di SANTO STRATI – Diciamo la verità: nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla eventuale mancata approvazione in Senato del ddl Calderoli che introduce l’autonomia differenziata. I numeri della coalizione garantivano il successo, ma se non fosse mancato il coraggio ai senatori (della maggioranza) del Mezzogiorno di mettere in discussione il provvedimento fortemente voluto dalla Lega, probabilmente lo scenario sarebbe stato diverso.
Ha ragione, sotto questo punto di vista, la senatrice pentastellata Maria Domenica Castellone che ha parlato chiaramente di tradimento nei confronti degli elettori del Sud da parte dei parlamentari del Mezzogiorno: il loro impegno (a parole) di contrastare l’autonomia leghista si è dissolto, in mezzo a imbarazzanti dichiarazioni di voto.
Si comprende, chiaramente, che la coalizione di centro destra non poteva rischiare figuracce ed essere costretta, nel caso, a un voto di fiducia su un provvedimento che non si sbaglia a definire spacca-Italia, checché ne dicano i vari fautori dell’autonomia.
È solo il primo passo, d’accordo, quando arriverà alla Camera ci sarà modo e tempo di introdurre qualche opportuna modifica, ma ciò non toglie che è l’impianto stesso del provvedimento legislativo a essere discutibile (e oltremodo errato). Di sicuro è stata mortificata la facoltà legislativa del popolo scartando a priori la legge d’iniziativa popolare presentata con 100mila firme a proposito dell’applicazione del Titolo V della Costituzione (modificato nel 2001) con chiari riferimenti alle ipotesi di autonomia regionale differenziata.
Lo spettacolo in Senato (dove era presente una cospicua delegazione di studenti che ha potuto toccare con mano la decadenza della politica) è stato penoso, non tanto per le urla e i dissensi a viva voce che interrompevano gli interventi dell’opposizione, quanto per le imbarazzanti prese di posizione del centro destra (non leghista) spese a giustificare il provvedimento, esaltandone vantaggi e opportunità.
La verità che emerge dal provvedimento approvato con 110 voti (ne sarebbero bastati 88), 64 contrari e 3 astenuti è che si pongono le premesse per l’istituzione di venti staterelli (le regioni) ognuna per sé stante, con iniziative diseguali persino con gli stati (ops, scusate le regioni) confinanti buone per creare ulteriori disagi, in termini di burocrazia e di welfare sociale.
Con un avvertimento: chi aveva più risorse continuerà ad averne ancora di più, chi non spendeva per mancanza di fondi ne avrà ancora di meno. È l’infame logica della spesa storica che ha premiato le regioni settentrionali e penalizzato (o meglio punito) tutto il Mezzogiorno. Col risultato – più volte messo in buona evidenza dalla Svimez – di un divario insopportabile tra Nord e Sud. A Reggio Emilia 77 asili nido, a Reggio Calabria 3: basterebbe solo questo dato a far capire che la legge Calderoli non solo non toglie ai ricchi per riassegnare risorse ai poveri, ma toglie ulteriormente ai “poveri” fondi che andranno a rimpinguare ulteriormente le casse delle opulente regioni del Nord. E non si tratta di ribadire l’ormai legnosa lagnanza della mancata perequazione su tutti i fronti, ma bisogna prendere atto che l’Italia si è “sfatta” e, salvo improbabili capovolgimenti alla Camera, non ci saranno percorsi di salvezza.
È bene ricordare che la Riforma del titolo V della Costituzione fu voluta (e votata) dai governi di centro-sinistra mostrando fin dai primi momenti dell’attuazione evidenti defaillances che andavano sanate. Le diverse legislature e i vari Governi che dal 2001 si sono alternati (molti a guida di centro-sinistra) si sono ben guardati dal mettere mano e proporre alle dovute modifiche costituzionali necessarie. E molti di loro che siedono ancora nei banchi del Senato ieri non hanno avuto il buon gusto e la lealtà di sottolineare le proprie colpevoli indulgenze in tutti questi anni in cui si poteva provvedere a “sistemare” quella parte di Costituzione (modificata) che non poteva funzionare nei confronti dei poteri delle Regioni, dei loro adempimenti, dei loro diritti, dei loro obblighi.
Quindi, anziché prevedere una nuova (sensata) modifica costituzionale del Titolo V che aveva tante ragioni per essere attuata, si è preferito procedere con una legge ordinaria, peraltro collegata al DEF, sì da bloccare emendamenti e interventi.
Il voto di ieri non è ovviamente definitivo e la legge deve ottenere il sì definitivo della Camera salvo il ritorno al Senato, in caso di modifiche che dovessero arrivare da Montecitorio. Una legge, comunque, che non avendo copertura finanziaria per l’attuazione dei livelli essenziali di prestazione – Lep – sarà molto probabilmente respinta dal Capo delle Stato e rinviata alle Camere).
Una legge che scontenta buona parte del Paese e che i parlamentari di Forza Italia e di Fratelli d’Italia avrebbero potuto mettere in discussione mostrando i denti. Ma il coraggio, in Parlamento, non si compra un tanto al chilo. Se lo ricordino gli elettori quando si tornerà a votare. (s)