi modelli di welfare che superino il “modello mediterraneo” basato principalmente sulla famiglia, ridistribuendo le responsabilità di cura e protezione sociale anche al di fuori del nucleo familiare, per alleggerire il carico sulle donne, ma anche sperimentazioni di welfare comunitario, housing collaborativo e di gestione e intervento per mezzo di sistemi per la salute digitale e di IA; una nuova narrazione per la genitorialità: campagne di comunicazione e sensibilizzazione che sfatino gli stereotipi, introducendo una visione più inclusiva e plurale per cambiare la percezione culturale della genitorialità da onere a opportunità; interventi che valorizzino il ruolo dei nonni e delle reti di prossimità nel supporto alla genitorialità e all’invecchiamento attivo, anche individuando politiche e interventi inediti ad hoc che facilitino l’alleanza intergenerazionale. (rrm)

CHIAMATELO “DIVARIO DI CITTADINANZA”
È IMPIETOSO IL CONFRONTO TRA GLI ASILI

si  MASSIMO MASTRUZZO – Puntualmente, nemmeno fosse l’influenza invernale, ogni anno si ripresenta la querelle sui divari scolastici Nord-Sud, questa volta ad alimentare il dibattito sono Giorgio Gori, ex sindaco di Bergamo e attuale parlamentare europeo, e il virologo Roberto Burioni. Gli argomenti però sono, stancamente, sempre gli stessi:

Nel Sud-Italia gli studenti ricevono voti più alti; i docenti bravi del Sud emigrano al Nord; gli studenti del Sud sono più indietro rispetto a quelli del Nord.

Quante volte ancora dovremo ascoltare questa inutile nenia prima di porre una riflessione costruttiva e quindi provare ad agire di conseguenza: visto che gli argomenti sono sempre gli stessi, e si riferiscono sempre agli stessi territori, il difetto è nella “Struttura” o sistema che dir di voglia, o nei ragazzi che vivendo in quei territori subiscono la struttura che il sistema Italia gli offre?

Qualcuno ha provato ad affrontare l’argomento

Si intitola “Divario di cittadinanza”, pubblicato nel luglio del 2020, ed è un diario di viaggio condotto per osservare la vita del Sud Italia. Scritto per Rubbettino da Luca Bianchi, direttore dello Svimez e Antonio Fraschilla, giornalista di Repubblica, il libro mette in evidenza come le disparità tra Nord e Sud non solo non sono mai state appianate, anzi i numerosi programmi di intervento hanno finito per spostarsi sempre più dal livello del benessere economico a quello dei servizi offerti dallo Stato, in barba a quanto affermato dalla Costituzione sull’uguaglianza dei cittadini italiani.

Gli autori dedicano al tema della scuola alcune delle pagine più dense del volume, ed in generale sottolineano come tutti i servizi offerti, o meglio non garantiti ai cittadini del Sud fin dalla più giovane età, minano di fatto la loro formazione e il futuro.

“La scuola – denunciano gli autori – non sembra più in grado di colmare pienamente le lacune di chi proviene da situazioni più svantaggiate”.

Nel libro sono presenti alcuni dati che evidenziano la drammaticità della situazione: «Basta guardare i numeri dei servizi per l’infanzia per i bambini da 0 a 2 anni, dove è lampante la forbice tra il 5% del Mezzogiorno e il 17-18% del Centro-Nord, che incide significativamente sul tasso di occupazione femminile. E che dire del tempo pieno nelle scuole primarie, dove vi sono ancora oggi livelli, in alcune regioni meridionali, variabili tra meno del 10% di studenti cui viene offerta una frequenza a tempo pieno in Sicilia e oltre il 45%, perfino superiore al 50%, in media in alcune regioni del Centro-Nord? Questi dati, se messi a confronto, portano a una conclusione sconcertante: la differenza dell’orario settimanale fra Nord e Sud, moltiplicata per tutti e cinque gli anni scolastici, mette in evidenza come gli alunni delle regioni centrali e settentrionali studino di fatto un anno in più rispetto a quelli meridionali».

Italiani a cui il loro Paese nega l’asilo nido

Appurato quindi quanto denunciato nel libro “Divario di cittadinanza”, si scopre che ci sono italiani a cui il loro Paese nega l’asilo nido, nega la materna, di conseguenza anche scuola primaria (elementare) e la secondaria di primo grado (scuola media), la relativa mensa scolastica, nega il tempo pieno.

In dati reali questo negare diritti vuol dire sottrarre concretamente diverse ore di scuola ogni settimana che alla fine del ciclo scolastico obbligatorio, che si conclude con la fine della secondaria di secondo grado (le superiori), si traduce in oltre un anno in meno di diritto allo studio, per di più in scuole vecchie, fatiscenti o pericolose, con problemi di sicurezza e manutenzione, rispetto alle scuole del Nord che tendono ad essere più moderne, ben attrezzate e sicure, spesso con infrastrutture adeguate ai nuovi modelli didattici;

Stessi studenti italiani che concorrono alla formazione del proprio futuro con a disposizione strumenti diversi per raggiungerlo, senza che mai i censori da salotto si sforzino ad affrontano davvero il problema della disomogeneità dell’offerta formativa e infrastrutturale.

Differenze significative tra le diverse aree o istituzioni, che rendono l’accesso all’istruzione e ai servizi educativi non equo e uniforme. In altre parole, non tutti gli studenti hanno le stesse opportunità di apprendimento o le stesse strutture a disposizione.

[Massimo Mastruzzo è  del direttivo nazionale MET  – Movimento Equità Territoriale]