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“AGIRE” E NON AFFIDARSI ALLA SPERANZA:
LA RIGENERAZIONE PASSA DALLA CULTURA

Pieprpaolo Pasolini e Leonida Repaci a Viareggio

di ETTORE JORIO – Il peggiore dramma che si vive nella nostra regione è stato sempre quello di vedere la povertà tramandata da padre in figlio. Ciò fatta eccezione per quei figli che sono riusciti ad emergere grazie alle loro cocciute capacità. A raggiungere mete ambite, tanto da vederne qualcuno oggi alla testa di multinazionali importanti americane (solo per fare due esempi General Electric Company e Amazon). Ma anche per quelli – e questo è un fatto gravissimo – passati dall’onestà intellettuale dei padri – di frequente monoreddito con familiari a carico – al carrierismo senza scrupoli.

Alcuni non si sono neppure fermati lì, hanno intrapreso una vita borderline e anche oltre. Insomma, brutti esempi quelli dei giovani che devono vincere, senza sgobbare sui libri, senza sudore e senza i necessari sacrifici.

Orribili quei “giovani e forti” che si mettono in gara ricorrendo a mezzucci per guadagnare uno scranno negli staff, in strutture e nelle compagnie pubbliche e private dei decisori. Così facendo si  è venuta a creare una popolazione a sé stante, formata da una sorta di dannoso maggiordomismo, spesso venduto con curricula costruiti con pseudo-intellettualismi, facili ad implementare via web, così come le lauree acquisite online con facilità estreme. Carriere, queste, di sovente colposamente applaudite da padri e madri, felici di vedere un figlio che conta, con il telefonino pieno zeppo di selfie da esibire a cominciare dai propri coiffeur.

Non è così che si potrà rigenerare una regione alla deriva da sempre. Non è così che i giovani si entusiasmano per la propria terra d’origine. Così la si manda ad infrangersi sugli scogli, senza registrare alcun superstite.

Un esodo provocato da politiche da macello

Troppi i giovani che vanno via. Tantissimi (ahinoi) quelli che con la borsa piena di titoli sudati e guadagnati con i quattrini dei genitori che hanno scelto l’impegno sulla cultura dei figli e nipoti alle stravaganze, ma anche alle cose serie. Molti hanno dedicato a ciò persino i soldi necessari alle loro cure dentarie e al vestiario che avrebbero meritato, pur di fare studiare figli e nipoti.

Risultati per tanti, vicino allo zero: sono rimasti da soli. Molti, così impoveriti, visibili di prima mattina a rovistare nei resti dei fruttivendoli, che di ciò sono autentici testimoni.

La Calabria è terra sana, che ha generato nei secoli gente perbene, generosa, creativa. Essa va reimparata non come la vediamo, così come ridotta oggi bensì come può essere ripresa. Frequentando un percorso difficile e apparentemente impossibile. Ma possibile. Perché onesto e doverosamente dovuto ai nostri natali e quelli che in un modo o nell’altro abbiamo provocato. L’impegno sarà improbo e impegnativo. Occorrerà cominciare ad evitare – per esempio concretizzante – sindaci e assessori che non sanno fare una O con un bicchiere, ma che sanno spesso fare del male alle casse degli enti e alla gente che li ha votati.

La Calabria è affetta da cancro. Basta non liquidarlo come incurabile e darsi da fare. Essa va letta nel suo potenziale reale: anime che la abitano e la terra che le nutre.

L’invito proviene dalla cultura che se ne è innamorata

Un insieme tanto attrattivo da essere riscoperto e rigenerato. Come lo ebbe a conoscere Norman Douglas in Old Calabria, edito in italiano nel 1967. Leggendolo e soprattutto guardando il suo ricco album di foto per capire cosa ci siamo giocati nella più atroce incoscienza, puntando alla slot che la politica ci ha somministrato come minestra quotidiana.

Douglas era un grande anticonformista straniero e con una cultura gigante, sia teorica che vissuta. Odiava la stupidità dei ricchi, il loro sciatto disordine. Amava la gente povera che trovò in Calabria viva, autentica molto meglio degli “inamidati” del nord.

Non solo. In un tale convincente processo conoscitivo di chi eravamo, con l’obbligo di ritornare ad esserlo, necessita guardare con attenzione le foto di Gerhard Rohlfs (1922-1924), che si ha la fortuna di ammirare nella “Calabria contadina”, edita grazie alla Regione Calabria presieduta da Agazio Loiero, definita “uno scavo linguistico” del primo Novecento.

E ancora. Sarà fondamentale leggere, uno dei grandi di tutti i tempi, grande amico di un calabrese eccellente, il palmese Leonilda Repaci (il nostro Sciascia): Pier Paolo Pasolini. Il poliedrico eccellente, al di là della cruda critica su Cutro sulla quale si prese una querela dei cutresi, diede nel 1959 una descrizione della Calabria e dei calabresi stupendamente realista, girata con una Fiat 1100. Così come la ebbe a conoscere nei suoi viaggi del 1959 e 1964, tanto da fargli scrivere in La lunga strada di sabbia una denuncia che i giovani devono portare in tasca tutti i giorni: «In Calabria è stato commesso il più grave dei delitti, di cui non risponderà mai nessuno: è stata uccisa la speranza pura, quella un po’ anarchica e infantile di chi vivendo prima della storia ha ancora tutta la storia davanti a sé». Con tutto il rispetto per l’Uomo che insegnò a tanti con suoi scritti (Paese Sera 27-28 ottobre 1959, Lettera sulla Calabria) e le sue regie: dobbiamo fare di tutto per smentirlo.

Il Pier Paolo nazionale urlava in proposito ad un calabrese indifferente: «Se volete fare come gli struzzi, affar vostro. Ma io ve ne sconsiglio. Non è con la retorica che si progredisce».

Qualcuno di mia conoscenza liceale mi avrebbe detto: prendi e porta a casa!

Riprendiamoci la speranza e la dignità di processare politicamente i responsabili del massacro sociale, di cui è stata vittima la terra che fu dei nostri padri ed è nostra molto de residuo. Ripartiamo! (ej)

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