di ROSARIO PREVITERA – Una protesta diffusa può essere sostenibile dal punto di vista economico e ambientale e può essere sostenuta dalla collettività quando se ne capiscano bene le motivazioni e le origini.
La protesta degli agricoltori europei dell’inizio del 2024 verrà ricordata come la “rivolta dei trattori” e probabilmente si rammenterà molto più di quella dei gilet gialli francesi o degli eco-terroristi imbrattatori. E non solo per i disagi dovuti ai blocchi stradali ma anche a causa della conseguente probabile scarsità o mancanza di prodotti alimentari sugli scaffali. Il settore primario infatti è quello da cui dipende la nostra sopravvivenza: senza agricoltura sparisce il cibo.
Purtroppo lo si dimentica facilmente, visto che la popolazione vive prevalentemente in città e il suo rapporto con la ruralità è solo un ricordo, a volte romantico, se non una vera e propria disconoscenza del “mondo dei contadini”. Invece il mondo contadino è quello da cui tutti proveniamo e dal quale è impossibile prescindere. Ed ecco che ci viene in soccorso la vecchia storiella dell’albero degli yogurt dal quale i bambini spesso credono di potersi approvvigionare.
La protesta “dei trattori” in atto, partita a gennaio 2024 dalla Germania, ancora in corso in Spagna e appena conclusasi in Francia, scaturisce apparentemente dalle imposizioni volute dall’Ue che obbligano gli agricoltori a sottostare a regole definite “impossibili” anche se utili all’ambiente, alla transizione ecologica, alla decarbonizzazione, alla tutela della biodiversità, alla salvaguardia dei suoli ovvero alla lotta al cambiamento climatico e alla desertificazione. Tutti argomenti presenti nella programmazione europea e negli orientamenti del “Green Deal”, del “Farm to fork”, del “Fit for 55”, di “Agenda 2030” e che in fondo costituiscono contemporaneamente sia gli effetti della buona agricoltura sostenibile sia la base per il futuro e la sopravvivenza dell’agricoltura stessa.
Regole che in parte sono state “ritirate” dall’Ue in seguito alla protesta, come quelle inerenti la riduzione e il futuro divieto di utilizzo di agrofarmaci, oppure le norme relative alla parificazione delle stalle alle industrie in termini di emissioni inquinanti, le norme collegate alla regolamento sul Ripristino della natura che prevede di lasciare incolto il 4% delle superfici: problema di fatto poco consistente in quanto inerente ad aree di per se poco o per nulla coltivabili in aziende con più di 10 ettari (400 mq di incolto su ogni ettaro ovvero ogni 10.000 mq) e che può forse intaccare solo gli interessi delle grandissime società agricole operanti come holding su migliaia di ettari.
La rivolta dei trattori in realtà scaturisce da problematiche diverse, concrete e ataviche in quanto connesse al reddito agrario ovvero all’economia della filiera agricola. E quando parliamo di filiera agricola dobbiamo necessariamente considerare anche la componente finale ovvero quella del consumo: già negli anni ’70 Wendell Berry sosteneva che “mangiare è un atto agricolo”. Problematiche che hanno condotto all’esasperazione gli imprenditori agricoli non garantiti da un prezzo minimo e che hanno costretto a chiudere migliaia di medie e piccole aziende negli ultimi anni: più di 3.000 aziende nel 2022 in Italia mentre nel decennio 2010-2020 le imprese agricole sono diminuite del 30% in Italia e del 25% in Europa. Certamente hanno influito la pandemia e i suoi effetti ma le cause della crisi agricola in nuce sono sempre uguali e tendono ad accentuarsi.
Di fatto, oggi come ieri, gli agricoltori lamentano l’aumento dei prezzi al consumo dei beni agricoli mai proporzionali all’aumento dei loro guadagni, visto che sono soggetti ad iniqui prezzi imposti: aumentano i costi di produzione (energia, concimi e materie prime, trasporti, manodopera, tasse, ecc.) mentre i loro beni agricoli vengono acquistati dai grandi player e dalla grande distribuzione a prezzi che non consentono nemmeno di ripagare le spese effettive sostenute dall’impresa agricola.
A ciò si aggiungano i cosiddetti costi burocratici nazionali e quelli connessi al rispetto delle stringenti normative Ue e nazionali alle quali non sono invece soggetti i prodotti agricoli provenienti dall’estero: questi giungono in Italia via mare e via terra a prezzi certamente molto più bassi e concorrenziali (si pensi ad esempio che un operaio agricolo egiziano guadagna in un giorno intero e senza tutele quanto guadagna in un’ora un operaio italiano) ma con qualità e garanzia di sicurezza sanitaria assolutamente discutibili.
Inoltre molto spesso la concorrenza è costituita da prodotti esteri spacciati fraudolentemente come italiani o europei, quindi soggetti a trattamenti con pesticidi o conservanti vietati in Europa oppure oltre i limiti consentiti dalla legislazione vigente europea. Tutto ciò a discapito delle nostre produzioni e degli agricoltori. Ecco la concorrenza definibile “sleale”, purtroppo consentita da vari accordi commerciali o di libero scambio e da partenariati tra l’Italia o l’Europa e molti altri Paesi extraeuropei di ogni continente.
Basti pensare, solo per fare qualche esempio storico di prodotti che giungono silenziosamente sottocosto, ai cereali ucraini, russi o canadesi, all’uva egiziana, ai meloni e agli ortaggi tunisini, all’olio marocchino, alle arance sudafricane, alla mandorla californiana, ai limone argentino, al pomodoro cinese e così via. Le quantità di ortofrutta importate (oltre 2 milioni di tonnellate) superano ampiamente l’export (1,7 milioni di tonnellate) portando nel 2022 il saldo commerciale ad un valore in negativo: 115 milioni di euro pari all’81,9% considerando che il saldo commerciale era di 635 milioni nel 2021. E visto che la crisi economica ormai è globale, il consumatore sceglie sempre di più prodotti a basso prezzo, nonostante appaia sempre più consolidata la sua consapevolezza sul termine “qualità” e nonostante sia in crescita il trend della scelta di prodotti controllati-certificati, made in Italy, a “km zero”, biologici ecc.
A tutto ciò si aggiunga che il global warming, la siccità, gli eventi climatici estremi, l’aumento di nuove malattie, di parassiti vegetali, di specie cosiddette aliene (sia perché importati sia per le mutate e ospitali condizioni climatiche che modificano gli ecosistemi), stanno determinando gravissimi danni economici all’agricoltura e alla coltivazione in quanto tale a partire dalla perdita di produzione fino ai costi spropositati necessari per la difesa vegetale in genere.
I dati Istat del 2022 evidenziano un incremento medio dei prezzi dei prodotti agricoli su base annua del 17,7%, quasi il triplo rispetto alla crescita registrata nel 2021 (+6,6%). Al contempo i costi di produzione a carico delle imprese agricole salgono del 25,3% ed il valore aggiunto agricolo, destinato all’agricoltore, scende dell’1,8 % e quindi anche la produzione va in crisi con una contrazione dell’1,5% ed un contrazione dell’occupazione agricola del 2,1%. È il caso di dire che siamo di fronte alla “tempesta perfetta” ovvero ad una congiuntura di fattori che rischia di bloccare l’attività agricola con tutto ciò che di drammatico ne deriverebbe.
Forse è uno dei tanti effetti, diretti e indiretti, visibili e invisibili, del riscaldamento globale aggravato dagli effetti a cascata e non prevedibili dei numerosi conflitti in atto. Siamo di fronte a un grande e composito domino ormai attivato e di cui non si riesce a vederne la fine in quanto mutevole. E l’agricoltura così come la nostra vita quotidiana ne sono parte e vittime inconsapevoli. Il tutto nel silenzio delle associazioni di categoria agricole dalle quali gli agricoltori non si sentono rappresentati e i cui “accordi di filiera” rimangono solo carta stampata.
La “Unfair Trading Practices (UTPs) Directive (EU) No 2019/633” ha introdotto una serie di misure per tutelare i fornitori di derrate alimentari rispetto alle clausole contrattuali inique imposte dai loro clienti industriali e dalla distribuzione organizzata ma il legislatore europeo non ha tuttavia chiarito il divieto delle vendite sottocosto. Una direttiva efficace in Francia ma non in Germania o in Italia a causa di numerose deroghe che consentono vendite sottocosto e promozioni fuori controllo, anche con la complicità delle sigle sindacali di settore e delle organizzazioni di produttori e rispettive confederazioni.
Cosa rispondere e come aiutare gli agricoltori in rivolta, protagonisti di tale “neo protestantesimo agricolo”? Certamente si deve puntare una volta per tutte nel regolare la filiera distributiva ponendo dei limiti, normativi o di contrattazione collettiva, alla moltiplicazione del valore aggiunto (oggi da 10 a 20 volte) di ogni prodotto che dal produttore primario giunge al venditore finale ovvero al consumatore; valore aggiunto che dovrebbe potersi spostare proprio verso l’inizio della catena produttiva. Sarà importante abbattere il costo (cuneo) fiscale del lavoro e trovare formule di assunzione più snelle come i voucher nel rispetto della dignità lavorativa e del minimo salariale.
Occorre abbattere le accise e rendere ancora più agevolato il carburante agricolo così come sarà fondamentale semplificare e agevolare l’uso di energie rinnovabili in agricoltura e soprattutto ridurre quei costi energetici in generale che impediscono il mantenimento e lo sviluppo di quei comparti che dipendono dalla catena del freddo. E infine occorrerà rivedere i famigerati accordi di libero scambio e perché no ipotizzare nuove forme di dazio, così come contestualmente occorrerà intensificare i controlli sulla tracciabilità di filiera e l’etichettatura obbligatoria per annientare la concorrenza sleale dell’import. Probabilmente si dovrà in parte ritornare a sistemi che ricordano la vecchia Pac e che vanno oltre gli eco-schemi o la eco-condizionalità, ma che sostengono e integrano il reddito agricolo: ciò in relazione ad una rinnovata visione dell’agricoltore che deve essere premiato e incentivato quale custode della terra nonché ad una consapevole percezione della sua attività ovvero l’agricoltura, da intendere nei limiti della sostenibilità di base generale, quale fattore economico e sociale effettivo per la conservazione. E non intendo solo la conservazione del paesaggio, del territorio, della biodiversità come è stato fino ad ora ma parlo di conservazione e tutela della sicurezza sanitaria e della sicurezza alimentare, ovvero quella garanzia di cibo e nutrizione per tutti, che è sempre più a rischio. E sembra paradossale che l’Italia, un tempo giardino d’Europa oltre che patria della Dieta mediterranea, possa oggi correre gli stessi rischi di insufficienza alimentare caratteristici di quei Paesi in via di sviluppo o a sviluppo zero, che un tempo definivamo “terzo mondo”, da cui prenderanno le mosse biblici esodi di migranti climatici.
In termini di investimenti ovvero di cofinanziamento per gli investimenti in agricoltura da parte degli imprenditori tramite i PSR regionali, oltre ad incrementare la quota a fondo perduto a più dell’80% risulterà importante finalmente rivoluzionare l’accesso al credito, il quale per le regioni del Sud continua ad essere un vero e proprio miraggio. A livello strutturale e infrastrutturale sarà importante proseguire nelle azioni contro lo spopolamento delle aree rurali e montane e occorrerà investire con i fondi di coesione disponibili e con il Pnrr sull’incremento dei servizi per il miglioramento della qualità della vita e per il ripopolamento delle aree marginali: nei prossimi decenni gli esodi interni riguarderanno gli abitanti delle aree urbane che si sposteranno a quote più alte per vivere meglio e fuggire dal caldo sempre più intenso delle città, il quale insieme all’inquinamento costituisce e costituirà una delle principali cause di mortalità in Europa. E sempre di tipo infrastrutturale dovranno essere gli interventi sui bacini idrici e le azioni contro la siccità incalzante: una grande e urgente pianificazione e costruzione della rete degli invasi idrici collinari e montani deve essere affiancata necessariamente dalla desalinizzazione e utilizzo delle acque marine sia a scopo potabile che irriguo. Oggi la tecnologia specifica insieme a quella connessa per l’uso della necessaria energia “green” di vario tipo è in continua e rapidissima evoluzione.
Anche se le necessità sono cresciute rispetto agli anni scorsi, il bilancio europeo per il 2024 prevede una spesa totale per l’agricoltura di poco superiore ai 53 miliardi di euro pari a quanto previsto l’anno precedente ma senza tenere conto dell’inflazione crescente e delle grandi crisi socio-economiche in atto. Si prevede una spesa di 336,4 miliardi di euro per il periodo 2021-2027 da suddividere tra le varie nazioni e regioni e su diversi fondi specifici. E’ una cifra appena sufficiente per le esigenze dei territori ma soprattutto è una risorsa che va qualitativamente distribuita e strategicamente reimpostata nelle finalità. Siamo di fronte a nuove emergenze e a nuovi scenari, quelli agricoli, spesso sottovalutati, che influenzeranno come e più di quelli energetici i prossimi contesti geopolitici. Auspichiamo che il rombo dei trattori sia sufficiente e utile a ricordarcelo. (rp)
[Rosario Previtera è agronomo, manager della transizione ecologica, docente di Geopedologia e presidente di Conflavoro Pmi Agricoltura]