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IL RICORDO / Francesco Gagliardi: 79 anni fa il bombardamento di Amantea

L'OPINIONE / Francesco Gagliardi: Campora San Giovanni si vuole staccare da Amantea

di FRANCESCO GAGLIARDIIl 20 febbraio 1943 era sabato. La giornata era tiepida e soleggiata. Un rombo di un aereo rompe la quiete e il silenzio degli amanteani. Poi le bombe, i crolli delle case, le fiamme, il grido disperato dei feriti, la gente che scappa. Poi silenzio. Oltre 26 persone accertate giacciono sotto le macerie, altre, forse, sono rimaste per sempre sotto le pietre mai rimosse.

Il ricordo: Le case sciollate. Ed ogni volta che io passo di lì, ma fino agli anni ’70 prima che venisse costruita la superstrada Statale 18, tutti i mezzi provenienti dal sud necessariamente dovevano transitare per Via Indipendenza e attraversare il Rione Catocastro, penso a quelle vite spezzate, a quei sogni infranti di tanti fanciulli e fanciulle che quel giorno approfittando della tiepida giornata di sole forse giocavano alli “Cuti”, allu “Strigliu”, allu “Strumbulu”, allu “Campanaru” o forse nelle braccia cullavano una bambola di pezza e le cantavano una ninna nanna.

20 Febbraio 1943 – 20 Febbraio 2022, 79 anni sono trascorsi dal terribile bombardamento di Amantea che causò 26 vittime accertate, tanti feriti e la distruzione di case, di vie, e del ponte, che tutti dicono era il vero obiettivo. Ancora oggi si vedono le ferite, quelle case sciollate vogliono dirci che la guerra porta danni, distruzione, fame, miseria. Ci sono ancora le case sciollate. Basta guardare in alto passata la Chiesa di San Biagio. Una lapide si trova nelle vicinanze con i nomi incisi sul marmo dei morti di quel triste giorno e che noi non abbiamo mai dimenticato. La maggior parte erano bambini. Che del fascismo, del Duce, degli americani e dei bombardieri anglo-americani non sapevano nulla.

Apparecchio americano sgancia bombe e se ne va. Rimase ferito anche l’arciprete della Chiesa di San Biagio Don Francesco Perna. I vetri delle finestre della chiesa, per lo spostamento d’aria, andarono tutti in frantumi e Don Francesco fu investito da una pioggia di vetri che gli causarono la completa cecità. Si trovava in sacrestia. La guerra era arrivata nelle nostre case, ma i fascisti ci facevano credere  che la vittoria fosse vicina e che tutto andasse bene. Intanto il cibo scarseggiava ed erano finiti persino i fichi che le donne avevano messo nei “casciuni” per darli ai maiali. Non c’era più nulla da mangiare, solo quelle piccole cose che potevi ottenere  e non sempre con la tessera annonaria. E nel frattempo le bombe cadevano nelle nostre cittadine calabresi distruggendole, i treni ogni notte venivano mitragliati ( vi ricordate Pippo, il misterioso bombardiere che ogni sera alla solita ora si faceva vedere e indisturbato compiva solitario incursioni mitragliando nel buio della notte i treni?), i paesi piccoli venivano invasi dai profughi. Questa era la verità.

Ma noi ragazzi che frequentavamo la scuola elementare, ignari ed innocenti, e con la testa piena della propaganda fascista, cantavamo in coro ogni mattina prima dell’inizio delle lezioni “Vincere, Vincere e Vinceremo in cielo, in terra e in mare”. Sui muri delle case a lettere cubitali con la calce c’erano le scritte: “Vincere . W Il Duce”. Il mio paese e le campagne circostanti vennero invase dai profughi amanteani che scappavano dalla paura di essere accoppati portando con sé poca roba, il necessario, perché avevano capito che la guerra sarebbe finita al più presto.

L’esercito anglo americano si apprestava a sbarcare in Sicilia e si apprestava a marciare verso il Nord. Gli sfollati giunsero a piedi percorrendo le scorciatoie di Cannavina, alcuni in calesse, altri sui traini dei Fratelli Pizzino, altri sopra i carri tirati dai buoi. Amantea lentamente si svuotava.  Venne ad abitare vicino la mia abitazione la famiglia di Benedetto Andreani, commerciante di tessuti, e quella del fabbro Martire. Aldo Andreani e Rodolfo e Aldo Martire furono i miei nuovi compagni di gioco.

Benedetto Andreani portò a San Pietro in Amantea tutta la sua mercanzia che custodiva nel negozio di Amantea  per paura che i Tedeschi o gli Americani  la portassero via. Venne nascosta in due grandi “casciuni” con tutto il corredo da sposa di mia sorella Anna e di quella di Fernanda Lupi, la figlia dell’Ufficiale postale, nel sottoscala della mia casa e poi regolarmente murato. Invece il negoziante di scarpe “Vacchi Vacchi”, così veniva chiamato da tutti affettuosamente, aveva aperto il negozio nei magazzini della casa del commerciante Gioacchino Pinto in Via Caciarogna. Ricordo tutte queste cose come fosse stato ieri e ricordo pure benissimo  il bombardamento del 20 febbraio malgrado avessi appena 10 anni. Era il pomeriggio quel giorno.

C’era un magnifico sole. Ero al mastro quel pomeriggio nella bottega del sarto Amedeo Miraglia e di mastro Fiore, sfollato da Portici, che avevano la sartoria in Via Michele Bianchi ora Via del Popolo, a fianco dell’Era Nova del Cav. Sconza, in un magazzino dell’abitazione del Cav. Carratelli. Giocavo sul marciapiede con altri compagni alla “Campana”.

Vidi passare due aerei e poi un altro subito dopo, il quale aveva già sganciato le bombe su Amantea. Sentii il fragore delle bombe. Mi spaventai, buttai “la staccia” e insieme a mastro Fiore, mastro Amedeo e agli altri discepoli  tutti impauriti scappammo verso l’aperta campagna attraverso la Cavarella Soprana. Il giorno dopo abbiamo appreso del disastro che avevano provocato le bombe e del numero dei morti e dei feriti. Le bombe, per fortuna, risparmiarono la Chiesa Matrice di San Biagio, rasero al suolo il Palazzo Del Giudice. Trovarono la morte tutti i suoi abitanti. Dopo alcuni giorni si svolsero i solenni funerali di Stato. Le bare furono adagiate su camion militari adibiti a carri funebri. Una folla immensa partecipò al corteo funebre in silenzio e con tanta rabbia in corpo per quelle vite spezzate e innocenti. (fg)

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