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Radio Argo: Una corda di pelle tesa con il pubblico

di FRANCESCA OREFICE – Esistono linguaggi e storie che servono soltanto a chi le scrive, per intenti autobiografici, per vanità, semplificazione, come per ogni altra motivazione anche riferibile alle ragioni della scrittura.

Capita, a volte, tuttavia, che le narrazioni ricerchino un senso collettivo, sgrovigliando il compito filosofico e sociale del racconto, descrivendo prospettive anche gravose che riguardano le questioni umane nella loro complessità e perciò scandalose, spietate, inaccettabili, sovente oscene, precisate da parole acuminate, affidate al resoconto della narrazione che diventa voce esterna ma per la quale ognuno è “un sé narrabile“.

Una narrazione che ci dice qualcosa di noi che non conoscevamo.

Gli abissi umani raccontati nella tragedia, ancorché estremi, gravi, neri come un buco in un albero dal fusto forte e le braccia verdi avvolgenti, votato ai giochi infantili perché sicuro, come un papà, riguardano ogni essere, genere, espressione umana. Ma in quel solco, scuro, viene segnato il limite delle cose umanamente tollerabili, la retta oltre la quale un vero capo, un potente, supera la soglia dell’umano per consolidare una essenza ragguardevole, sovraumana.

E non basta la disapprovazione, lo scandalo, il rimprovero, ad allontanare quel senso di appartenenza ai giochi perversi, per versi, di un sentire comunque comune: mentre ne ascolti il di-spiegarsi, lo spietato svelarsi in parole spasmodiche che rotolano come un macigno dentro le vesti di chi le ascolta, svelano cose tal-mente umane da non poter essere spostate, disconosciute, dette e fatte dall’altro, ma non totalmente “altro” da noi.

È l’orgoglio, la vendetta, il possesso, il potere, il non potere, il sesso, l’ossessione, la disperazione, l’azione, l’amore, l’odio. La Guerra.

E salgono, quelle parole, come impenna la voce di chi le recita, con sensi di-versi, intonate come tuoni, strillate come sirene, inchiodate a metà gola con punte di sale, sussurrate come serpenti, a volte piume, strisciate sulla pelle come sibili delicati, e dopo isteriche, pesanti, pensanti, deliranti, donne, bambine, uomini o capre, e di nuovo stanche, spiaggiate, stremate.

Buone, o cattive. Vive, oppure morte.

Lo spettacolo Radio Argo, acuta e tragicamente attuale rivisitazione dell’Orestea, scritto dal drammaturgo napoletano Igor Esposito, interpretato dalle mille voci di un implacabile e geniale Peppino Mazzotta, accompagnato da musiche psichedeliche e iconiche di Massimo Cordovani e Mario Di Bonito, è un gesto inaspettato, una corda di pelle tesa con il pubblico, un fatto complesso che dichiara polemica al miraggio della definizione riduzionistica e stereotipata dell’uomo e della donna somministrata dalle determinazioni pseudo sociologiche dei nostri tempi, ed insieme un ripescaggio delle questioni universali che attraversano la storia umana, ahimè riecheggianti una non sempre desiderata attualità.

La tragedia musicale di Radio Argo ha inizio con il racconto di Ifigenia, richiamata dal buco della morte, che ripercorre incredula ed insieme consapevole i momenti della mattanza, consolidando la fiducia in un padre solido e tanto amabile da meritare il sacrificio estremo, perché eroe, capo, combattente, benedetto dagli dei. La voce della bambina, adulterata dall’eco dell’aldilà, precipita dai toni strillanti della fanciullezza a quelli gravi e scuri della morte facendo sprofondare il pubblico, già informato delle vicende della tradizione mitica che prevedono il sacrificio della figlia del re capo dell’esercito per l’inizio della guerra di Troia, nel solco tenebroso delle cose che superano il limite, fino al pianto comune, ingenuo, stridulo e lacerante per la testa della bambina che rotola sull’altare.

Proseguono le ragioni di Clitennestra, la pausa sarcastica e burlesca di Egisto, il proclama di Agamennone, efficacemente inteso alle questioni dell’attualità, la profezia di Cassandra. Intorno il coro, diretto dal microfono di una radio che racconta le gesta, perfeziona le descrizioni, scandisce i tempi, i movimenti, le lettere di ogni parola sparata da ripetitore in ripetitore.

Una sola voce, quella di Mazzotta, che, spiegandosi in visioni molteplici e complesse, strofe ed antistrofe, stridendo tra i denti o esplodendo in coriandoli di suoni, e versioni, si fa espressione collettiva di un pubblico che diventa immediatamente parte della consonanza istintiva alle ragioni di ogni personaggio, e, nello stesso tempo, adattato alle distonie ed incoerenze che guardano, e ri-guardano, le questioni umane complessivamente tessute da un linguaggio che non sbaglia un suono.

Un testo di qualità, denso di immagini luminose e di ricco cromatismo, non conforme, carismatico, spiegato da ritmi mai esausti, convoglianti e coinvolgenti, che lascia motivi di riflessione che succedono allo spettacolo, al momento artistico comune, rendendo onore e devozione alla funzione intellettuale, etica ed estetica del teatro.

In un tempo di guerre ed ostilità, di parole violentate dall’abuso del vuoto a perdere, di rappresentazioni vane e piccole come la parola “cultura” spiazzata e spezzata dalla mediocrità, viene proposto un invito conclusivo – docile come i toni finali di un Peppino Mazzotta che diventa uomo in Oreste, probabilmente non lontano da se stesso, e che distende la voce ai toni della normalità, dopo un percorso di trasfigurazioni gravose ma essenziali alla complessità delle traduzioni del mito al presente –, viene avanzato un vero e proprio appello a lasciare andare le vanità, a preferire l’odore del mare al governare, al maledetto governare, alla maledizione del tutto a costo di tutto, o del niente che, alla fine, sa sempre di niente.

Uno spettacolo prodotto dalla compagnia calabrese RossoSimona, che ha debuttato al cretto di Burri questa estate, contando numerose tappe calabresi, da Polistena a San fili e Tarsia, per arrivare ad inaugurare la stagione teatrale del San Ferdinando di Napoli, in coproduzione col Teatro nazionale di Napoli, e che, speriamo, possa fare il giro dei migliori teatri italiani. (fo)

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