PNRR E OPERE PUBBLICHE, PER LA SVIMEZ
IL SUD IN RITARDO NELLA FASE ESECUTIVA

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Il Sud è in ritardo nell’avvio della fase esecutiva dei lavori del Pnrr. È quanto emerso nel nuovo numero di InformazioniSvimez “Pnrr Execution: le opere pubbliche di Comuni e Regioni” della Svimez, a meno di un anno e mezzo dalla scadenza del 2026, evidenziando come nei Comuni sono avanzati i lavori per asili e infrastrutture scolastiche, mentre nelle Regioni si registra un rallentamento delle opere, soprattutto per la sanità territoriale.

La Svimez nel documento ha ricordato come le risorse che il Pnrr destina alla realizzazione di lavori pubblici sono pari a 65 miliardi. La quota di risorse Pnrr per interventi infrastrutturali è del 54,2% nel Mezzogiorno (26,2 miliardi), di circa 6 punti percentuali superiore al dato del Centro-Nord (48,5%; 38,8 miliardi).

«Per questa tipologia di interventi – si legge – almeno in termini di stanziamenti, si raggiunge appieno la “quota Sud” del 40%. Proprio gli investimenti in opere pubbliche rappresentano l’ambito di intervento del Pnrr funzionale al riequilibrio territoriale nella dotazione di infrastrutture economiche e sociali e nella quantità e qualità dei servizi».

La distribuzione delle risorse Pnrr che finanziano la realizzazione di opere pubbliche per soggetto attuatore rivela il coinvolgimento primario delle amministrazioni decentrate, soprattutto nel Mezzogiorno.

L’incidenza delle risorse a gestione dei Comuni per opere da realizzare nell’area è del 33,2% nel Mezzogiorno e del 30,5% al Centro-Nord. Anche dai valori pro capite risulta il maggior sforzo attuativo a carico dei Comuni del Mezzogiorno: 440 euro di investimenti Pnrr per cittadino (302 euro il dato del Centro-Nord). Il dato relativo alle amministrazioni regionali è del 15% nel Mezzogiorno e di circa il 12% al Centro-Nord in termini di incidenza di risorse complessive; valutate in pro capite le risorse a gestione delle regioni meridionali raggiungono 197 euro per cittadino (118 euro il dato del Centro-Nord).

A fine dicembre 2024, i Comuni meridionali hanno avviato lavori per 5,6 miliardi, il 64% del valore complessivo degli investimenti a loro titolarità; per i Comuni del Centro-Nord il dato è di 9,7 miliardi, l’82,3% delle risorse Pnrr. Alla stessa data, per le amministrazioni regionali meridionali risultano avviati lavori per 1,9 miliardi di euro, il 50% del valore complessivo degli investimenti Pnrr a loro titolarità. Il valore dei progetti avviati per quelle del Centro-Nord si attesta a 3,5 miliardi, quasi il 76% delle risorse Pnrr.

Se da un lato emergono ritardi dei Comuni del Sud per quota di avviamento dei lavori, i dati in termini di risorse pro capite ribaltano la lettura con livelli di spesa avviata significativamente superiori: 440 euro di investimenti Pnrr per cittadino (302 euro il dato del Centro-Nord).  Va inoltre rilevato che i ritardi nell’apertura dei cantieri riflettono le difficoltà incontrate dalle amministrazioni nella fase progettuale, in quella di accesso competitivo alle risorse, e nell’espletamento delle procedure ammnistrative preliminari all’apertura dei cantieri.

Per le linee di investimento per asili nido e infrastrutture scolastiche, le percentuali di mancato avviamento lavori a gestione dei Comuni del Sud sono significativamente più contenute e si riduce la forbice sui tempi di apertura dei cantieri rispetto al resto del Paese. L’investimento “Costruzione di nuove scuole mediante sostituzione di edifici”, ricompresa nella missione M2C3, registra un valore di progetti non avviati del 9% (2% il dato medio dei Comuni del Centro-Nord). In aggregato, per la componente M4C1 dedicata al potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione, il valore dei progetti avviati è di quasi l’87% (94% il dato del Centro-Nord), per effetto di quote di progetti non in fase esecutiva comprese tra l’8% (Piano estensione del tempo pieno) e il 14% (Potenziamento infrastrutture per lo sport a scuola) delle diverse linee di investimento.

Ma perché le Regioni sono in ritardo rispetto ai Comuni? Per la Svimez è, in parte, a causa della sovrapposizione con gli impegni legati all’implementazione dei programmi della politica di coesione europea.

Il Pnrr ha individuato nella sanità l’ambito di intervento prioritario delle amministrazioni regionali, soprattutto per le misure orientate al rafforzamento della sanità di prossimità, adottando criteri perequativi di allocazione territoriale delle risorse per orientare gli investimenti verso le regioni a maggior fabbisogno. È proprio negli investimenti in sanità territoriale che le Regioni del Sud registrano i ritardi più preoccupanti.

La Svimez, di fronte a questo quadro, pone l’attenzione alla prossima rimodulazione del fondi del Pnrr, ricordando come la «precedente riprogrammazione ha già sottratto investimenti destinati al riequilibrio territoriale infrastrutturale, indirizzando i fondi verso gli incentivi alle imprese di più rapida spendibilità. Una scelta finalizzata a semplificare e accelerare l’attuazione del Piano che però ne ha indebolito le finalità di perequazione infrastrutturale territoriale».

Per questo «replicare quella scelta per motivi di efficienza rischia di penalizzare ulteriormente le finalità di perequazione territoriale dele Pnrr, soprattutto in ambiti fondamentali per la riduzione dei divari di cittadinanza, a partire dalla sanità. Se i fondi per le infrastrutture pubbliche venissero ulteriormente ridotti, il Mezzogiorno vedrebbe diminuire le opportunità di sviluppo e la possibilità di colmare i divari storici nei servizi essenziali, dalla sanità ai trasporti».

«La messa in sicurezza degli interventi orientati a ridurre i gap territoriali nella dotazione di infrastrutture economiche e sociali a titolarità degli enti locali – si legge – dovrebbe, dunque, rappresentare una priorità in vista di nuove possibili nuove riprogrammazioni per: preservare le finalità di coesione territoriale del Pnrr; valorizzare l’inedito sforzo progettuale, attuativo e di spesa realizzato delle amministrazioni, soprattutto quelle comunali; non disperdere il patrimonio di capacità ammnistrativa maturato con l’occasione del Pnrr». (ams)

 

SANITÀ CALABRIA, OCCHIUTO ANNUNCIA:
«A BREVE FINISCE IL COMMISSARIAMENTO»

di SANTO STRATI – Sanità in Calabria, fine del commissariamento? Lannuncio lo dà il presidente Roberto Occhiuto durante un incontro/forum alla sede de Il Quotidiano del Sud, promosso dal direttore Massimo Razzi.

È una notizia shock, bellissima, difficile persino da credere. Ma bisogna crederci, visto che sulla Sanità calabrese Occhiuto ci ha messo la faccia e rischia quotidianamente la sua credibilità.

È ottimista Occhiuto, visibilmente provato da un recupero post operatorio che appare troppo lento, e, nella redazione centrale di Castrolibero azzarda che entro qualche settimana la sanità calabrese sarò fuori dal commissariamento. Se lo afferma, non solo ne è convinto, ma evidentemente ha ricevuto le dovute rassicurazioni dal Governo che siamo davvero al traguardo.

Una buona notizia per la Calabria e per i calabresi che dal 2009 sono sotto commissariamento e ne hanno viste di cotte e di crude, tra annunci, incapacità gestionali, promesse e, soprattutto, chiusure di ospedali. Uscire dal commissariamento quantomeno significa poter ricominciare a investire per garantire la salute ai calabresi, che continuano a regalare” milioni (340 secondo lultima stima) ogni anno alle altre regioni, dove vanno a farsi curare in ospedali più “avanzati” e dove, loro malgrado, trovano ottimi medici calabresi.

Si parla dialetto calabrese a Roma, Milano, Pavia, Padova e in gran parte delle strutture sanitarie del Nord: è il risultato degli esodi (molti controvoglia) di ottimi specialisti che hanno dovuto lasciare la propria terra e che nessuno riesce a far tornare (mancano soprattutto le possibilità economiche).

La fine di questorrendo bavaglio alla sanità pubblica potrebbe significare un nuovo slancio tutto a respiro regionale nella gestione della sanità pubblica il cui patatrac – non dimentichiamolo – è stato anche provocato da commissari di Governo inviati dallo Stato, che, però, continua a non volersi assumere alcuna colpa pur avendo gestito, per indiretta persona, lo scandalo di fatture pagate più volte, di ospedali chiusi, di reparti mai aperti, di attrezzature lasciate a morire nella loro obsolescenza senza venire utilizzate alla bisogna.

La storia della sanità calabrese è drammaticamente insopportabile e insostenibile sotto tutti i punti di vista e i rimedi, ad oggi, sono stati troppo blandi se non forieri di ulteriori spese.

Certo, va considerato che la fine del commissariamento non significa che viene annullato il piano di rientro, a cui prima o poi bisognerà venirne fuori, ma è decisamente un grosso passo in avanti per riorganizzare, con responsabilità unicamente regionale, tutto lapparato, mettendo ordine nelle tantissime, troppe, criticità.

Al direttore Razzi – cui bisogna dare atto di avere promosso una intelligente e coraggiosa campagna giornalistica attraverso il Quotidiano del Sud per la sanità calabrese – il presidente Occhiuto risponde mostrando sicurezza: «Sono assolutamente convinto che il commissariamento non sia una buona cosa per il governo della sanità in Calabria, lo ha anche detto la Corte costituzionale due volte. Ho lavorato nei mesi passati per ottenere dai Ministeri affiancanti la possibilità di poter uscire dal commissariamento. Io ho maturato un’esperienza nei palazzi della politica romana e spesso faccio cose che vengono interpretate come strappi. Un esempio sono gli emendamenti».

«Volevo un’assunzione di responsabilità dei Ministeri – ha spiegato – che ci dessero i dati sul punteggio Lea e si esprimessero sulla chiusura dei bilanci e la loro certificazione. Gli emendamenti sono serviti a questo. Li farò ritirare perché ho avuto la rassicurazione da parte del governo che la sanità calabrese uscirà, da qui a qualche settimana, dal commissariamento. E io vorrei che uscisse non per una norma ma per una delibera del Consiglio dei ministri proposta dal Mef e dal Ministero della Salute».

Secondo il Presidente Occhiuto, «Avendo finalmente il governo dei conti e i Lea in crescita, il commissariamento non ha più senso di esistere. Chiaramente rimarremo in piano di rientro, ma il mio obiettivo di medio periodo e quello di uscire anche da questo. Utilizzeremo parte della fiscalità aggiuntiva per colmare il deficit».

«Se noi riuscissimo con i Lea del 2024 ad essere verdi su tutti e tre gli aggregati (ospedaliero, prevenzione e distrettuale) potremmo chiedere l’uscita dal piano di rientro – ha detto –. Altra cosa: ho chiesto al governo di darmi una mano per concludere i tre grandi ospedali. Sibari procede e sarà completato prima della fine della legislatura, a Vibo c’è stato un incontro con il concessionario e aggiorneremo il piano finanziario per accelerare i lavori. Sulla Piana il concessionario ha chiesto 190 milioni in più, noi siamo disponibili ad un aggiornamento del Pef».

«Mi sto assumendo tantissime responsabilità – ha ricordato – e rischio di essere rincorso dalla Corte dei Conti per i prossimi decenni. Però l’ho fatto perché altrimenti non l’avremmo finito. Ho chiesto al governo poteri di Protezione Civile per procedere più velocemente con gli adempimenti previsti. E questo per i tre ospedali più il Policlinico universitario di Cosenza e una parte dell’ospedale di Reggio. Ho fiducia».

Lo scetticismo dei calabresi è duro da scalfire, nonostante liniezione di fiducia e ottimismo del Presidente Occhiuto. Il percorso non è libero da ostacoli e, probabilmente, lAzienda Zero non ha ancora le capacità operative (tipo bacchetta magica…) per sistemare conti e aziende e, soprattutto, poter garantire ai calabresi che vivono in regione e hanno diritto di curarsi adeguatamente vicino ai loro affetti e alle loro case, il livello di prestazioni sanitarie degne di questo nome. È un impegno, non soltanto una promessa, quanto affermato da Occhiuto. (s)

CAMBIAMENTI CLIMATICI, LA CALABRIA È
SEMPRE PIÙ FAGILE: SERVE PIANIFICAZIONE

di GIULIO IOVINE – Il maltempo dei giorni scorsi ha, di nuovo messo, in evidenza le difficoltà del territorio calabrese sott’acqua con fiumi di fango e detriti. Ma perché basta una forte pioggia per mettere in ginocchio intere aree di un territorio abbastanza fragile?

Infatti, basta un temporale e la Calabria va in tilt. Questo perché un evento temporalesco di tipo autorigenerante ha interessato la Calabria ionica nel fine settimana, colpendo in particolare le province di Catanzaro e Crotone con piogge abbondanti, forti raffiche di vento e fulminazioni. Le precipitazioni hanno causato processi erosivi e frane sui versanti, con trasporto di detriti verso valle e piene torrentizie.

Negli ultimi tempi, questo tipo di fenomeni sembra manifestarsi con maggiore frequenza nelle nostre zone, probabilmente a causa del cambiamento climatico in atto e produce effetti devastanti sul territorio. In presenza di zone edificate o infrastrutture, si finisce per contare i danni, quando va male, anche le vittime.

A fronte di queste situazioni, bisogna analizzare le cause e i rimedi, in modo da prevenire i danni. Innanzitutto, c’è da considerare che il territorio evolve continuamente e si modella, attraverso dinamiche del tutto naturali. In tal senso, vanno interpretati i processi di modellamento dei versanti che erodono il materiale e lo trasportano verso valle, attraverso fenomeni di dilavamento o di frana. Analogamente, le acque incanalate trasportano i detriti verso il mare, contribuendo all’equilibrio dinamico delle spiagge lungo le fasce costiere.

La presenza degli umani incide su questi processi, condizionandoli in vario modo. Per esempio, l’uso del suolo può favorire il ruscellamento (a discapito dell’infiltrazione) e quindi amplificare il deflusso, con tutte le conseguenze di una maggiore disponibilità di acqua che scorre in superficie. In altri casi, l’edificazione può esporre gli edifici (e la popolazione) a situazioni di pericolo eccessive, con conseguenti danni potenziali anche severi.

Ancora, gli stessi edifici possono non essere realizzati in maniera adeguata e quindi, non essere capaci di resistere all’impatto dei fenomeni naturali. Ciò vale in generale, per le alluvioni come per le frane, i terremoti. In una fase di cambiamento climatico, i suddetti equilibri (precari) tendono a modificarsi, e possono esserci conseguenze disastrose per le aree urbanizzate e per le infrastrutture.

Se lo si vuole spiegare in termini geologici, bisogna premettere che il territorio, anche in Calabria, è in continuo modellamento. Non è mai uguale a sé stesso, perché tende a raggiungere condizioni di equilibrio in un contesto ambientale mutevole.

Per esempio, la tettonica determina un sollevamento differenziato e, grazie al clima, favorisce l’approfondimento delle incisioni torrentizie, con generazione di energia di rilievo, processi erosivi e frane. Tutto ciò, alimenta il trasporto di detriti verso la costa, dove il mare agisce per redistribuirli. Alcuni aspetti del clima sono condizionati da eventi astronomici ciclici, di lungo periodo.

Nel complesso, tali processi si sviluppano quindi in tempi molto lunghi, ben oltre l’orizzonte di interesse che normalmente consideriamo. Non dobbiamo, però, sottovalutare il ruolo delle attività umane nell’amplificare alcuni processi naturali, come i cambiamenti climatici. La stragrande maggioranza degli esperti ritiene che la tendenza in atto sia sensibilmente influenzata dalle emissioni antropiche di gas serra. Secondo un principio di precauzione e quindi, anche in assenza di certezze assolute, sarebbe saggio assumere provvedimenti per la riduzione degli impatti anche per senso di responsabilità verso le nuove generazioni.

Carl Sagan ci ricordava che, durante la Guerra Fredda, furono infatti investiti triliardi di dollari nella corsa agli armamenti nucleari, soltanto perché si temeva (ma non si era affatto certi) che il nemico volesse attaccare. Strano che, negli stessi “ambienti culturali”, ci si ostini a rifiutare l’approccio di precauzione e si tenda a minimizzare il ruolo delle attività umane nel condizionare il clima.

Eppure, gli effetti in termini di inquinamento (e malattie correlate) e di modificazioni climatiche (e relativi effetti al suolo) sono piuttosto evidenti. Qual è il motivo di tale atteggiamento?

Di fronte a questo quadro preoccupante, è necessario che le istituzioni locali e regionali mettano in campo degli strumenti di pianificazione. Innanzitutto, è importante sottolineare che il territorio deve essere utilizzato secondo principi di precauzione, in modo da tutelare sia l’incolumità della popolazione sia i beni (zone urbanizzate, infrastrutture, aree produttive e industriali, ecc.), permettendo al contempo un sano sviluppo economico.

L’approccio semplicistico del divieto assoluto, ampiamente adottato nel secolo scorso, è ormai superato da quello legato al concetto di rischio accettabile. In altre parole, non si può pretendere di garantire condizioni di rischio nulle. Ovunque, c’è sempre un livello di rischio cui resteremo esposti, perché il territorio è soggetto a una serie di processi che si sviluppano nel tempo e possono causare danni o distruzione. Ecco perché è meglio non utilizzare alcuni termini fuorvianti, come la famosa “messa in sicurezza”, che rischiano di infondere convinzioni errate nella popolazione: come sappiamo, nulla è sicuro.

Occorre, viceversa, analizzare più in generale il territorio in termini di multirischio, ovvero di condizioni potenzialmente dannose imputabili a una serie di fenomeni (naturali o artificiali), anche indipendenti tra loro. Se, per esempio, mi allontano da un torrente, posso magari riuscire a evitare una piena, ma posso essere colpito dai massi che precipitano dalle pareti rocciose più a monte. Quindi, mentre diminuisco il rischio legato alle alluvioni, aumento quello legato alle frane. Esistono diversi strumenti di pianificazione, a varia scala, che permettono di utilizzare il territorio consentendone uno sviluppo armonico, mitigando i rischi.
A livello comunale, i Piani di Protezione Civile sono uno strumento fondamentale, e dovrebbero essere conosciuti e praticati sia dagli amministratori sia dalla popolazione. Di recente, la Protezione Civile regionale ha stanziato dei fondi per la digitalizzazione. Bisognerebbe approfittarne per modernizzare il sistema e fare divulgazione. A scala regionale, i vari “piani stralcio” previsti nell’ambito della pianificazione di bacino (ex L.183/1989) sono uno strumento prezioso e imprescindibile. Attraverso la redazione di tali piani, le zone del territorio maggiormente esposte a problematiche di franosità, alluvione ed erosione costiera possono essere riconosciute e così, in esse, è possibile adottare criteri di utilizzo del territorio compatibili con le condizioni di rischio.
Purtroppo, in Calabria questi piani sono rimasti fermi per un quarto di secolo. Gli Ordini professionali dell’area tecnica hanno ripetutamente sollecitato l’Autorità di Distretto dell’Appennino Meridionale a provvedere, con urgenza, all’aggiornamento di tali strumenti di pianificazione, consapevoli della loro fondamentale importanza per la salvaguardia di beni e persone. In alcuni documenti, trasmessi formalmente all’Autorità, ne sono state evidenziate le principali criticità, fornendo suggerimenti per la risoluzione degli annosi problemi evidenziati dai professionisti.
A novembre scorso, c’è stato un colpo di scena. Abbiamo, infatti, appreso (casualmente) che era stato approvato il Progetto di Piano per il Rischio Alluvioni (inutile sottolineare che nessuno dei Presidenti dei 22 Ordini calabresi dell’area tecnica fosse stato avvisato). L’Autorità ha, però, concesso un periodo alquanto ridotto per formulare osservazioni: entro metà gennaio bisognava completare il tutto. Festività comprese.
L’analisi di un lavoro così articolato e specialistico necessita, evidentemente, di elevate competenze e di tempo. Ciò malgrado, già a un primo esame, sono sorte varie perplessità di carattere procedurale e metodologico, nonché inerenti alle Norme di Attuazione (ovvero ai vincoli che si intendono imporre nelle zone che risultano esposte a tale problematica).
In collaborazione con gli altri Ordini della Rete delle Professioni Tecniche calabrese, sono state quindi formulate tutta una serie di richieste di dati e informazioni, per mettere tutti in condizione di comprendere a fondo e replicare lo studio effettuato dall’Autorità, e proporre eventuali modifiche. Sono state anche formulate puntuali proposte di modifica alle Norme, per non bloccare i procedimenti in atto e per gestire le situazioni di rischio secondo una visione più moderna di mitigazione. Si tratta, nel complesso, di numerose osservazioni, difficilmente risolvibili con una semplice risposta formale. Attendiamo fiduciosi di capire come intenderà procedere l’Autorità di Distretto per chiarire le perplessità avanzate e condividere gli elementi informativi necessari per un corretto utilizzo del Piano.
Purtroppo, malgrado le sollecitazioni avanzate all’Autorità nel corso degli ultimi anni, è mancato del tutto il coinvolgimento del mondo professionale e di altri “portatori di interesse” nelle fasi di impostazione e di redazione del Piano (a differenza dell’esperienza pioneristica del 2001).
Auspichiamo, in futuro, una maggiore apertura al confronto costruttivo da parte dell’Autorità, anche in vista degli aggiornamenti di altri Piani (frane ed erosione costiera), attesi ormai da troppo tempo. (gi)
[Giulio Iovine è presidente dell’Ordine dei Geologi della Calabria]

I DAZI AMERICANI DANNEGGIANO IL SUD
A RISCHIO L’EXPORT E L’OCCUPAZIONE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Quanto peseranno i dazi americani sull’export del Mezzogiorno? A questo interrogativo risponde la Svimez con uno studio in cui ipotizza due scenari su cosa potrebbe succedere qualora venissero estese le restrizioni doganali anche all’Europa.

Secondo le stime della Svimez, nell’ipotesi in cui venissero applicati dazi ai prodotti importati dall’Italia (e dagli altri Paesi) al 10%, il Pil italiano subirebbe una contrazione di 1,9 mld (0,1 % del Pil): -1,6 mld al Centro-Nord e -257 mln al Mezzogiorno.

In termini occupazionali, «l’effetto misurato in unità di lavoro a tempo pieno sarebbe di circa 27mila posti di lavoro in meno, principalmente concentrati nelle regioni del Centro e del Nord (-23mila)».

«Il Sud, dunque, subirebbe un impatto maggiore in termini di contrazione dell’export verso gli Usa, ma più contenuto sul Pil e occupazione, per effetto del minor contributo delle esportazioni al valore aggiunto dell’area».

«Per il Mezzogiorno – si legge – il mercato statunitense è particolarmente rilevante: complessivamente la quota Sud dell’export italiano destinato agli Usa si attesta al 12,4%, superiore di circa 2 punti percentuali alla quota verso il mondo. In alcuni settori specifici, come Automotive ed Elettronica&Informatica, il contributo del Mezzogiorno alle esportazioni italiane verso gli Stati Uniti raggiunge percentuali del 28,4%».

«Nell’Agrifood, il dato si attesta al 22,6% e per le esportazioni della Farmaceutica il contributo del Sud è pari all’11,2%. Sugli Energetici, oltre il 64% delle esportazioni italiane verso il mercato statunitense registra come provenienza una regione del Mezzogiorno», ha rilevato la Svimez.

Gli scenari considerati dall’Associazione sono due: 1) dazi per tutti i Paesi al 10% e 2) dazi per tutti i Paesi al 20%. Il risultato è stato disaggregato sia per settore che per circoscrizione. A livello settoriale, l’intensità dell’impatto varia a seconda della minore o maggiore elasticità della domanda rispetto all’aumento del prezzo dei vari prodotti.

Per i beni indifferenziati, per i quali una piccola variazione di prezzo può determinare una significativa variazione nella domanda in ragione di una maggiore sostituibilità con altri prodotti, gli effetti sulla contrazione delle esportazioni sono più evidenti: è questo il caso dei beni agroalimentari, farmaceutici e chimici dove, nello scenario 2, la contrazione percentuale delle esportazioni è compresa tra -13,5% e -16,4%.

Per i beni meno sostituibili, nel cui commercio e produzione l’Italia si colloca su segmenti di mercato a maggiore valore aggiunto come nel caso del Made in Italy (Moda e Mobilio), si registra la minore variazione percentuale (-2,6% nello scenario 2).

Per questi casi, le preferenze dei consumatori risultano meno suscettibili alle variazioni di prezzo, con conseguenze meno evidenti anche sui flussi commerciali. In una posizione intermedia si collocano le variazioni percentuali di settori tipicamente manifatturieri – meccanica e mezzi di traporto – che potrebbero subire contrazioni in termini di export intorno al -10%.

In base alle stime Svimez, «l’export italiano verso gli Usa si ridurrebbe del 4,3% nel caso di dazi orizzontali al 10%, con una contrazione in valore di 2,9 mld di export, cifra che salirebbe a 5,8 mld di euro (-8,6%) nel caso di un dazio generalizzato al 20%. Gli effetti differenziati a livello settoriale – in ragione di una differente elasticità della domanda al prezzo dei beni – determinano impatti territoriali differenti in base alla specializzazione produttiva delle esportazioni».

«Come richiamato in precedenza – si legge nello studio – la composizione settoriale dell’export del Mezzogiorno verso gli Usa si concentra su Agroalimentare e Automotive, particolarmente esposti agli effetti dell’introduzione dei dazi.

Per questi motivi, il Mezzogiorno potrebbe essere l’area del Paese più esposta alla minaccia Trump: la contrazione complessiva dell’export verso gli Usa appare infatti più accentuata al Sud sia nello scenario 1 (-4,2% Centro-Nord; -4,7 Mezzogiorno) che nello scenario 2 (-8,5% Centro-Nord; -9,3% Mezzogiorno).

Questo potenziale shock negativo di domanda – la contrazione delle esportazioni verso gli Usa – determinerebbe a cascata effetti misurabili anche su Pil e occupazione, sottraendo produzione e lavoro all’economia nazionale.

Per la Svimez «l’impatto Trump sull’economia italiana si accentua nello scenario 2. In questo caso, la perdita di Pil raggiungerebbe i 3,8 mld: 3,2 mld al Centro-Nord e oltre -0,5 mld al Sud e i posti di lavori a rischio supererebbero i 54mila: -46mila nelle regioni centro-settentrionali e -7mila nel Mezzogiorno».

Nell’ipotesi in cui la strategia commerciale di Trump dovesse orientarsi verso misure protezionistiche estreme, introducendo dazi al 100% per l’Automotive importato, «le conseguenze per il Paese, e per il Mezzogiorno in particolare, sarebbero molto più gravi di quanto emerso negli scenari 1 e 2», ha evidenziato la Svimez, introducendo un terzo scenario, che considera un dazio al 100% per le auto, mantenendo al 20% i dazi per i restanti beni, la contrazione delle esportazioni passerebbe a livello nazionale a -8 mld (-12%), con un crollo dell’export di auto di -2,9 mld, riduzione concentrata per oltre un terzo nelle regioni meridionali».

«Sotto queste ipotesi – si legge – l’impatto negativo salirebbe a 0,3 punti di Pil (-5,4 mld): -4,4 mld al Centro-Nord e -1 mld al Sud. Il crollo dell’export metterebbe a rischio circa 76mila, di cui circa 14 mila occupati in una regione del Sud».

«In conclusione – si legge – se alle dichiarazioni di Trump dovessero seguire i fatti, questi metterebbero a rischio gli equilibri commerciali internazionali, con effetti non trascurabili anche sull’economia italiana e dei suoi territori».

«La partnership commerciale Italia-Usa è un nodo centrale nelle relazioni internazionali del nostro Paese e una deriva protezionistica oltreoceano può seriamente compromettere la tenuta dei settori più esposti, con potenziali ricadute occupazionali negative», scrive ancora la Svimez, evidenziando come «le stime presentate rilevano almeno tre criticità nella strategia di internazionalizzazione del Paese.

Da un lato, l’Italia presenta relazioni internazionali poco diversificate, commerciando con un numero di Paesi relativamente ristretto: situazione che non consente di diversificare il rischio derivante da misure protezionistiche nell’eventualità in cui uno di questi decida di introdurle o inasprirle. In secondo luogo, emerge un tema di specializzazione settoriale che inevitabilmente incrocia la dimensione territoriale del sistema produttivo italiano.

Concentrando il commercio estero su beni ad alta sostituibilità – alta elasticità alle variazioni di prezzo – si espone in misura maggiore la tenuta dell’export italiano, con effetti di spiazzamento più dirompenti su produzione e lavoro. Lo studio evidenzia, inoltre, come beni a maggior valore aggiunto (es. Made in Italy) siano meno esposti alle oscillazioni di domanda indotte dalle misure protezionistiche.

E che quindi investire per rafforzare questi settori rappresenta un’azione concreta per preservare la tenuta complessiva dell’economia. Infine, la concentrazione territoriale dei settori più vulnerabili all’introduzione e all’inasprimento dei dazi determina effetti particolarmente rilevanti per il tessuto industriale meridionale.

In uno scenario caratterizzato dal rischio di crescenti tensioni commerciali a livello globale appare, dunque, sempre più necessario definire strategie di politica industriale che sostengano la diversificazione della composizione settoriale del tessuto produttivo e il rafforzamento e la diffusione dei processi di internazionalizzazione delle imprese, soprattutto nelle aree a maggior potenzialità di crescita del Mezzogiorno. (rrm)

GRAVI RITARDI E TROPPE INADEMPIENZE
PER LA NEUROPSICHIATRIA INFANTILE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – I bambini e gli adolescenti con patologie psichiatriche calabresi non possono più aspettare. Hanno bisogno di una struttura adatta alle loro esigenze e ai loro bisogni.

Ed è paradossale che, in Calabria, non ci sia una Rete di Unità Operative Complesse Ospedaliere di Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza. Una mancanza che, come denunciato dal neuropsichiatria infantile Giovanni Schipani, comporta una migrazione sanitaria altissima – spesso verso il Centro-Nord – per avere una diagnosi e per ricevere le terapie (per esempio interventi ortopedici (per esempio interventi chirurgici ortopedici negli esiti di Paralisi Cerebrali Infantili o neurochirurgici). Solo nel 2022 si è registrata una mobilità passiva di 788 bambini.

Una situazione insostenibile già nel 2022, anno in cui la Rete Associativa di Comunità Competente aveva avanzato delle proposte al presidente della Regione e commissario ad acta, Roberto Occhiuto e al sub-commissario Esposito, per trovare una soluzione a questa situazione, ma senza risultati. Un silenzio che è stato ribadito nell’incontro dello scorso novembre, svoltosi al Centro Comunitario Agape di Reggio Calabria e coordinato da Rubens Curia, portavoce di Comunità Competente e da Mario Nasone, presidente del Centro Comunitario Agape.

È nel corso dell’incontro che il neuropsichiatra Schipani ha lanciato l’allarme, sottolineando come «i servizi di NPIA territoriali sono sottostimati per numero e per personale, con la conseguenza che solo un esiguo numero di minori con disturbi delle funzioni affettive e sociali o con disturbi post traumatici o di adattamento è seguito dai servizi pubblici; mentre la maggioranza delle famiglie è costretta a rivolgersi ai servizi privati, pagando così costi molto elevati» e di come «anche i servizi riabilitativi, ed in particolare i Centri di riabilitazione ambulatoriale, sono molto carenti, con laggravante di essere distribuiti in modo disomogeneo nel territorio metropolitano, con alcune zone, come la Locride, particolarmente scoperte».

Per la Rete si tratta di «un dato drammatico: mediamente sono circa 1000, solo nell’Asp di Reggio Calabria, i bambini che restano appesi alla lista d’attesa per circa 24/36 mesi, e ciò rende vano ogni discorso sull’appropriatezza degli interventi essendo, la precocità della presa in carico, il fattore più importante per garantire l’efficacia e la qualità degli interventi riabilitativi».

«Il presidente Occhiuto, a cui abbiamo dato atto, nel novembre 2022 – dice la Rete – ha deliberato un DCA che prevedeva lattivazione, presso lAzienda Ospedaliera Universitaria Dulbecco, di una Unità Operativa Complessa con 12 posti e due presidi al Gom di Reggio e allAnnunziata di Cosenza; inoltre è stata prevista, allinterno della Rete Territoriale, lattivazione di tre comunità sanitarie riabilitative a Reggio, Catanzaro e Cosenza. Tutte e due le disposizioni sono state disattese nonostante la Regione abbia avuto una premialità di 60 milioni per la rete ospedaliera con la previsione di altrettanto risorse nella fase successiva».

Tuttavia, per la Rete di Comunità Competente «la mancanza di questi interventi ha contribuito ad acuire i disagi dei minori e delle loro famiglie e di istituzioni, come i Tribunali per i minorenni e i Servizi di giustizia minorile, impossibilitati ad intervenire in mancanza di servizi di supporto, situazione gravissima che ha già provocato episodi di autolesionismo e di comportamenti violenti di minori collocati in comunità che non dispongono dei requisiti professionali per intervenire adeguatamente».

«Altro danno – spiega la Rete – laumento esponenziale della spesa regionale per gli interventi ed i ricoveri fatti fuori regione, oltre 1 milione di euro per la mobilità passiva nel 2022 per i ricoveri fuori Regione».

Pertanto, «le sottoscritte Associazioni aderenti alla rete di Comunità Competente ribadiscono con urgenza le proposte più volte esposte in vari incontri alla Struttura Commissariale Regionale: Si istituisca, da parte della Commissaria Straordinaria, la UOC di Neuropsichiatria Infantile presso la AOU Dulbecco e di conseguenza le due UO presso le A.A.O.O di Cosenza e Reggio Calabria, come stabilito dal Programma Operativo Regionale nel novembre 2022; Si attivino le tre Comunità sanitarie riabilitative definendo i Requisiti Strutturali ed Organizzativi e procedendo allaccreditamento dei relativi servizi, tenuto conto anche delle diffide inviate al Dipartimento Tutela della Salute; Si assuma il personale mancante per le Asp e le Aziende Ospedaliere utilizzando, anche, le graduatorie vigenti».

«Ulteriori ritardi da parte del management della Dulbecco e della Regione non possono essere più tollerati. Riteniamo che, su questa importante e delicata problematica, che coinvolge i nostri bambini, larticolo 32 della Costituzione non sia stato attuato».

«Per tale motivo chiediamo, con urgenza, al Presidente Occhiuto ed alla Struttura Commissariale che si attivino in merito superando le resistenze ed i muri di gomma che ci sono stati nellapplicazione del Programma Operativo approvato con un Dca del novembre 2022, chiediamo, inoltre, un incontro che ponga fine a questa lunga melina”», ha detto la Rete, annunciando una «mobilitazione per informare, con cadenza mensile, tutta la cittadinanza dello stato di avanzamento degli impegni che saranno assunti».

Un appello, quello della Rete, composta da 53 membri, che il presidente della Regione non può più ignorare. Lo stesso Garante regionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, Antonio Marziale, nel corso della sua relazione annuale (2024), aveva rilevato come «nonostante limpegno del governatore, ad oggi ancora in Calabria non c’è un reparto pubblico di Neuropsichiatria infantile. Proprio in una Regione in cui ce ne sarebbe, per altro, più bisogno visto lalto indice di disagio psicosociale, di povertà economica. Questa è certamente la priorità assoluta».

Per Marziale, infatti, «la Calabria non è una regione a misura di minore». Parole che dovrebbero far riflettere e portare ad azioni incisive e definitive che portino la regione a essere a “misura di bambino” non solo per le spiagge e le strutture ricettive, ma soprattutto per l’insindacabile diritto alla salute e alla cura nella propria regione.

TERZO MANDATO, MA È DAVVERO UTILE?
UNA DISCUSSIONE SIMILE ALL’ARIA FRITTA

di PINO APRILE – La questione del Terzo mandato ai presidenti di Regione (la possibilità di candidarsi dopo essere stati già eletti due volte) potrebbe dare l’incrinatura che fa franare il castello-Italia; ed è comunque un fenomeno della stessa natura dell’Autonomia differenziata, della Questione meridionale.

Se il sistema di potere nazionale, ferocemente nord-centrico, non riuscisse a disinnescare questa mina a tempo (ci sono sei mesi per farlo), il processo di frammentazione del Paese avrebbe una accelerazione forse decisiva, irreversibile.

E in tale scenario, diventerebbe più fattibile, probabile, la secessione del Sud (ove non fosse resa impossibile da una disgregazione in pezzi sempre più piccoli e “mangiabili”).

Ovvio che sarebbe meglio avere un Paese più grande e solido, per reggere le sfide enormi della globalizzazione e di oligarchie planetarie che ne sono al tempo stesso madri e figlie. Ma un Paese è tale solo se equo, una casa in cui conviene stare per tutti quelli che ci abitano; se figli e figliastri, Nord e Sud, chi tutto e chi niente, allora meglio soli.

Lo scontro fra le segreterie nazionali dei partiti e i potentati regionali ripropone, a livello molto più alto, quanto una trentina di anni fa si ebbe con quello che fu chiamato “Il partito dei sindaci”. La legge del 1993 rese diretta l’elezione del primo cittadino, prima dominata dai dirigenti di partito. Sorsero, così, e acquisirono dimensione politica che debordò dagli stessi confini locali, figure di sindaci che (pur se proposti dagli stessi partiti) conquistarono consensi e visibilità personali: Massimo Cacciari a Venezia, Enzo Bianco a Catania, Riccardo Illy a Trieste, Antonio Bassolino a Napoli, Leoluca Orlando a Palermo…

Finirono per contare più loro, e non solo nella propria città, che i partiti o le coalizioni di origine, al punto che potevano candidarsi contro quelli e sconfiggerli, in caso di contrasti. E si vide il rischio reale di una rete-alleanza fra quei potentissimi sindaci, per dare indicazioni alle segreterie nazionali e non ricevere; e magari saltarne la mediazione per proporsi ai governi quali interlocutori diretti.

La mina fu disinnescata ostacolando politicamente in loco i sindaci che si allargavano troppo, blandendone altri e lasciandoli poi sospesi, rimuovendone altri ancora (con uso di promozione: chi al parlamento, al governo)… Tangentopoli fece il resto.

Questa volta, la faccenda è persino più seria, perché la dimensione territoriale e politica non è quella cittadina, ma regionale. E i potentati locali sono tali da poter reggere da soli e da ridurre i partiti nazionali a poca cosa: provate a immaginare cosa resterebbe della Lega se il Veneto virasse su una creatura politica di Luca Zaia e la sua rete di potere, costruita nel corso di tre mandati da presidente (la legge che li limita a due fu emessa dopo la sua prima presidenza). Tanto che ha già pronto un suo movimento.

E le cose non andrebbero diversamente in Campania, per il Pd: la rete di potere di Vincenzo De Luca non è del partito, ma sua. E anche lui ha pronto un movimento per concorrere alla rielezione “in proprio”.

Il problema, quindi, ce l’hanno sia la destra che la sinistra. Né va dimenticato che la sciagurata legge elettorale che rende i parlamentari tutti dei “nominati” dalle segreterie nazionali, fu varata di concerto fra i partiti, al di là di quanto viene poi dichiarato o di chi l’abbia materialmente firmata.

Se, dalla Meloni alla Schlein (Salvini si nasconde dietro Giorgia, dovendo fingere di essere dalla parte di Zaia), le dirigenze nazionali dei partiti tengono il punto e non rimuovono il vincolo del terzo mandato, alle prossime elezioni potrebbe esserci il terremoto.

Né il tentativo di “promuovere e rimuovere” Zaia e De Luca può avere serie possibilità di andare a segno: i due non sono dei Nello Musumeci cui basta dare la patacca di ministro all’Acqua salata, per fargli svendere la Sicilia già disastrata dalla sua presidenza. Zaia era ministro all’Agricoltura e lasciò la scena nazionale, per fare il presidente della sua Regione. Lui e De Luca sanno benissimo che il loro potentato locale vale molto di più di un ministero.

La differenza fra essere sindaco e ministro si vedeva e seduceva; con le Regioni, il vantaggio è al contrario. In più, ed è la cosa più importante, il presidente di Regione viene “nominato” dal popolo che lo vota e del cui consenso sa di poter disporre persino contro il suo partito; mentre il ministro è tenuto per le… spalle dal capo del governo e dal gioco di correnti del partito, che capitalizza il consenso territoriale, sottraendolo al singolo ministro. Insomma: non c’è lotta.

In Veneto, la Lega è scesa dal 49,9 per cento al 13 circa; mentre Fratelli d’Italia è salito al 33 e vuole, giustamente, un suo candidato. Se Zaia, scartato, si presentasse con il suo movimento, la più probabile ipotesi sarebbe la sconfitta di una destra scomposta in troppi pezzetti (della Lega non rimarrebbe quasi nulla) e il Veneto potrebbe passare al centrosinistra (se non si frantumasse ancora più della destra). Una perdita di posizione clamorosa per la maggioranza di governo.

In Campania, a ruoli invertiti, se il movimento di De Luca spezzasse ulteriormente il centrosinistra, la presidenza potrebbe tornare alla destra.

Ma gli scenari sono talmente incerti, confusi, mutevoli, che può accadere di tutto. Di sicuro, il potere delle segreterie nazionali dei partiti ne risulterebbe irrimediabilmente indebolito.

Ancora di più, però, lo sarebbe se cedessero alle richieste degli ingombranti esponenti locali candidati presidenti a vita, perché questo ne consoliderebbe il potere e segnerebbe un vero e proprio passaggio del testimone dal centro alla periferia.

Esattamente quello che si cerca di fare con l’Autonomia differenziata.

In tal modo, si rafforzano le identità e gli interessi locali contro quelli nazionali, si alimentano gli egoismi di campanile e si coinvolgono non soltanto le élite, ma le popolazioni al seguito e a servizio di quelle. E basterà poco, poi, per recidere l’ultimo filo.

Non ci si dovrebbe sorprendere se la linea delle fratture riproponesse quelle dei confini fra gli stati preunitari, che vennero messi insieme con la forza e referendum farlocchi che fecero gridare allo scandalo, persino gli osservatori della superpotenza imperiale (all’epoca: la Gran Bretagna) che pianificò e condusse l’unificazione dell’Italia.

Erano sette, con il Lombardo-Veneto occupato dagli austriaci. Il più antico e grande, nei suoi confini, era il Regno delle Due Sicilie, con l’isola che tendeva (e tende) a essere unica, solitaria.

In un’Italia che andasse in pezzi, quello stato (ovviamente non rimettendo le dinastie sui loro troni) potrebbe rinascere, perché stufi di essere trattati da colonia e cittadini di serie B, i meridionali hanno tutto il diritto e l’interesse di dire: «Se non possiamo stare alla pari, allora meglio soli».

Hanno finto di unificare l’Italia; l’hanno disegnata con una colonia interna da cui estrarre risorse, anche umane, per alimentare il benessere di poche regioni. Ma dalle e dalle, arriva il momento in cui si vuole sempre di più da una parte e si capisce sempre di più dall’altra. E la corda si spezza.

Obiezione: eh, ma ‘sto po’-po’ di disastro, solo perché Zaia e De Luca vogliono il terzo mandato? Il fatto è che tutte queste tensioni, gli strappi, vanno nella stessa direzione: la periferia si emancipa dal centro, perché il centro non ha saputo (“voluto”, sarebbe il termine giusto; e più corretto ancora: “potuto”, pur se avesse voluto) unificare davvero il Paese. Era diviso, è stato mantenuto diviso negli stessi confini, e può facilmente tornare diviso, magari per saziare gli appetiti dei caimani di poteri finanziari e politici internazionali che vogliono “un po’ di Italia”: è così bella, a me niente?

Uno strappo dopo l’altro, fra un po’ si strappa. Poi daranno la colpa all’ultimo che tira. (pa)

ALLARME A REGGIO: LA TERRA DEI FUOCHI
TANTE DENUNCE, MA NESSUN INTERVENTO

di PASQUALE ANDIDEROLa Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha decretato che lo Stato italiano ha violato il diritto alla vita degli abitanti della “Terra dei fuochi” per non essersi occupato del problema in modo tempestivo ed efficace.

La Corte ha definito il rischio alla vita per gli abitanti della Terra dei fuochi come «sufficientemente serio, reale e accertabile» e qualificabile come «imminente», e ha decretato che lo Stato italiano «fosse a conoscenza del problema da molti anni». Nonostante questo, lo Stato non ha affrontato «una situazione così grave con la diligenza e la tempestività necessarie», anche nell’ambito della prevenzione e della comunicazione dei rischi alla popolazione. 

La terra dei fuochi è anche Reggio Calabria, Mosorrofa, Sala di Mosorrofa, Mortara, Arghillà, Rione Marconi e non solo da anni denunciano l’esistenza di enormi discariche che periodicamente prendono fuoco. Nel corso della presentazione del libro Portami al Mare di Domenico Latino a Mosorrofa, in una sala gremita di persone presenti più che per la presentazione del libro per l’argomento che si trattava “Discariche, roghi e incidenza di Tumori”, ancora una volta è venuta fuori la fatidica domanda se c’è relazione tra essi.

Presente tra i relatori il dr. Giovanni Tripepi, dirigente di Ricerca CNR, che ha avviato lo studio epidemiologico promosso dalla garante regionale della salute prof.ssa Anna Maria Stanganelli, appunto su rifiuti, roghi e danni alla salute.

Il dr. Tripepi ha dichiarato che lo studio non ha ancora potuto, per motivi di privacy, indagare nello specifico l’incidenza nei vari quartieri mentre si sa, da consultazioni più ampie, che la città di RC nella sua totalità è nella media nazionale. Lo stesso è stato però chiarissimo nell’asserire che «non dobbiamo chiederci se c’è correlazione tra discariche roghi e salute perché è accertato che tutti i roghi sono dannosi alla salute e che la combustione dei rifiuti e altamente pericolosa per cui la vera domanda è quando si manifesterà il danno su chi è stato esposto agli inquinanti liberati».

Il ricercatore Tripepi stimava, nel corso dei 15 anni, il tempo di latenza dall’esposizione per la manifestazione dei danni alla salute. Nelle nostre discariche insistono materiali di ogni tipo, finanche l’amianto. I continui roghi liberano nell’aria diossina, fibre di amianto, e tante altre sostanze tossiche che noi, malcapitati, ingeriamo con la respirazione. 

A Mosorrofa, zona che conosco meglio, e da più di un ventennio che si va avanti con accumulo di rifiuti e combustione degli stessi e spesso d’estate arriva fin dentro casa quell’odore insopportabile di bruciato, di plastiche combuste, che ci costringe a chiudere porte e finestre che allontanano l’odore ma non sicuramente il rischio di aver respirato sostanze nocive. Negli ultimi 5 anni più volte abbiamo richiesto la bonifica e la messa sotto sorveglianza dei siti in questione, nulla si è mosso.

A niente sono serviti i sopralluoghi degli amministratori comunali, dei carabinieri forestali, delle comunicazioni fatte a prefetti e procure, delle attenzioni dei media. I cittadini hanno paura e ora, dopo la relazione del dr. Tripepi ma ancor di più dopo la sentenza della Corte Europea, si chiedono perché chi può e deve intervenire non lo fa? Si chiedono se possono denunciare chi di competenza deve occuparsi di questo problema e facendo orecchie da mercante lo accantona?

Di fronte alle tante morti per tumore che si stanno verificando le autorità preposte, si possono imputare di omicidio colposo? Non sappiamo se dal punto di vista legale questa imputazione può reggere ma sicuramente dal punto di vista morale è omicidio. Quanto decretato dalla Corte Europea per l’Italia può essere applicato ai nostri amministratori che sapendo da tanto tempo di un rischio reale, serio e imminente continuano a posporre all’infinito un vero intervento per proteggere la vita dei cittadini? (pa)

ANALFABETISMO FUNZIONALE, IN CALABRIA
È SOLO COLPA DELLA FORMAZIONE?

di ROCCO ROMEO – Un dato allarmante emerge dall’ultima indagine OCSE: oltre il 30% degli italiani adulti è classificabile come analfabeta funzionale. Questo significa che più di un terzo della popolazione adulta del Paese ha difficoltà significative nel comprendere un testo, analizzare informazioni complesse o risolvere problemi di base.

Una realtà che pone l’Italia all’ultimo posto tra i Paesi industrializzati, rendendo evidente l’urgenza di un intervento strutturale su più fronti.

Il peso del Mezzogiorno e il caso della Calabria

La situazione è particolarmente critica nel Mezzogiorno, e la Calabria rappresenta uno degli esempi più preoccupanti. In questa regione, i livelli di alfabetizzazione funzionale e digitale sono tra i più bassi d’Italia, un dato che si riflette non solo sulle opportunità personali dei cittadini, ma sull’intero tessuto sociale ed economico. Nonostante gli sforzi messi in campo, le scuole calabresi continuano a fronteggiare carenze infrastrutturali, una cronica mancanza di risorse e una dispersione scolastica tra le più alte del Paese.

La Calabria soffre anche di una forte disuguaglianza nell’accesso all’istruzione di qualità: molte aree interne e rurali mancano di scuole adeguate e moderne, costringendo numerosi giovani a percorrere lunghe distanze o ad abbandonare gli studi. Questo squilibrio territoriale contribuisce a peggiorare il divario rispetto al resto del Paese, limitando le possibilità di crescita economica e sociale.

Le cause di un problema strutturale

Le radici dell’analfabetismo funzionale sono profonde. Da un lato, la scuola fatica a garantire una formazione solida e continua, specialmente nelle regioni più svantaggiate come la Calabria. Dall’altro, decenni di politiche inadeguate non sono riusciti a contrastare fenomeni come la dispersione scolastica, l’abbandono precoce e la mancanza di connessione tra scuola e mondo del lavoro.

La transizione digitale ha amplificato ulteriormente il problema: in Calabria, dove l’accesso a internet è meno diffuso e le competenze tecnologiche sono limitate, il rischio di esclusione sociale ed economica è ancora più alto. Senza una strategia mirata, questa regione rischia di rimanere intrappolata in un circolo vizioso di povertà educativa e disuguaglianza.

Le conseguenze: una democrazia fragile

L’analfabetismo funzionale non è solo un problema individuale, ma un freno per l’intera società. La difficoltà di comprendere e analizzare informazioni complesse riduce la partecipazione civica, rendendo le persone più vulnerabili alla manipolazione mediatica. Questo fenomeno mina le basi della democrazia e ostacola lo sviluppo economico in un contesto globale dove conoscenza e competenze sono risorse fondamentali.

Le possibili soluzioni

Per affrontare l’emergenza, è necessario un piano strategico che metta al centro la scuola e l’apprendimento permanente:

Potenziamento delle competenze linguistiche e logiche fin dalla scuola primaria, con interventi mirati nelle regioni più svantaggiate come la Calabria.

Lotta alla dispersione scolastica, soprattutto nelle aree rurali e interne, attraverso incentivi, borse di studio e supporti per le famiglie in difficoltà.

Investimenti in infrastrutture scolastiche e digitali, con particolare attenzione alle regioni del Mezzogiorno. In Calabria, questo significa garantire connessione internet nelle scuole e nelle comunità isolate.

Formazione continua per gli adulti, coinvolgendo aziende e istituzioni locali per creare percorsi di riqualificazione accessibili e gratuiti.

La scuola sta facendo la sua parte?

La scuola italiana è chiamata a evolversi per colmare il divario delle competenze, ma la Calabria ha bisogno di interventi mirati e immediati. Le politiche educative devono adattarsi ai cambiamenti della società e alle esigenze dei territori, soprattutto quelli più deboli. Solo con un sistema scolastico moderno, inclusivo e attento alle specificità regionali, l’Italia potrà combattere l’analfabetismo funzionale e garantire alle nuove generazioni un futuro migliore.

Conclusione

L’analfabetismo funzionale è un ostacolo che l’Italia, e in particolare regioni come la Calabria, non può più ignorare. Serve un’azione decisa e strutturata, capace di mettere al centro del dibattito pubblico l’importanza dell’istruzione e della cultura. Solo così potremo costruire una società più equa, competitiva e preparata ad affrontare le sfide del futuro. (rr)

 

ZES UNICA, UNA OPPORTUNITÀ DIMEZZATA
SE MANCANO ANCORA LE INFRASTRUTTURE

di MARIAELENA SENESE – La Zes Unica potrebbe rappresentare un volano di sviluppo per la Calabria, ma senza un adeguato potenziamento infrastrutturale il rischio è che resti un’opportunità dimezzata.

Non si può parlare di attrattività per le imprese se la Regione continua a essere tagliata fuori dai grandi assi di collegamento ferroviario e stradale. I dati, infatti, evidenziano che questa potenzialità è ancora frenata da ritardi e carenze strutturali. Con sole 24 autorizzazioni uniche rilasciate, rispetto alle 221 della Campania e alle 75 della Puglia, è chiaro che il nostro territorio non sta sfruttando appieno le possibilità offerte da questo strumento.

L’ennesima dimostrazione di questa logica penalizzante è il divario negli investimenti sull’Alta Velocità: il governo ha stanziato 8 miliardi di euro per il Nord e solo 3,8 miliardi per il Sud, escludendo di fatto la Calabria.

Se per Alta Velocità in Calabria si intende il solo tratto fino a Praia a Mare, allora stiamo parlando del nulla. Rete ferroviaria italiana ha annunciato che la progettazione dei lotti da Praia fino a Reggio è in itinere, ma senza l’affiancamento delle risorse necessarie questa fase resta solo un esercizio tecnico senza prospettiva concreta.

Oltre, poi, a garantire il finanziamento dell’Alta Velocità fino a Reggio Calabria, è essenziale valutare con attenzione il tracciato della linea AV, in particolare il passaggio da Tarsia. Se non si considera una connessione efficace tra la nuova linea ad alta velocità e l’area jonica cosentina, si rischia di investire risorse senza garantire uno sviluppo equilibrato del territorio.

Escludere dalla rete AV la parte jonica cosentina significa condannarla a un isolamento infrastrutturale perpetuo, con il rischio di aggravare le disuguaglianze già esistenti tra i diversi territori della Calabria.

È fondamentale che le istituzioni regionali e nazionali tengano conto di questa criticità, assicurando collegamenti efficienti tra la linea AV e la fascia jonica, affinché l’alta velocità diventi davvero uno strumento di crescita per tutta la regione e non solo per una parte di essa.

La Calabria sconta decenni di ritardi e mancati investimenti, con un gap infrastrutturale evidente rispetto al Centro-Nord e perfino rispetto ad altre regioni del Mezzogiorno. Non bastano fondi ordinari, servono risorse straordinarie, superiori a quelle destinate altrove, perché qui il ritardo accumulato è enorme. Servono certezze sui finanziamenti, non solo progetti sulla carta.

La Calabria ha bisogno di risorse straordinarie, superiori a quelle destinate ad altre regioni, perché i ritardi infrastrutturali accumulati in decenni di disinteresse sono enormi. Senza un piano serio per il potenziamento della rete ferroviaria e stradale, si condannerà la regione all’isolamento. Senza le risorse economiche necessarie questa progettazione resta solo un esercizio di stile.

Non si può ignorare  la situazione della Strada Statale 106 relativamente alla quale siamo ancora in attesa del decreto di nomina del commissario straordinario!!!!

Senza collegamenti moderni ed efficienti, la Zes rischia di rimanere un’operazione di facciata. Le imprese non investono in territori isolati, privi di connessioni rapide con il resto d’Italia e d’Europa. Il porto di Gioia Tauro, principale hub del Mediterraneo, può diventare un volano per l’economia regionale solo se supportato da una rete ferroviaria e stradale all’altezza delle esigenze produttive.

La Uil Calabria chiede con forza che si metta fine alla logica delle promesse. Se vogliamo che la Zes Unica diventi un vero attrattore di investimenti e non solo un’etichetta vuota, bisogna garantire alle imprese collegamenti efficienti e competitivi. Non si può parlare di sviluppo senza infrastrutture.

La Calabria non può permettersi di marciare con il freno a mano tirato. La Zes Unica, se accompagnata da un serio piano di potenziamento infrastrutturale, può diventare il motore di sviluppo che questa regione attende da anni. È tempo di abbandonare l’immobilismo e dare alla Calabria la dignità infrastrutturale che merita. (ms)

[Mariaelena Senese è segretaria generale Uil Calabria]

RIFORMA PORTUALITÀ, IL SUD DIVENTERÀ
IL PIÙ GRANDE HUB DEL MEDITERRANEO

di ERCOLE INCALZA – In più occasioni, in questi anni, ho ricordato che la riforma della portualità era presente nei programmi dei Governi Renzi, Gentiloni, Conte 1, Conte 2, Draghi e dell’attuale Governo; cioè era ed è un obiettivo annunciato dal 2015 e rimasto solo un atto programmatico o meglio una semplice buona intenzione.

Ha ragione il Presidente di Federlogistica, Luigi Merlo, nel ritenere che il punto di partenza della riforma debba essere il ruolo e le funzioni dell’Autorità di Sistema Portuale e dei suoi Presidenti ma questo processo deve, a mio avviso, portare alla formazione di un assetto societario e, al tempo stesso, di una rivisitazione sostanziale sia del numero delle Società e quindi dei relativi sistemi portuali, sia dell’inserimento, in ogni sistema, degli interporti strettamente interagenti.

Inoltre, tra i vari ruoli va considerato uno in modo particolare, mi riferisco alla dimensione industriale dei porti e alla rappresentanza, nella governance dei singoli porti, degli enti territoriali. Un porto è diverso da un aeroporto e da una grande stazione ferroviaria? Ad avviso di chi scrive la risposta giusta dovrebbe essere “non dovrebbe”. Ma al momento il porto, come realtà industriale, vive l’eccezionalità di essere ancorata ad una distinzione sbagliata tra l’interesse strategico e pubblico delle politiche che hanno ad oggetto i porti ed il porto come impianto industriale.

Di seguito prospetto, quindi, una prima ipotesi di questo nuovo impianto della offerta logistica portuale ed interportuale del Paese:

Sicuramente non ho inserito dei nodi logistici, sia portuali che interportuali, e mi scuso in partenza di possibili dimenticanze ma ritengo che i sette sistemi rispettino quanto già proposto sia nel Piano Generale dei Trasporti approvato nel 1986, sia nella apposita Legge del 1987 che riconobbe la validità di una simile scelta; una Legge che però non fu mai resa operativa.

Ebbene, queste sette realtà possono diventare Società per Azioni con una maggioranza pubblica del 51%; una maggioranza delle azioni pubbliche controllate da un unico organismo facente capo a quattro Dicasteri (Ministeri dell’Economia e delle Finanze, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Ministero delle Imprese e del made in Italy, Ministero della Difesa).

Una tale proposta contiene una serie di convenienze: si offre una articolata sommatoria di realtà portuali ed interportuali ad un organismo come la Società per Azioni che, in base ad una misurabile autonomia gestionale, è in grado di dare vita a forme di concorrenza e di integrazione funzionale con altre realtà nazionali ed internazionali; si consente all’Amministratore Delegato della Società di produrre Piani Economici e Finanziari (Pef) organici e misurabili; si consente alla partecipazione pubblica nelle sette Società di rappresentare, in modo sistematico e motivato, gli interessi e le strategie dello Stato nella gestione della offerta portuale ed interportuale del Paese; un interesse che può anche essere garantito da una Società o da un apposito Dipartimento composto dai Dicasteri prima richiamati (Ministeri dell’Economia e delle Finanze, delle Infrastrutture e dei Trasporti, delle Imprese e del made in Italy, della Difesa); si creano le condizioni per una trasparenza non solo delle gestioni dei singoli Hub ma anche di un misurabile quadro di introiti. In fondo prendono corpo vere forme innovative di Partenariato Pubblico Privato (PPP).

È solo una proposta, senza dubbio discutibile, ma spero possa essere una possibile base di un confronto concreto e costruttivo; una proposta di riforma che, per la prima volta, consente al Mezzogiorno di disporre di cinque sistemi portuali su sette, consente al Mezzogiorno di diventare il più grande Hub dell’intero Mediterraneo. (ei)