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L’OPINIONE / Franco Cimino: Chiusa la prima mostra fotografica di Franco Riga, ma senza Franco

di FRANCO CIMINO – L’avevo promesso a me stesso che sarei tornato all’ultima ora del giorno di chiusura. Lo dovevo a lui, alla sua amata moglie, alle sue due adorate figlie. Con l’aiuto degli amici di un tempo (è merito loro se la prima mostra fotografica di Franco Riga si è potuta tenere anche quest’anno, a dieci mesi dalla sua improvvisa, immatura scomparsa) l’appuntamento ormai ventennale con la ricerca storico-fotografica del nostro piccolo-grande genio, si è tenuta.e per la seconda volta nel piccolo splendido luogo che Franco aveva scelto anche per risparmiare a lui stesso e ai suoi pochi collaboratori, la fatica di montare e smontare tutti i dieci giorni della rassegna i pesanti “quadri”, assai più numerosi di quest’ultima, esposti lungo il vicolo della sua bottega d’arte, ancora più piccola.

Da necessità virtù, la galleria-laboratorio d’arte, sul Corso, proprio difronte a quel vicolo, gli apparve la migliore ospitalità per quel suo ormai lontano progetto di ricerca e collezione di fotografie sulla Marina del tempo più lontano. Fotografie da selezionare sempre con attento studio, per essere “collocate”in un quadro di tematiche da offrire a storici e a studiosi diversi, oltre che al cuore dei marinoti, anziani, meno anziani, giovani e giovanissimi. E anche agli abitanti del resto della Città o ai “forestieri”, che volessero conoscere meglio la bellezza “passata” di una realtà straordinaria. Una realtà carica di prospettive e di risorse da offrire a sé stessa e all’intera Città. E, per essa, capoluogo di Regione, a tutta la Calabria. Le ricerche di Franco Riga, hanno anche il potere, a mio avviso voluto, di far riflettere non solo su ciò che è stato il territorio o cosa ne è stata della sua bellezza, ma anche di immaginare cosa sarebbero potuti diventare e l’uno e l’altra se le scelte politiche e la coscienza civica di ciascuno, si fossero mosse in altre direzioni. Magari, a quelle opposte alle molteplici speculazioni, da una parte, e al disinteresse o distrazione dei suoi abitanti, dall’altra. La mostra di quest’anno ha per titolo “lo sport in bianco e nero”.

Un titolo davvero suggestivo e carico di significati. In bianco e nero sono le foto. Tutte. Ed é un fatto normale, risalenti la gran parte di esse al tempo in cui si stampava rigorosamente senza colori. Ma il titolo dice anche altro. Dice che lo sport è vita autentica ed esprime quella forza incontenibile che vita crea e rinnova in chi vive. Dice che la giovinezza, anche se gli anni della stessa sono passati, è sport. Lo è nella parte pratica. Lo è in quella che prepara alle specifiche attività e le organizza. Lo è in quella, più vasta in quelle lontane stagioni, che ci faceva osservatori, spettatori, tifosi. Bianco e nero è lo sport povero, dei poveri. Per i poveri. Laddove per povertà delle povertà sul “campo” in questione, si intende una realtà territoriale sprovvista di campi e di strutture sportive.

A Marina, in quel tempo, questa povertà era estrema. Totale. Si giocava a pallone, negli spazi sterrati, quando non nei cortili asfaltati dei palazzi popolari (le palazzine dei ferrovieri, in particolare). O sulla spiaggia da maggio a ottobre. Che partite! Non finivano mai, per mancanza dell’arbitro (tutti volevamo giocare con il pallone). Non c’erano tempi e orari di gioco. Le partite si concludevano solo per tre motivi. Sempre quelli. Per tutti. Arrivava la sera col buio per la mancanza di illuminazione. Arrivava, pure, uno dei due genitori con gli occhi di fuoco e la voce che da lontano recitava la solita minaccia. Per tutti: “tornati subbitu a la casa!”.

Infine, arrivava la sfiga da sfigato, di colui il quale con una pallonata lanciava il pallone dall’altra parte di un “confine”, un muro alto, il tetto di una casa, l’orto “dell’orso cattivo”. Niente pallone e tutti a casa. In bianco e nero, perché ci si improvvisava pallavolisti (i più numerosi) o cestisti (pochi, ché bisognava essere alti). Una rete in una campetto improvvisato, un canestro fantasma in un cortile, una palla che non c’entrava nulla con quelle discipline, e via a giocare senza regolamento. Così fino a quando la Polisportiva di Tonino Gregoriano e Salvatore Pizzari e il prof Bellacoscia, non inventarono, in quella palestra delle scuole elementari di via Murano (l’unica nell’intero quartiere), la pallavolo come squadra femminile vincitrice di tanti campionati, e come sport che via via si diffondeva tra le ragazze e i ragazzi.

Bianco e nero, fu il tennis, lo sport che affascinava per il suo essere d’élite e di più lo sport dei ricchi. Che scendevano a Marina perché quel pazzo di Ettore Biondi aveva “ inventato” un campo, costruendolo quasi con le sue stesse mani, in uno spiazzo all’interno di uno dei cortili, il più quadrato e chiuso, della stessa scuola di cui sopra. Sempre a Murano. Bianco e nero, era la disciplina tra le più praticate, perché non costava molto, il tennis da tavolo, l’indimenticabile Ping-pong, dove alcuni di noi divennero campioni tra la provincia e la regione. In bianco e nero era l’atletica leggera, che facevamo in tantissimi.

Come si potesse fare senza un campo che somigliasse a una pista, e riuscire a ottenere comunque buoni risultati, è un mistero che si spiega solo con la straordinarietà di essere marinoti, ragazzi tutti volenterosi, intelligenti, ostinati, creativi. Fisicamente energici. Forti pur se esili di corporatura. Aiutava molto, una disciplina allora considerata minore nel mondo dell’atletica. Era la corsa campestre e quella podistica. Qui il bianco e nero prendeva i colori delle pinete e dei boschi, che sovrabbondavano nella Marina di quegli anni. Verde, oggi pressoché scomparso, coperto com’è stato dalla cementificazione aggressiva. Quella che se ne parli trovi occhi ciechi, che non la vedono. Ovvero, orecchie delicate che si disturbano. Ovvero ancora, “politici” così intelligenti e colti da confondere edilizia con urbanistica, affollamento con gente, folla con popolo, muri lunghissimi e alti di costruzioni ineleganti e informi con il verde delle pinete che sono state abbattute. E ancora, confondono (anche i più nuovi e sedicenti innovatori), il traffico impenetrabili di automobili strette nell’ imbuto di strade precarie strettissime, come intenso movimento turistico.

O la mancanza di parcheggi adeguati come aree attrezzate strariempite dal desiderio di mezzo mondo di venire “nell’isola che non c’è”. Ovvero ancora, scambiano il rapido circuito della gran massa di denaro che si abbatte senza alcuna attenta valutazione sul quartiere, come sistema “organizzato” per la creazione della ricchezza. E qui mi fermo per non allungami sui ricordi e sulla nostalgia. I quali nella mostra di Franco, se guardi con attenzione quelle foto, tutte si trasformano in presa di coscienza sì di una bellezza, anche individuale e fisica perduta, ma soprattutto della possibilità, che ancora è rimasta ai giovani e agli anziani, di riprendere la gara più importante. E vincerla. Costruire da quel mondo romantico ed epico, lo Sport in tutta la Città. Sport inteso come Città vivibile, fatta a misura d’uomo. Sport come promozione dell’attività fisica e della mente. E attività del cuore, muscolo e sentimenti.

Sport come realizzazione di una rete diffusa su tutto il Comune di impianti sportivi, aperti a tutti. Ai meno giovani, in particolare, affinché si mantengano sani, mentre i ragazzi si formano muscoli e carattere per ogni competizione che li attende sui campi sportivi e nella vita più profonda. Sport, come ricerca del sapere e partecipazione attiva alla vita democratica della propria comunità. Più scuole e più palestre. Più biblioteche e più campi di calcio. Più cinema e teatri e più piste d’atletica. Più divise e più libri (un tempo non avevano né le une né gli altri).

Tutti a colori. I colori nuovi della Città bella. La mostra di Franco Riga ci porta a pensare in grande. È già da oggi vorrebbe, con la capacità di visione del suo autore, non cancellare il bianco e nero. E neppure trasformarlo, ma consegnarlo alle nuove foto, affinché il nero e il bianco del passato siano elementi essenziali nel contesto più ampio delle nuove foto a colori. Una sorta di consegna del passato, ricco di coraggio e fantasia, al futuro immaginato allo stesso modo che desiderato. E, cioè, bello, colorato, sognante e sognato. Vivace, forte, positivo.

Un futuro sicuro. Ricco. Sportivo. La mostra che si è chiusa alle venti e trenta di ieri sera, ci regala tutto questo. Io ci sono stato. E con gioia. Per salutare Franco Riga, che si sarà nascosto, ben “visto”, in un angolo aperto, nella magnifica cornice della sala mostra della galleria d’arte di Caterina Vitaliano. Anche lei artista, che con lo storico delle immagini e maestro del legno, aveva iniziato una collaborazione straordinaria e già piena di progetti culturali di alto valore. Questo sodalizio continuerà con certezza.

A farlo camminare, nel nome e con la “presenza invisibile” di Franco, ci saranno, con Caterina, le tre donne, che questa mostra hanno avuto la forza e l’intelligenza di organizzare, Rina, la moglie, Mara e Simona, le figlie. Saranno tante ancora. Di sicuro! E io spero di vederle tutte finché il mio cuore non si sarà fermato. (fc)

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