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Su La Stampa Domenico Quirico racconta la dolorosa ferita del porto di Gioia

22 ottobre – È un’inchiesta approfondita, puntuale e precisa com’è nelle abitudini dell’inviato Domenico Quirico, quella che appare oggi su La Stampa, con un richiamo in prima pagina e due pagine all’interno: è la fotografia reale della ferita dolorosa del porto di Gioia Tauro, della sua inarrestabile decadenza, dell’ “sfasciume di miliardi” buttati via in un Mezzogiorno sempre più impoverito da scelte politiche che verrebbe voglia di definire criminali.

Il giornalista Domenico Quirico

Quirico è un “vecchio” cronista di guerre e rivoluzioni, abituato ai guasti del Medio Oriente (fu rapito in Siria nel 2013 e rimase prigioniero 152 giorni) e osservatore attento del mondo. La sua inchiesta è non solo da leggere e conservare, ma può diventare – ove ci fosse una minima volontà di intervento da parte dello Stato centrale – il punto di partenza per invertire la rotta. Il porto sta morendo e i giornali servono anche a risvegliare le coscienze.


«Ho trovato a Gioia Tauro – scrive Quirico riferendo le parole dei giovani incontrati vicino al porto – una volontà affermativa, una volontà di essere. Nella sua eterna pazienza, finalmente!, questo mondo meridionale, questa grande riserva di vitalità italiana, è in attesa, e forse già in movimento. «Per prima cosa dobbiamo ribellarci ai padri che tramandano la tradizione di schiattare di rabbia e insieme di accettare tutto, non per la speranza del meglio ma per la paura del peggio». «I nostri genitori ci hanno sempre detto: calma! aspetta prendi quello che c’è, tanto poi se sei bravo te ne vai da qui, perché vogliono mantenere innanzitutto il loro sistema di potere». «La libertà di compiere azioni illegali e arbitrarie è sempre stata data in cambio della rinuncia a uno spirito critico e a una volontà di protesta». «La nostra funzione è far nascere uno Stato che non sia vuoto, che non abbia bisogno di grucce economiche, di favori per tenersi in piedi». «Basta con l’essere questa popolazione di vittime permanenti, con la mentalità del postificio, dal dipendere sempre da qualcuno». Spunta la parola “annacamento’’: che vuol dire molte cose, prender tempo, irridere, mascherare quello che sei, fingere. Penso che, in fondo, a chi crede nei miracoli anche se non succede nulla il dubbio resta all’infinito, vinto da un’altra certezza: fra gente che ha bisogno di sperare il miracolo è inestirpabile».
Quirico sottolinea gli sprechi di Stato: «I centoventi miliardi di lire di soldi gettati o rubati, quelli sì, sono realtà. Mi evocano con emozione gli anni in cui qui doveva nascere il quinto centro siderurgico e centinaia di fabbriche, anni eroici e creativi, l’avvento, in un mondo immobile dove il mestiere era alzarsi al mattino per cercar la giornata, di una classe operaia, di una coscienza del presente, di una forza attuale. Non era una idea sbagliata, in fondo: la tuta veste l’operaio, lo trasforma, ne fa un uomo simbolico del tempo e lo mitizza. E invece niente: spiazzi di cemento che diventano rottame, un quartiere cadaverico di strade e piazzali svuotati. Nella sterpaglia pascola un gregge di pecore che scruta le navi con i suoi occhi mansueto. Tra i pochi capannoni aperti la azienda di un industriale minacciato dalla ‘ndrangheta: un gippone di soldati all’ingresso insegna il senso umiliante dell’assedio». (rrm)

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