Giornalista e scrittore, Mimmo Càndito, originario di Reggio Calabria, è stato un importante inviato di guerra. Era nato a Reggio Calabria il 15 gennaio 1941 e si trasferì appena ventenne a Genova dove prese la laurea in giurisprudenza e iniziò il suo lavoro di giornalista, con una collaborazione al Lavoro, occupandosi di cinema e cultura. Passò nel 1970 a Torino, a La Stampa, dove è stato per lunghissimo tempo inviato speciale, testimone di guerre, conflitti e grandissimi eventi in tutto il mondo. Dal 2005 combatteva contro il cancro cui aveva dedicato un coraggioso e vibrante libro-verità “55 vasche”.
Numerose le testimonianze di affetto su tutti i quotidiani in occasione della sua scomparsa. Toni Capuozzo (TG5) su Liberoquotidiano.it ha scritto: “Vorrei adesso aggiungere tante cose: la tua passione, quell’accento calabrese ripulito da tanti accenti del mondo, la tua scrittura preziosa, la fermezza nei principi morali e il rifiuto di steccati ideologici. E cose più private, come l’amore per la tua compagna, il rapporto con la malattia. O cose più piccole, come il tuo essere mattiniero, astemio, nuotatore, gran consumatore di frutta. Ma inizio a scrivere e mi sembra già di sentire il tuo sorriso”. Cesare Martinetti su La Stampa ricorda che “non c’è stato conflitto significativo negli ultimi quarant’anni che Mimmo non abbia respirato, osservato, misurato a passi e bracciate, e poi raccontato”.
Antonio Ferrari sul Corriere della Sera: “Mimmo Càndito è stato un vero soldato verticale del nostro difficile mestiere di cronisti e di inviati. Ha lasciato vedova la splendida moglie Marinella, orfani noi, e orfani i suoi lettori, ammaliati da quella prosa asciutta e coinvolgente da cronista di razza, che sapeva coniugare quel che aveva visto con l’analisi… È stato uno degli ultimi orgogliosi alfieri di questo lavoro di frontiera”.
Secondo Giampaolo Cadalanu su la Repubblica “Per Mimmo Càndito il racconto delle tragedie era un dovere, e il peccato più imperdonabile era rinunciare a vedere, vestire i panni del testimone senza averne diritto. O tradire la strada mostrata da hemingway come da Peter Arnett, spacciando esperienze di seconda mano per frutto di ‘suole consumate’. Certo serviva il coraggio, come strumento di vita più ancora che di lavoro. Un coraggio praticato più che ostentato”.
Il Fatto Quotidiano ricorda una sua dichiarazione sull’essere reporter al fronte: “Alla fine questa traversata nel corridoio della morte lascia segni incisi di profondità. per alcuni sarà l’impronta indelebile d’un cinismo autoprotettivo, una sorta di scudo psicologico che respinge le forme d’identificazione della realtà. Per altri, invece, è quella empatia solidaristica che Kapuscinski assegna come compagna duratura d’ogni esperienza che verrà dopo il viaggio nel racconto della morte”. (rrm)