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LA CALABRIA CRESCE, MA RESTA INDIETRO
TRA PIL BASSO, EMIGRAZIONE E CAROVITA

Luca Bianchi direttore della Svimez

La Calabria ingrana per la ripartenza, ma a fatica. La regione, infatti, rispetto al resto d’Italia, è terribilmente indietro su tutti i fronti, col rischio di aumentare, ancora di più, quel divario già esistente. È la fotografia emersa dal Rapporto Svimez L’economia e la società del Mezzogiorno presentato a Roma.

Il rapporto, infatti, ha evidenziato come la Calabria è una delle regioni che cresce meno in termini di ricchezza generata sul territorio. La nostra regione, infatti, per quanto riguarda il Prodotto Interno Lordo, ha registrato tra il 2021 e il 2022 una crescita del 9%, recuperando il -8,6% registrato nel 2020. Un dato che non deve condurre in errore: rispetto alle altre regioni italiane, infatti, il Pil della Calabria è tra i più bassi, seguito dalla Sicilia. Questi due, insieme, sono i più bassi della media nazionale, che è del 10,9%. Un trend che, purtroppo, è rimasto anche nelle scorse elaborazioni: tra il 2015 e 2019, la Calabria aveva il Pil allo 0,4% che, assieme a Sicilia (0,1%), erano i più bassi rispetto alla media nazionale (5,3%). Il dato peggiore, probabilmente, è stato registrato tra il 2008 e il 2014: la regione aveva perso il -14,3% del Pil, più di quanto aveva perso il Sud intero (-12,6%). Preoccupa, poi, la timida crescita del Pil della regione stimata dalla Svimez per il 2023 e 2024: +0,2% e +0,3%.

Per la Svimez «la dinamica del PIL italiano nel biennio 2021-22 si è mostrata uniforme su base territoriale: complessivamente, l’economia del Mezzogiorno è cresciuta del 10,7%, più che compensando la perdita del 2020 (–8,5%). Nel Centro-Nord, la crescita è stata leggermente superiore (+11%), ma ha fatto seguito a una maggiore flessione nel 2020 (–9,1%). Sempre in termini cumulati, il Mezzogiorno è riuscito a far meglio del Nord-Ovest (+10,7% contro +9,9%)».

«La novità di una ripartenza allineata tra Sud e Nord – si legge – sconta però l’eccezionalità del contesto post-Covid per il tenore straordinariamente espansivo delle politiche di bilancio e la diversa composizione settoriale della ripresa. Fatto 100 il dato di crescita cumulata del valore aggiunto extra-agricolo nel biennio, i servizi hanno contribuito per 71,1 punti nel Mezzogiorno e 63,6 nel Centro-Nord. Il contributo delle costruzioni si è spinto 7 punti oltre la media del Centro-Nord (18,9 contro 11,9). Ha inciso l’impatto espansivo esercitato dal Superbonus 110%. Lo sconto in fattura e la trasformazione della detrazione in credito d’imposta cedibile hanno favorito i beneficiari a basso reddito, spingendo il grado di accesso del Mezzogiorno a circa il 30% (tre volte superiore a quello osservato per analoghi interventi nel settore edilizio)».

«Viceversa, il contributo dell’industria è stato limitato nel Mezzogiorno – continua il rapporto – 10 punti contro i 24,5 del Centro-Nord. Le difficoltà dell’industria meridionale sono anche legate al consistente assottigliamento di base produttiva subìto tra il 2007 e il 2022: quasi –30% di valore aggiunto, contro una flessione del 5,2% nelle regioni centro-settentrionali. Ma il confronto europeo rivela il ritardo accumulato anche dall’industria del Centro-Nord: negli stessi anni il valore aggiunto industriale dell’UE a 27 è aumentato di quasi il 14%, quello della Germania di oltre il 16. Lo scivolamento congiunto dei sistemi industriali del Nord e del Sud è spiegato dalle interdipendenze di filiera che li lega, portandoli inevitabilmente a condividere difficoltà e prospettive di rafforzamento».

La Calabria, in particolare, per quanto riguarda i servizi, ha dato un importante contributo alla crescita cumulata nel 2021-2022 del valore aggiunto extra agricolo, con un 78,3. Un ottimo risultato è stato raggiunto, anche, per quanto riguarda le costruzioni (26,3) ma, per quanto riguarda l’industria in senso stretto, è l’unica ad aver registrato un dato negativo: -4,6%.

Per la Svimez, poi, al Sud è stato doppo l’impatto dell’inflazione sui redditi delle famiglie: l’inflazione, infatti, ha determinato nel 2022 un calo del 2,9% al Sud, oltre il doppio rispetto al Centro-Nord (-1,2%). Per l’Associazione, nel 2023 il carovita continua a colpire soprattutto le famiglie del Sud: -2% contro il 1-,2% al Centro Nord.

La novità di una ripartenza allineata tra Sud e Nord sconta però l’eccezionalità del contesto post-Covid per il tenore straordinariamente espansivo delle politiche di bilancio e la diversa composizione settoriale della ripresa. Fatto 100 il dato di crescita cumulata del valore aggiunto extra-agricolo nel biennio, i servizi hanno contribuito per 71,1 punti nel Mezzogiorno e 63,6 nel Centro-Nord. Il contributo delle costruzioni si è spinto 7 punti oltre la media del Centro-Nord (18,9 contro 11,9).

Ha inciso l’impatto espansivo esercitato dal Superbonus 110%. Lo sconto in fattura e la trasformazione della detrazione in credito d’imposta cedibile hanno favorito i beneficiari a basso reddito, spingendo il grado di accesso del Mezzogiorno a circa il 30% (tre volte superiore a quello osservato per analoghi interventi nel settore edilizio). Viceversa, il contributo dell’industria è stato limitato nel Mezzogiorno: 10 punti contro i 24,5 del Centro-Nord. Le difficoltà dell’industria meridionale sono anche legate al consistente assottigliamento di base produttiva subìto tra il 2007 e il 2022: quasi –30% di valore aggiunto, contro una flessione del 5,2% nelle regioni centro-settentrionali.

Ma il confronto europeo rivela il ritardo accumulato anche dall’industria del Centro-Nord: negli stessi anni il valore aggiunto industriale dell’UE a 27 è aumentato di quasi il 14%, quello della Germania di oltre il 16. Lo scivolamento congiunto dei sistemi industriali del Nord e del Sud è spiegato dalle interdipendenze di filiera che li lega, portandoli inevitabilmente a condividere difficoltà e prospettive di rafforzamento.

Positivo, invece, il riscontro sul lavoro: «rispetto al pre-pandemia – si legge nel Rapporto – la ripresa dell’occupazione si è mostrata più accentuata nelle regioni meridionali: +188 mila nel Mezzogiorno (+3,1%), +219 mila nel Centro-Nord (+1,3%)».

In tema di precarietà del lavoro, nella ripresa post-Covid dopo il «rimbalzo» occupazionale è tornata a inasprirsi la precarietà. Dalla seconda metà del 2021, è cresciuta l’occupazione più stabile, ma la vulnerabilità nel mercato del lavoro meridionale resta su livelli patologici. Quasi quattro lavoratori su dieci (22,9%) nel Mezzogiorno hanno un’occupazione a termine, contro il 14% nel Centro-Nord. Il 23% dei lavoratori a temine al Sud lo è da almeno cinque anni (l’8,4% nel Centro-Nord).

Tra il 2020 e il 2022 è calata la quota involontaria sul totale dei contratti part time in tutto il Paese, ma il divario tra Mezzogiorno e CentroNord resta ancora molto pronunciato: il 75,1% dei rapporti di lavoro part time al Sud sono involontari contro il 49,4% del resto del Paese. L’incremento dell’occupazione non è in grado di alleviare il disagio sociale in un contesto di diffusa precarietà e bassi salari.

La povertà ha raggiunto livelli inediti. Nel 2022, sono 2,5 milioni le persone che vivono in famiglie in povertà assoluta al Sud: +250.000 in più rispetto al 2020 (–170.000 al Centro-Nord).

La crescita della povertà tra gli occupati conferma che il lavoro, se precario e mal retribuito, non garantisce la fuoriuscita dal disagio sociale. Nel Mezzogiorno, la povertà assoluta tra le famiglie con persona di riferimento occupata è salita di 1,7 punti percentuali tra il 2020 e il 2022 (dal 7,6 al 9,3%). Un incremento si osserva tra le famiglie di operai e assimilati: +3,3 punti percentuali. Questi incrementi sono addirittura superiori a quello osservato per il totale delle famiglie in condizioni di povertà assoluta.

Un altro dato preoccupante è il gelo demografico registrato: la Calabria tra il 2022 ed il 2050, 804mila abitanti, portando inoltre l’indice strutturale di dipendenza demografica (Ids) all’89,7% rispetto al 56,2 del 2022.

«Dal 2002 al 2021 – si legge – hanno lasciato il Mezzogiorno oltre 2,5 milioni di persone, in prevalenza verso il CentroNord (81%). Al netto dei rientri, il Mezzogiorno ha perso 1,1 milioni di residenti. Le migrazioni verso il 5 Centro-Nord hanno interessato soprattutto i più giovani: tra il 2002 e il 2021 il Mezzogiorno ha subìto un deflusso netto di 808 mila under 35, di cui 263 mila laureati. Al 2080 si stima una perdita di oltre 8 milioni di residenti nel Mezzogiorno, pari a poco meno dei due terzi del calo nazionale (–13 milioni). La popolazione del Sud, attualmente pari al 33,8% di quella italiana, si ridurrà ad appena il 25,8% nel 2080».

Preoccupa, poi, l’invecchiamento del Paese, che non si fermerà: tra il 2022 e il 2080, il Mezzogiorno dovrebbe perdere il 51% della popolazione più giovane (0–14 anni), pari a 1 milione e 276 mila unità, contro il –19,5% del Centro-Nord (–955 mila). Questo significa che la popolazione in età da lavoro nel Mezzogiorno si ridurrà di oltre la metà (-6,6 mln), rendendolo l’area più vecchia del Paese nel 2080. Per la Svimez, dunque, «per invertire la tendenza pluridecennale al calo delle nascite occorre mettere in campo politiche attive di conciliazione dei tempi di vita e lavoro e rafforzare i servizi di welfare».

Per l’Associazione, poi, è cruciale, per contrastare il declino demografico, potenziare l’occupazione femminile nel Mezzogiorno. Le regioni meridionali presentano il tasso più basso di occupazione femminile in confronto all’Europa (media UE 72,5): Campania (31%), Puglia (32%) e Sicilia (31%). Le restanti regioni del Centro-Nord si avvicinano alla media europea, ma restano lontane dal benchmark dei Paesi scandinavi e della Germania (78,6). La carenza di servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia, specialmente nella prima infanzia, penalizza le donne nel mondo lavorativo. Una donna single nel Mezzogiorno ha un tasso di occupazione del 52,3%, nel caso di donna con figli di età compresa tra i 6 e i 17 anni scende al 41,5% per poi crollare al 37,8% per le madri con figli fino a 5 anni (65,1% al Centro-Nord), la metà rispetto ai padri (82,1%).

«Il Sud – registra la Svimez – affronta gravi ritardi nell’offerta di servizi per la prima infanzia, evidenziati dai dati sui posti nido autorizzati per 100 bambini tra 0-2 anni nel 2020: Campania (6,5), Sicilia (8,2), Calabria (9) e Molise (9,3). Queste sono le regioni meridionali più distanti dall’obiettivo del LEP dei posti autorizzati da raggiungere entro il 2027 (33%). Gli investimenti del Pnrr mirano a colmare queste disparità, ma non sono stati programmati a partire da una mappatura territoriale dei fabbisogni di investimento, bensì attraverso procedure a bando, con una capacità di risposta fortemente influenzata dalle capacità amministrative degli enti locali. I dati presentati nel Rapporto riguardo lo stato di attuazione del Piano Asili nido fanno emergere diverse criticità proprio sotto questo profilo: sono stati assegnati ai Comuni 3,4 Miliardi; 1,7 mld al Sud, di cui solo il 36% messe a gara (51% nel Centro-Nord)».

Per la Svimez «la recente riduzione degli obiettivi del PNRR per i nuovi posti asili nido (da 248 mila a 150 mila) solleva preoccupazioni sulla possibilità di raggiungere il target europeo. Dalla simulazione effettuata dalla SVIMEZ risulta che, anche se si superassero tutte le difficoltà attuative, le attuali ripartizioni delle risorse non consentirebbero di raggiungere il target europeo del 33% in tutte le regioni. In particolare, la riduzione del target PNRR non consentirebbe di raggiungere il LEP, ad esempio, in Sicilia (-17 mila posti), Campania (-13 mila)».

Gravi, poi, i dati sulla popolazione laureata. L’Italia, infatti, ha la percentuale più bassa in Europa: solo il 29% dei giovani tra i 25 e i 34 anni hanno conseguito un titolo di istruzione terziario nel 2022, 16 punti percentuali al di sotto della media europea. Nel Mezzogiorno, questa percentuale si riduce al 22%.

La crescita complessiva dell’occupazione in Italia nel periodo post-Covid è stata del 1,8% tra il 2019 e il 2023, con un aumento degli occupati diplomati del 3,6% e dei laureati dell’8,3%. Nel Mezzogiorno, la crescita è stata del 15,4% per gli occupati laureati (+203 mila occupati). A livello nazionale, il tasso di occupazione dei giovani laureati (74,6%) è significativamente superiore rispetto ai diplomati (56,5%). Nel Mezzogiorno, il differenziale è di 26 punti percentuali (61,6% contro 35,6%), mentre nel Centro-Nord è di 13 punti (80,6% contro 66,8%). Il premio per l’istruzione si riflette anche nelle retribuzioni, con un laureato al Sud che guadagna mediamente il 41% in più di un diplomato, mentre nel resto del Paese il vantaggio è del 37%.

La promozione di politiche che convergano la percentuale di laureati verso la media dell’UE appare opportuna, specialmente considerando le maggiori opportunità occupazionali, soprattutto nel Mezzogiorno, per i giovani laureati.

Spazio, poi, alle infrastrutture. Sono state rilevate, infatti, delle criticità sulle infrastrutture italiane, con una sottodotazione al Sud e una saturazione al Nord. In particolare, la rete ferroviaria del Sud presenta un notevole ritardo, con solo 181 km di alta velocità (12,3% del totale) concentrati in Campania. Il divario nell’elettrificazione ferroviaria è significativo, con il 58,2% al Sud e l’80% al Centro-Nord. La rete stradale meridionale è inferiore, con 1,87 km di autostrada per 100 km2 rispetto ai 3,29 al Nord e 2,23 al Centro.

Il Piano di infrastrutture prioritarie del MIT, con risorse di 131 miliardi (101 miliardi finanziati), assume un ruolo chiave. Nel Mezzogiorno, il 40% delle opere prioritarie è programmato (52,6 miliardi), con oltre l’85% di finanziamento acquisito. I fondi per il Sud salgono al 58,5% considerando PNRR e Piano Complementare. Tuttavia, persistono nodi legati alla spesa e alla minore maturità dei percorsi realizzativi nel Mezzogiorno, con solo il 13,3% delle opere in corso (contro il 33,5% al Centro-Nord). Interventi del PNRR risentono di difficoltà attuative, legate all’aumento dei costi dei materiali e alla reperibilità delle materie prime.

Per quanto riguarda il cambiamento climatico, per la Svimez il Sud è quello più esposto a rischi e costi. Per questo è fondamentale accelerare la produzione di energie rinnovabili in Italia, con particolare attenzione al Mezzogiorno che, per l’Associazione «ha il potenziale per diventare un polo produttivo strategico. Ma occorre superare l’idea del Mezzogiorno come mero hub energetico europeo, che è in contraddizione con il nuovo approccio europeo alle politiche industriali e soprattutto risulta miope rispetto agli obiettivi di autonomia energetica, competitività industriale e coesione territoriale».

«L’autonomia differenziata espone l’intero Paese ai rischi di una frammentazione insostenibile delle politiche pubbliche chiamate a definire una strategia nazionale per la crescita, l’inclusione sociale e il rafforzamento del sistema delle imprese», dice la Svimez, spiegando come «a questo quadro di frammentazione si aggiungono i rischi di un congelamento dei divari territoriali di spesa pro capite già presenti e di un indebolimento delle politiche nazionali redistributive tra individui e di riequilibrio territoriale».

La Svimez, poi, stima che «le funzioni delegate assorbirebbero larga parte dell’IRPEF regionale: il 90% circa nel caso del Veneto, quote tra il 70 e l’80% per Lombardia ed Emilia-Romagna. Rilevanti sarebbero gli effetti in termini di contrazione del bilancio nazionale, con la conseguente riduzione degli spazi di azione della finanza pubblica centrale. Il gettito IRPEF trattenuto dalle tre regioni risulterebbe pari a circa il 30% del gettito nazionale».

Per questo è necessario «valorizzare il coordinamento degli interventi del PNRR con le programmazioni europee, come previsto dalla riforma recentemente inserita nel Piano. Le risorse della programmazione 2021-2027 dei Fondi europei per la coesione, potendo essere sfruttate in un orizzonte temporale più ampio, possono rappresentare un utile strumento per “mettere in sicurezza” gli interventi del PNRR che potrebbero non raggiungere entro il 2026 i target previsti. Tale operazione potrebbe prevedere copertura temporanea a valere sul Fondo di rotazione nazionale».

Per la Svimez, poi, la Zes Unica «presenta quindi indubbi vantaggi potenziali, ma rischia di produrre effetti limitati se non sarà pienamente integrata nelle politiche industriali nazionali e regionali e nelle più ampie strategie di sviluppo del Paese».

«Saranno in particolare due aspetti a decretare il successo o il fallimento della Zes Unica – si legge – il primo riguarda la capacità della nuova governance di assicurare la semplificazione amministrativa alla base del disegno originario, cioè della Struttura di missione nazionale di svolgere per l’intero territorio meridionale la funzione di sportello unico delle autorizzazioni. Una funzione che, considerato il numero elevato di progetti di investimento che si prevedono, richiederà inevitabilmente un rapporto cooperativo con le Amministrazioni locali. Il secondo dipende dalla capacità di recuperarne la finalità di strumento di politica industriale e infrastrutturale dovendo, quindi, valorizzare le specificità produttive, economiche e sociali dei territori. Non meno importante sarà l’individuazione dei settori prioritari nei quali favorire l’attrazione dei grandi investimenti necessari ad accrescere la competitività del sistema economico meridionale. Senza tralasciare la realizzazione di legami funzionali e strategici con le principali infrastrutture, specialmente portuali, del Mezzogiorno». (ams)

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