di VALERIO ARCOBELLI – La pandemia da Covid-19 ha colpito radicalmente il sistema sanitario regionale, che già mostrava le sue debolezze causate da una gestione commissariale rivelatasi fallimentare; ma soprattutto ha rivelato che è sempre più essenziale una programmazione – certamente di matrice politica – che miri a garantire servizi di prossimità, aprendo le frontiere al panorama dell’innovazione tecnologica.
L’impatto pandemico ha, altresì, indotto a nuove routine sociali che, inevitabilmente, hanno mutato gli stili di vita della cittadinanza attiva.
I rapporti sociali si sono trasformati radicalmente e il digitale ha trovato spazio con l’esplosione dei mezzi d’incontro multimediali che hanno, tuttavia, garantito la continuità di parecchie attività sociali.
Le difficoltà logistiche causate dalla pandemia hanno obbligato numerose aziende a dover gestire in tempi brevissimi la riorganizzazione dei flussi di lavoro, chiedendo ai propri dipendenti di lavorare dalle proprie dimore, con connessioni domestiche e attraverso strumentazioni spesso poco idonee. Tali esigenze organizzative, come afferma SVIMEZ – Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, hanno presto convertito il “telelavoro” in “Southworking”. Già a fine novembre 2020, infatti, erano stati in circa 100 mila a rientrare nelle proprie abitazioni meridionali.
Urgeva un piano per farli rimanere, ma nessun dialogo politico serio e strutturato è stato fatto finora. La ripopolazione demografica delle Regioni del Sud – ed in particolare della Regione Calabria – può essere alimentata dal fenomeno del SouthWorking. Lo stesso spiega come sia necessario avviare un confronto tra le parti coinvolte per mettere a terra una serie di iniziative di matrice politica per trattenere i giovani – o meno – che vogliano restare nel territorio meridionale per esercitare la loro attività professionale nella propria regione.
Non vi è da stupirsi, quindi, leggendo quanto emerge dalla ricerca svolta dal Sole 24 Ore su un campione di mille lavoratori. La maggior parte dei quali ha affermato di “essere disposto a trasferirsi dalla città a un’area rurale se potesse continuare a svolgere il proprio lavoro in modo flessibile e da remoto”, anche accettando la decurtazione di parte dello stipendio.
Il TheGuardian in un recentissimo articolo affermava che non si tornerà più a lavorare come prima, descrivendo lo schema rotazionale della settimana al quale hanno già aderito non solo alcuni giganti multinazionali come Google, Salesforce, Facebook e Hsbc, ma anche moltissime medie imprese dei settori più diversi.
Ci sono certamente attività che richiedono hardware, laboratori e macchinari e questo complicherebbe le cose per alcuni potenziali South Workers. È quindi necessario che Regione ed Università avviino un dialogo serio per costruire spazi di co-working attrezzati che possano essere condivisi tra il mondo della ricerca accademica ed il mondo industriale. Bisogna affrontare il tema in modo corale: dalle istituzioni all’Accademia. La Regione si faccia carico della volontà di lavoratrici e lavoratori che realmente vorrebbero costruirsi la propria realizzazione in Calabria, e questa opportunità non vada dispersa. Sii calendarizzi un impegno concreto, e si faccia rete con Confindustria, Confcommercio, CONFAPI e con tutti i sindacati a tutela delle Industrie. È necessario, altresì, avviare un dialogo con i sindacati dei lavoratori per ragionare nella maniera quanto più inclusiva possibile a tavoli di lavoro e modellazione di questa proposta. L’opportunità è ghiotta e non concretizzare le numerose idee che renderebbero realtà questa occasione, potrebbe costare alla Calabria molto nel breve e lungo periodo.
[Valerio Arcobelli è PhD student all’Università di Bologna e già rappresentante degli studenti all’Università di Catanzaro]