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QUANTA DISUMANITÀ DEFINIRE I MIGRANTI
“CARICO RESIDUALE”: COMPASSIONE ZERO

Migranti nel Mediterraneo

di MIMMO NUNNARIMa come sarà venuto in mente al prefetto Matteo Piantedosi, ministro tecnico dell’Interno in mancanza di ministri politici di definire “carico residuale” quei 35 disgraziati rinchiusi come appestati sulla nave Humanuty1?

Vivesse ancora don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta che ai “carichi residuali”, agli “scartati”, spalancò per primo le porte dell’episcopio, avrebbe spiegato che quegli uomini “schiacciati” sulla tolda di una nave più che a clandestini somigliavano ai tanti condannati nel mondo alle piccole croci quotidiane, uomini ingiustamente spogliati di tutto, persone come Cristo abbeverati con l’aceto e il fiele. Avrebbe spiegato che le pietre scartate dai costruttori fanno le sorti della storia.

Ma anche un buon prete di strada, o un laico saggio che dalle parti del prefetto ministro, nell’avellinese, dov’è cresciuto tra buona cultura e cattolicesimo potrebbero dire al “duro” Piantedosi che le sue parole hanno prima di tutto turbato la coscienza di molti; hanno lasciato un senso di amara inquietudine perché rivolte a persone nate, come ogni altro, con gli stessi diritti, con la stessa dignità, fin dal momento del concepimento nel grembo materno; perché erano indirizzate a innocenti, ignari che il destino avrebbe loro riservato il ruolo di carichi residuali, cioè di scarti.  

Quell’espressione, quantomeno infelice, non ha niente di umano, lo dicono gli uomini della Chiesa: «Mi preoccupano certe parole e mi assumo la responsabilità di quello che dico» ha commentato monsignor Francesco Savino, vice presidente della Conferenza episcopale italiana e vescovo di Cassano, in apertura del convegno di presentazione della nuova edizione del Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes, a Roma: «Ho paura e la mia coscienza è turbata quando sento dire di accoglienza selettiva», ha aggiunto. Come ha poi scritto su “Vita” (magazine del Volontariato italiano) Doriano Zurlo, «carico residuale non è un sintagma studiato a tavolino: rivela una disumanità profonda e un immenso grigiore burocratico». 

A rileggerla con calma, la vicenda di Catania sembra una storia di scartoffie da compilare e di ordini da eseguire: una pratica che anche un modesto impiegato di categoria C sarebbe stato in grado di espletare. Si dirà: ma quello del prefetto Piantedosi è semplicemente un linguaggio burocratico, un linguaggio da scrivania, dunque perché scandalizzarsi? Difatti, lo è e in quanto tale è linguaggio caratterizzato da un lessico e da costruzioni sintattiche che il più delle volte lo rendono incomprensibile. Lo ha ammesso il ministro stesso, che di linguaggio di ufficio si tratta, rivolgendosi ai giornalisti: «Se vi fermate all’esegesi delle espressioni burocratiche fate pure, ma non accettiamo lezioni da nessuno». 

Il linguaggio burocratico è però quell’antilingua che Italo Calvino definiva “terrore semantico”, che è mancanza di un vero rapporto con la vita, espressione di chi non sa dire ho fatto e dice “ho effettuato”. 

Comunque tira dritto il signor ministro, e non si pente, ma quel “carico residuale” ha bollinato il programma di questo governo di destra e resterà un marchio indelebile, anche se il governo Meloni nel futuro dovesse fare cose buone, ma ne dubitiamo. Forse, però, a ben guardare non è solo burocratichese quel modo di dire del ministro dell’Interno, è qualcosa di più, è il prodotto di una “cultura” che viene da lontano e che è ancora presente.

Rassomiglia al linguaggio della Lega di oggi del Salvini di “difenderemo i confini dell’Italia” e alla Lega di ieri di Irene Pivetti, di quando arrivavano sulle coste pugliesi gli albanesi, nel marzo 1997, e lei disse: “Ributtateli in mare”. Anche lei, come Salvini oggi, aveva confidenza con coroncine del rosario e madonnine, e menomale! Che brutta storia è comunque questa del carico residuale, e sbaglieremmo di grosso se l’archiviassimo nel faldone italico degli incidenti di percorso dove giacciono altri editti che sembrano vergati “da doganieri addetti allo smistamento di qualche mercanzia”, copyright di Nello Scavo, che su Avvenire ha scritto: “Ci vorrebbe un Primo Levi per farsi spiegare cos’è un «carico residuale» fatto di carne umana, di anime ferite, di sguardi spersi, di famiglie separate: mamme e figli a terra, papà da rispedire ai mittenti da cui scappano”. 

Per monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes, esponente della Cei, “affrontare in questa maniera la situazione che sappiamo e cioè di persone in fuga, visto che conosciamo i Paesi da cui provengono, attraverso una selezione, o fermando in mare per diversi giorni e non prevedendo il soccorso di tutte queste persone, mi sembra un attacco alla democrazia e anche un rischio grave”. 

Oltretutto è diventato un caso internazionale, la cattiva e disumana gestione di Catania, e l’Italia è riuscita in un battibaleno a passare dalla parte della ragione (l’Ue che non si muove abbastanza) alla parte del torto difendendo nel peggiore dei modi possibili l’interesse nazionale.  

Chi non è d’accordo sul fatto che l’Italia non debba essere lasciata sola nella gestione della questione migranti? Nessuno, ma anziché un pugno inutilmente duro che poi si è rivelato di marmellata bisogna creare le condizioni per intervenire con saggezza, magari coinvolgendo tutto il Parlamento e poter poi fare la voce grossa in Europa. Lo dice bene monsignor Perego: “Questa situazione deve interpellare l’Europa perché si riprenda il Mediterraneo come Mare nostrum. Tutelare i diritti fondamentali di persone in fuga credo sia uno degli aspetti importanti”.

La soluzione non è quella degli sbarchi selettivi che non rispetta il diritto fondamentale al soccorso in mare a essere salvati. Non ha dubbi il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick nel bocciare la linea Piantedosi: «È contraria alla legge del mare, alle convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia e alla nostra Costituzione». (mnu)

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