di PINO NANO –Da oggi in cielo brilla una nuova stella, è quella di Otello Profazio, che ha scelto uno dei giorni più caldi e più afosi dell’anno per andarsene via per sempre.
Anche lui, in silenzio, senza avvertire nessuno, forse anche per non creare ulteriore disturbo.
Il grande artista è morto ieri in ospedale a Reggio Calabria, dove era stato ricoverato per problemi vari e complessi.
Etnomusicologo, cantautore, cantastorie, dottore in lettere classiche all’Università di Roma, memoria storica ormai della vita di interi paesi del Sud, romanzo vivente di intere generazioni di uomini, menestrello erudito e moderno, poeta filosofo storico e antropologo insieme, dentro di lui ci siamo tutti noi, e c’è la vita di ognuno di noi.
Otello Profazio era la Calabria, era la sua anima, era il suo respiro. Lo amavo disperatamente perché era un uomo libero, senza pregiudizi ma anche senza freni inibitori, padrone della sua libertà da sempre, senza se e senza ma, altezzoso, presuntuoso, irascibile, padrone del mondo in tutti i sensi, mai schiavo e mai sotto ricatto.
Ogni suo concerto era una magia, era un pezzo di storia locale, era un affresco di battaglie sociali e civili che nessuno aveva mai saputo raccontare meglio di lui, perché quello che sapeva dire la sua musica non sapevo dirlo nessun altro.
Otello era il Sud, Otello era la musica popolare italiana, Otello era il mago della chitarra, Otello era il re dei cantastorie di tutti i tempi, Otello era Otello Profazio, una leggenda vivente, una sorta di icona della nostra musica country, e di lui parleranno per sempre i libri di storia della musica. Perché la storia dell’antropologia e della sociologia meridionale passano anche attraverso la sua vita, attraversano le sue canzoni, grazie alle sue ricerche, ai suoi studi, ai suoi saggi, e ritornano al cuore del mondo per via del soul che segnava, e segna oggi più di ieri, la sua musica.
Affascinante, scontroso, estroverso, eclettico, sofisticato, strafottente e irritante, iroso e avvolgente, ammaliante e superstizioso, Otello era tutto questo insieme, era la Calabria in tutte le sue fattezze, antica e moderna, pregi e virtù, vizi e privilegi, storia di soprusi sopraffazioni violenze diritti negati, poche certezze, immensa solitudine, sconfinate praterie di delusioni e di attese di speranze inutili e di sogni impossibili, sull’altare di una libertà mai reale e mai esistita.
Otello era la voce della protesta, Otello era l’angelo dei disperati, Otello era il cantore dei poveri.
Di più, Otello era l’amico dei derelitti, poeta di chi partiva per sempre, Otello era esaltazione sogno depressione vita e morte insieme.
Otello era così anche nei momenti più difficili della sua vita e della sua carriera, quando anche il ricatto poteva far parte della sua vita e della storia della sua crescita professionale e artistica di cantante e di cantautore.
Arrivava nei paesi più lontani e più sperduti e diventata come d’incanto il vero re della piazza, poeta di strada, amato coccolato invidiato e ammirato per il modo come raccontava la storia di uomini e donne che per secoli non avevano avuto voce.
So bene che un cronista non dovrebbe mai lasciarsi a confessioni private, ma il mio primo incontro con Otello Profazio data forse sessant’anni fa, io appena ragazzo, per la mano con mio padre, nella piccola grande piazza di Sant’Onofrio, il mio meraviglioso paese di origine, e lui Otello su una panca sistemata accanto alla fontana del paese con alle spalle un grande cartellone animato, quasi una scacchiera di disegni, ogni quadrato una storia, ogni storia un personaggio, e lui al centro di tutto con la sua chitarra e soprattutto la sua voce.
Una voce possente, melodiosa, protagonista quanto la sua musica, un fiume in piena, una ballata dietro l’altra, musica e parole che parlavano di briganti e di storie di violenza, di fuitine e di tradimenti, di paure e di partenze, e fu allora che per la prima volta capii cosa fosse la disperazione di chi partiva in cerca di fortuna e di lavoro, le Americhe, l’Argentina, “U Canadà”, Toronto Montreal e via dicendo.
Una notte magica per me quella sera, e quando mio padre provò a tirarmi via dal concerto prima che finisse lui capì immediatamente, dalla mia stretta di mano, resistente a lasciare la piazza, che qualcosa quella notte aveva colpito la mia immaginazione più di quanto lui stesso, straordinario intellettuale di quei tempi, non avesse percepito.
E rimase con me, e con mio fratello Ottavio, anche lui fino alla fine, in piedi come tutti gli altri, a seguire le smorfie i tic e i movimenti di questo strano uomo da circo, pesante nel fisico già allora, e sgraziato nei movimenti, ma leggiadro e straordinariamente gioioso nel suo modo di cantare.
L’avevo sentito qualche mese fa, volevo chiedergli della sua salute e con il suo solito ghigno sarcastico mi aveva risposto: “Cosa vuoi che ti dica? I vecchi nei nostri paesi dicono ancora oggi che l’ età è una infermità, e ti ho detto tutto”.
Spero che un giorno una delle grandi Università Italiane – magari lo facesse l’Unical! – accetti la sfida di analizzare le sue meravigliose “cantate”, queste sue immense serenate d’amore, questi suoi canti di rabbia e di lutto, e forse solo allora capiremo tutti, davvero fino in fondo, cosa è stato Otello Profazio per la storia del Sud. (pn)