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L’OPINIONE / Raffaele Malito: Landini populista e la sedia lasciata vuota da Draghi

Pensionati

di RAFFAELE MALITO – Dopo due ore concitate di riunione, Mario Draghi si è alzato e ha lasciato vuota la sedia dalla quale ascoltava le richieste dei tre leader sindacali Landini, Sbarra e Bombardieri. La rottura, clamorosa, non dichiarata,  era nei fatti. Una plastica conferma dell’impossibilità di trovare un’intesa tra governo e sindacato su questioni cruciali come le pensioni, gli ammortizzatori sociali, le tasse. Temi e problemi che impattano sul varo del Bilancio e che agganciano le riforme dalle quali dipende la grande sfida del Recovery Fund e la credibilità dell’Italia e delle sue istituzioni di governo. Perché la traduzione in opere e progetti per la crescita e l’ammodernamento dello Stato del PNRR è strettamente legata alla sessione di bilancio in corso di approvazione.

Il punto delle incompatibilità e della rottura si concentra sulla questione caldissima delle pensioni. Quando Landini prova a fare un salto in avanti, mettendo in dubbio la sostenibilità del metodo contributivo, incompatibile con il precariato, Draghi risponde piccato che il sistema contributivo non si  può e non si deve cambiare, non si può tornare al sistema contributivo: si deve, cioè, evitando gli scaloni traumatici – con quote progressive, 102- 103- 104- ritornare alla riforma Fornero.                                                                                                                                                               Ci si sarebbe aspettato che il Sindacato si facesse carico del destino del Paese e uscisse dalle miopie e dal corto respiro della propaganda populista incarnata da Salvini: era prevedibile  e si auspicava che dalla grande manifestazione  del 19 ottobre venisse una “spinta” ben oltre le motivazioni antifasciste di giornata. E  che questo cambio di fase  partisse da un leader che nell’epoca della crisi – politica e di rappresentanza- dei partiti, si è posto come colui che colma un vuoto, nella versione aggiornata  di una sorta di “pansindacalismo”, con più di una venatura populista. Duole a chi scrive, che per quaranta anni ha scritto e seguito con passione le infinite battaglie sociali del  Sindacato per la difesa del lavoro, dove c’era, e quello promesso e rivendicato, dove non c’era, rilevare, oggi, quanto  si è lontani dall’assunzione di responsabilità generali rispetto al Paese  -basterebbe solo ricordare il patto Agnelli-Lama sulla scala mobile del 1975 che contribuì a salvare l’economia e i salari- e quanto si è vicini a torsioni “culturali”  che portano a un passo da derive politiche da sempre lontane dal mondo sindacale e dalle sua scelte di lungo respiro. È il caso del leader del maggior sindacato italiano, la CGIL, scivolato sul Green pass, sui tamponi gratis pagati da pantalone e, in questi giorni, sulle pensioni.

Sulla parola d’ordine “abolizione della legge Fornero”, conquistò la segreteria: oggi si preoccupa di non farsi scavalcare dalla Lega nella difesa dei pensionandi. Alla radicalità di Salvini, risponde con la radicalità di una spirale che gli fa ignorare  la ragione di fondo dell’intervento del governo: il fallimento della quota cento, misura inutilmente costosa che non ha prodotto alcun turnover nel mondo del lavoro, uno dei mantra del Conte 1, insieme con l’abolizione della povertà con il reddito di cittadinanza. È rimasta la povertà, sono rimaste le storture del mondo del lavoro.

Le proposte delle tre Confederazioni sindacali riguardano gli 11,3 milioni di iscritti ma peccano di miopia e di occhi strabici, se si prendono in considerazione l’intero mondo del lavoro e, soprattutto, chi, dai precari ai disoccupati, alla pensione ci arriverà tardi con pochi soldi in tasca o con niente.                                                                                                                                                              La manovra sovranista diceva che era necessario rivedere il sistema pensionistico per garantire il lavoro ai giovani: via, prima, i lavoratori anziani , dentro i giovani. Il titolo di Salvini recitava: il diritto alla pensione di un 62enne  vale un posto di lavoro e mezzo  in più per un giovane.

È stata un’illusione. La Corte dei Conti  ha stimato un tasso di sostituzione del 40%, quindi meno di un assunto ogni due pensionati, con una caduta dell’occupazione  dello 0,2 per cento. Per la Banca d’Italia l’effetto è stato ancora più negativo: 0,4 per cento. Ma c’è un risvolto ancor più negativo: ci sono aziende che sfruttano gli scivoli  degli anticipi per ridurre il numero dei dipendenti o, peggio,per aggravare la mole di lavoro su chi resta.  A smentire la teoria del turnover si possono aggiungere i dati di alcuni Paesi europei: laddove il tasso di occupazione dei lavoratori anziani è più alto, l’indice dell’occupazione giovanile è più elevato. Insomma la sostituzione deve prendere in considerazione la produttività,  le competenze e altri fattori che non fanno, della staffetta, un’operazione matematica.

Adesso il Sindacato,  che quota cento  non l’avversò più di tanto, propone non un negoziato  dentro le maglie della legge Fornero ma di smontarla, rischiando, così, una fase conflittuale che lascia alla storia del passato, quel famoso Patto per l’Italia, benedetto anche da Draghi, da ricordare, forse,  solo come una  buona intenzione.

La questione è, dunque, se debba prevalere la propaganda salviniana “alla Fornero non si torna” o la saggezza e la lungimiranza di chi guarda davvero al futuro delle nuove generazioni  con progetti credibili e concreti per la crescita e nuove occasioni  di sviluppo e di lavoro.

Ed è proprio Elsa Fornero che, attraverso La Stampa, ha rivolto a Landini un appello a pensare ai giovani: “con un tasso di disoccupazione, tra i più alti d’Europa, sono costretti a cercare altrove le opportunità. Cosa ha a che fare  questa loro condizione – gli ha chiesto l’economista Fornero – con l’uscita da quota 100 e con la ripresa di un percorso di innalzamento dell’età pensionabile? Impossibile non vedervi il venir meno di un patto economico tra le generazioni“.

“Uscire da quota 100 e con qualche gradualità e  rispettando l’equità che impone di trattare meglio i più sfortunati, è possibile. Richiedere un nuovo passo indietro  – le conclusioni della Fornero –sarebbe  ancora una miope scelta di declino”.

La sedia lasciata vuota  da Draghi, davanti ai leader sindacali, è un chiaro richiamo a guardare al futuro.  (rma)

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