di FRANCO CIMINO – Non so quanti anni avesse Roberto Losso (le poche foto di lui dicono che sono tanti), non so se fosse stato lungamente malato e quanto per la grave malattia soffrisse (gli amici lo dicono molto ammalato e duramente sofferente), non so di quale partito facesse parte o a quale ideologia offrisse la sua “fede”( la sua storia personale e le sue posizioni politiche lo confermano di sinistra, forse socialista, e di certo manciniano), non so se fosse credente e cattolico( da alcuni suoi pensieri, particolarmente quelli su San Francesco di Paola, sembrerebbe di sì), non so nulla di lui, così distante da me apparentemente in tutto.
Lui pure fisso a Cosenza e io, ormai da tanto, fermo a Catanzaro. Lui rossoblu, io giallorosso, entrambi di fede antica, per dirla con i sentimenti e le passioni oggi più accese rispetto alle altre. Quelle in noi sopite e nelle giovani generazioni, quasi del tutto assenti o da altro assai distratte. Così distanti eravamo, lui di certo molto di sinistra, e socialista tra l’altro, io rimasto fermamente democristiano fino al midollo. Un democristiano di stampo moroteo, con quella ostinata idea dell’incontro organico tra DC e PCI e una sorta di diffidenza verso quel PSI progettualmente competitivo con il mio partito a rischio di esclusione dal governo futuro. Non so nulla di Roberto Losso. E, però, so tanto di lui. Non l’ho mai incontrato in vita mia mia. E, però, siamo diventati amici.
Ci ha aiutato, in questo, l’uso intelligente e buono della rete, Facebook e Whatsapp, in particolare. La rete, insomma, questo etere sconfinato in cui puoi trovare, è vero, di tutto, ma anche persone buone, pensieri belli, battaglie civili per la crescita della civiltà. Mi ha aiutato a conoscerlo di più la rubrica che lungamente Roberto ha tenuto su Il Quotidiano della Calabria. Era puntuale e settimanale. Nei casi più eclatanti che le cronache offrivano usciva anche più volte e in giorni diversi. Non so esattamente cosa fossero i suoi brevi scritti se elziveri, corsivi, brevissimi articoli di fondo, o nulla e insieme un po’ di tutto questo. In una striscia breve breve, che da sinistra, leggendolo, scendeva di poco lungo la prima pagina del giornale egli diceva tanto. Io non me ne perdevo una. Da tempo non prendo la fascetta di quotidiani giornaliera.
Ragioni economiche e di tempo, la disordinata e incontrollata diffusione di quotidiani on line, che ha preso anche me, la oggettiva e progressiva decadenza della qualità dell’informazione, in generale, e della carta stampata, in particolare, l’ulteriore perdita di peso e di qualità dell’informazione locale, mai addirittura assurta a sistema, non me lo consentono. Tuttavia, sempre puntuale mi presentavo in edicola per il “ fondo” di Roberto. E poi, subito a scrivergli i mie più accesi complimenti. Innanzitutto, per la scrittura. La sua penna era robusta, di cultura profonda. Si sentiva la classicità pure nell’asciuttezza delle frasi. E la retorica antica anche nel pensiero breve liberato di ogni retorica e ridondanza. La sua penna era agile, come le gambe di Pietro Mennea, uno dei suoi idoli per le grandi gesta degli ultimi che diventano i primi. La sua penna era penetrante come una spada, pungente come mille aghi invisibili che ti entrano nella pelle. La sua penna era un missile del Bene, con cui trasportava a velocità supersonica pensieri profondi.
E con quella leggerezza che solo le intelligenti più vivaci possono permettersi di avere e, di più, di usare. La sua ironia era bonaria. I suoi scritti mai velenosi. Le sue parole mia aggressive. Anche il peggiore dei personaggi di cui trattava non usciva mai dalle sue note come un malvagio da calpestare e da odiare. A volte rendeva simpatico anche il più stupido e il più antipatico di coloro ai quali contestava il cattivo agire. Perché gli era possibile tutto questo? La risposta è una e semplice: Roberto era una persona buona che cercava il bene. Un uomo bello che cercava la bellezza. Un essere umano che amava e l’Amore cercava.
Lungo quel suo camminare tra le strade tortuose e pericolose della nostra vita, egli si muoveva con agilità e finezza, pur nel suo cuore dolente e nel suo pensare sofferto, perché era sicuro che ciò che cercava ci fosse. Ci sia! La bontà, c’è. La bellezza, c’è. L’Amore c’è. E c’è tutto ciò che si muove dentro e intorno a questi valori. La Libertà, c’è. La Giustizia c’è. L’Eguaglianza, pure. E, qui, tutto insieme, in una stessa persona, troviamo l’uomo di fede, il cristiano, il libertario, il socialista, l’umanista e “l’umanitario”. Troviamo il sognatore, l’utopista. L’uomo buono. L’intellettuale profondo e tenero, la persona fragile e inarrendevole. Troviamo il calabrese vero, quello alla Mattia Preti, alla Telesio, alla Campanella, alla Corrado Alvaro, alla Repaci, alla Contestabile… E ai tanti altri che, dalla lontana civiltà magnogreca fino a noi, ci hanno insegnato che essere calabresi significa essere cittadini del mondo. E non solo perché siamo stati costretti a emigrare, ma anche perché abbiamo saputo accogliere tutti. E trasformare anche le numerose dominazioni del nostro territorio come occasioni per arricchire la nostra cultura e la nostra identità, pure quando gli arroganti e i prepotenti di tutte le epoche, fino ai giorni nostri, ci hanno derubato di tante bellezze e di tante vite. La Calabria è viva, e lui questa Calabria cercava, sapendo di trovare in essa tutto. Perché per Roberto la Calabria è Bellezza. Si tratta solo di convincere i calabresi a fare come lui, andare, cioè, alla ricerca di quella Calabria, cercare sé stessi in quel cammino. Convincerli a riprendere a lottare.
Anche contro le proprie paure e le proprie pigrizie, vincendo due battaglie “diverse ma eguali”. Quella contro la rassegnazione rispetto a un male che antropogicamente ci apparterrebbe. E quella contro l’attesa di un salvatore che ci risolva i problemi. Sono due difetti che io ho chiamato, e dal mio sempre, lui compiacendosi, vittimismo e messianesimo. Due difetti, che solo noi, appartenendoci, dobbiamo cancellare. E lo dobbiamo fare al più presto, qui riprendo Roberto, per ritornare a essere popolo. Quella cosa racchiusa in una parola che sta perdendo di senso e che, paradossalmente, rappresenta l’unica vera strada della nostra salvezza.
È la strada che porta all’altro elemento storicamente mancante: l’unità. Il dirsi calabrese senza sentirsi pienamente popolo calabrese, gente di Calabria, per dirla con i nostri letterati, è sterile esercizio del nostro individualismo. Ecco, che su questo punto del suo cammino, quello che starebbe arrivando a conclusione, si afferma il Roberto Losso della sua, forse, prima vocazione. È quella della Politica, con la maiuscola, come lui gradirebbe. Una personalità come la sua è talmente completa che trovarne tante in giro per l’Italia sarebbe una fatica enorme e quasi inutile. Da lui dobbiamo tutti trarne enorme vantaggio, soprattutto ora che non c’è più. Riscoprirlo, conoscerlo, rileggerlo, leggerlo, fino a comprenderne pienamente il suo filosofare verso la costruzione di una nuova Calabria, quella che c’è sotto la sua pelle inaridita, è un dono che ci potremmo fare da soli. Se poi qualcuno degli intellettuali calabresi mettesse insieme “le sue lezioni” su tutti i maggiori temi dell’esistenza umana e su quelli politicamente più sensibili (la difesa dell’ambiente e di ciò che è rimasto ancora salvo della nostra bellezza, quale prima grande ricchezza da cui partire), farebbe un regalo alla Politica e alla Cultura, le quali si potrebbero servire di un pensiero organico, robusto, moderno e innovativo, per diventare protagoniste del migliore futuro della nostra regione. Una regione aperta, che salvandosi da sé stessa, concorrerebbe alla crescita del Paese e di quell’Europa che noi, con Roberto, sogniamo e della quale la nostra terra potrà diventare il vero ponte di civiltà che collega due mondi finora lontanissimi. Realtà separate dal quel grande mare, anticamente di civiltà e di pace, oggi chiamato a rispondere delle tragedie che su di esso si consumano in danno di povericristi costretti a navigarlo per cercare pane e libertà.
L’amore e la dedizione, anche culturale, a San Francesco di Paola, non era per Roberto soltanto un atto di fede nella santità di quell’uomo. Era di più, il maestro che ci insegnava questa calabresità. Il simbolo, da noi sempre trascurato, di questa Calabria ideale. La figura di riferimento per un nuovo collettivo sentire la Calabria nella sua piena bellezza. Io che conoscevo Roberto, anche da lontano, so che è tutto questo. E assai di più. So che mi stimava, ricambiato senza misura. Ci volevamo bene senza mai esserci stretti la mano o abbracciati. Il merito è suo, della sua intellettualità oceanica adagiata su un cuore profondo quanto l’oceano. Intellettualità di pensatore instancabile e coraggioso. E cuore tenero di poeta. Leggere le sue poesie in dialetto cosentino è un piacere dell’anima, ristoro della mente. Unguento sull’inquietudine. Una carezza sul dolore.
Mi piacerebbe che Il Quotidiano e l’Ordine dei giornalisti, o anche la stessa Regione con il Comune di Cosenza, che tutti insieme tanto gli devono, si impegnassero per pubblicare in tempi brevi due opere. Una dei suoi corsivi e l’altra delle sue poesie. Sarebbe un omaggio alla sua persona e un dono alla Calabria che dalle sue parole potrebbe partire, discutendone ampiamente, per creare parole nuove. Vere. Belle. Io non so quanti anni avesse e di quale malattia soffrisse, Roberto. So soltanto che non doveva andarsene adesso che il mondo aveva tanto bisogno di lui. (fc)