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L’OPINIONE / Franco Cimino: Grazie infinite ai ragazzi bellissimi e alle ragazze bellissime dei Magazzini Bertucci

L'OPINIONE / Franco Cimino: «Che bello, sono alla festa di Mario Casalinuovo!»

È tornato, ieri, il Natale di me bambino, il Natale di tantissimi giovani che nuotano intorno alle generazioni vicino alla mia. È il Natale della famiglia, del cenone più importante, quello delle classiche rigorose diciotto o poco più portate, ciascuna disposta, con diversa quantità e qualità del cibo, su tutte le tavole, non distinguendo tra le diverse classi sociale.

Tutt’altro, perché quel Natale era il Natale più dei poveri che dei ricchi, ché i primi avevano in tasca il sogno e nelle mani giunte la preghiera. E la tavola era il luogo dell’incontro. E degli sguardi e dei sorrisi. Il luogo privi Egisto degli abbracci forti e lunghi. E quello del riposo. Dalla fatica e dai pensieri. Era il Natale dei presepi e dell’impegno annuale a farlo, il proprio, sempre migliore, guardando a quello del vicino con gli occhi buoni. Che sono quelli dell’ammirazione e dell’imitazione, chiusi sempre, invece, quelli dell’invidia e della competizione. Era il Natale del panettone milanese, quello della nuova invasione della cultura del Nord.

Panettone Motta o Alemagna. E con quella cosa particolare, che non mancava mai in alcuna tavola. Una sorta di liquore che faceva saltare il tappo (pe’ bonaguriu) ed era o troppo dolce o troppo amaro. Lo chiamavano spumante, quelli di Milano. Noi, invece, “champagne”(a sciampagna dei nostri padri che non la sapevano pronunciare e lo champagne non avevano mai neppure assaggiato).

La marca? Quella del mercato, Asti o Cinzano. Era il Natale della Messa di mezzanotte. Chi abitava vicino la chiesa, si consentiva il lusso di restare a tavola fino al brindisi della mezzanotte per poi correre a salutare l’evento religioso del Nato. E con bacio della statuetta di Gesù Bambino, rigorosamente nella lunga fila dei fedeli, dove, se ti andava, bene avresti potuto incontrare, con la speranza di un rapidissimo scambio di sguardi, quella ragazza. Sì, quella che ti faceva impazzire per il solo tentativo di vederla fuori dalla scuola. Quella, sì, di cui saresti stato innamorato a vita.

Quel Natale, era, per noi bambini, il Natale della letterina sotto il piatto di papà, il quale sempre sorpreso di riceverla, si commuoveva puntualmente. La scrivevamo tutti. A scuola. Su quelle letterine ben adornate di disegni e colori, prevalente l’azzurro del cielo stellato con quelle polverine luminose che dovevi stare attento a non rovinare. Dei più piccoli, la lettera, era la dettatura della maestra, che la faceva, diciamo, unica e unificante. Tutti la stessa! Ma chi se ne importava, tanto il papà era diverso, ed era il nostro, il gigante, il nostro eroe salvifico. I bambini più grandi e i ragazzi, la componevano autonomamente sia pur rivista dai docenti. «Caro papà, questo Santo Natale…» era l’inizio. «Ti prometto che sarò più buono…» era la chiusura.

Quindi l’applauso e il regalino, sempre soldini che ci facevano ricchi. Più ricchi ancora, le lacrime trattenute di nostro padre. Che mai saranno dimenticate. Anche dopo che i padri ci hanno lasciato. Chi se lo scorderà mai quel Natale! Specialmente noi, i ragazzi di quel tempo magico, non lo abbiamo dimenticato. Anche se nascosto sotto i sensi di colpa di non essere riusciti a mantenerlo, almeno come tradizione, nei Natali dei nostri figli. Ieri, questo Natale, mi è stato riportato da una lettera molto bella. Non è delle mie figlie, che ogni anno attendo, ricevendola puntualmente da una delle mie due, che al suo bisogno di scrivere non rinuncia mai. E la legge per non averla lasciata nel mistero del piatto. Quella di ieri è una lettera di Natale diversa e nel contempo uguale a quelle di cui ho detto. È scritta da uomini e donne divenuti per l’occasione bambini. L’hanno indirizzata alla Città. A tutti i catanzaresi, di ieri e di oggi.

A quelli che ci sono, a quanti ci sono ancora e a quelli che non ci sono più. È una lettera triste che mette insieme dolore e nostalgia. Una lettera melanconicamente serena, perché annulla la rabbia e trasforma la paura in speranza. Una lettera di gioia, perché trasferisce a noi l’idea del Buon Natale, quello vero. Quello buono, fatto di comprensione del dolore altrui, di silenziosa ricerca d’aiuto, di perdono. E di solidarietà, sicuri di riceverla. Perché le persone sono buone, se hanno il Natale nel cuore. Il Natale che hanno gli autori di questa lettera, soldati di una guerra per la Pace, pastori nel presepio della rinascita, re Magi della venerazione della Bontà incarnata, ed essi stessi Madonna e Giuseppe, madri e padri, nella povertà e nella dura fatica. Nel coraggio e nella dignità. Essi stessi anche Gesù Bambino, che rinasce e si dona. Sempre.

Come faranno loro nella nuova vita che intraprenderanno. Per metà di loro, probabilmente, di un nuovo impegno in altro luogo. Per l’altra metà, certamente, di riposo dal lavoro e di diversa presa in responsabilità della loro volontà di far bene. E di farlo ancora per gli altri, oltre che per la propria famiglia. Sono i quindici dipendenti della Bertucci grandi magazzini. Li conosco uno per uno, di due ho il desiderio di essergli considerato amico. È una lettera di saluto a tutti. E di commiato dalla Città. I grandi magazzini Bertucci, chiudono per sempre. E loro, legati ad essi da un rapporto quasi fideistico, vanno via. Sono uomini e donne non più giovani, ma neanche vecchi. Hanno tutti famiglie e figli grandi. Tutti cresciuti con la Bertucci e con il loro cuore di ragazzi che hanno realizzato progetti di vita e consegnato a quei cinquemila metri quadri del super negozio la speranza di un futuro di tranquillità. Sono entrati lì dentro, come si faceva un tempo. Senza arte e né parte e neppure la bella presenza estetica e la conoscenza delle lingue, come dappertutto è richiesto oggi. Solo volontà e intelligenza. E tanta onestà, dagli occhi al cuore. Il mestiere l’hanno “ imparato” lì dentro. Divenendo ciascuno e ciascuna buoni venditori, competenti e gentili. Si chiamavano commessi e cassieri, anche al femminile.

La migliore gioventù, dentro quelle enormi stanze, che ha servito la “meglio gioventù”. Che si comprasse o no, non c’era un catanzarese o della provincia che non andasse, e più volte, ai grandi magazzini Bertucci. Si entrava per le meraviglie degli allestimenti e per quelle luci sempre chiare e forti. Si andava per incontrare, quale piccola piazza, tanta gente e tutta diversa e bella. Si andava per corteggiare quelle ragazze che ci facevano penare per essere cercate tra corridoi e manichini, abiti, camerini e quant’altro. Si andava anche per stare al caldo d’inverno e al fresco d’estate, ché i sistemi d’aria condizionata come quelli di Bertucci non li trovavi neppure nelle banche. Si andava, che si acquistasse o non, e vi si tornava. Si andava e si tornava per loro, i dipendenti, che un tempo erano anche molto più numerosi. Loro erano il richiamo. Loro la forza aggiuntiva. E chi se no? Non di certo i Bertucci.

Sì, i famosi fratelli di “Nicastro” che partiti dal niente avevano costruito un piccolo impero commerciale, che da Vibo-Lamezia-Catanzaro si estendeva con successi crescenti fino a Cosenza. I Bertucci, erano un po’ misteriosi, la loro fama e il loro fascino di ricchi buoni in quanto legati al territorio a cui hanno donato molto del moltissimo ricevuto, bastava. Il loro nascondersi alla vista dei consumatori ne accresceva davvero il fascino e il mistero. Io stesso non ne avevo mai visto uno e l’unico che incontrai a casa di un mio cugino a Lamezia, per una festa familiare importante, mi sorprese per la diversità, anche fisica, che me lo presentò diverso da come lo avevo immaginato. No, no, ribadisco, in quei magazzini si tornava per i dipendenti. Tutti sempre gentili e rispettosi.

Educati e anche competenti. È vero che lì dentro c’era di tutto e di più, dagli abiti più eleganti, come gli oggetti e la biancheria più costosa, al reparto dove vi erano le robe più “ popolari”( quasi una sorta di democrazia del commercio) e per tutte le tasche, ma i “ commessi e le commesse” erano una attrattiva e a sé. Li sentivi amici anche se mai si realizzava un rapporto confidenziale. I dipendenti Bertucci avevano uno stile e un modo di operare tutto proprio. Originale. Erano appunto “ Bertucci”. E da Bertucci ci lasciano. Con onore e dignità. In questi mesi di lenta chiusura, lungamente annunciata, li vedevi intristirsi man mano che si riduceva la roba. Più vendevano più si immalinconivano. Più si riducevano gli spazi dei magazzini, più si riduceva l’ampiezza del loro sorriso. Se avessero potuto si sarebbero fermati lì dentro ancora per tanto tempo. E non per lo stipendio. Non per il posto di lavoro. Non per garantirsi un tempo più lungo di sicurezza e tranquillità. Nulla di tutto questo. Sarebbero rimasti ancora per stare con i clienti. Per servirli. Per essere parte attiva di questa Città. Invece, vanno via. Domani il loro ultimo giorno di lavoro.

Adesso, finito l’articolo, andrò ad abbracciali. Uno per uno. Gli dirò una sola parola, quella che solitamente non pronunciamo ne confronti di alcuno mai. “Grazie”. Di cuore. Non so l’ha già fatto e se ne avrà l’intenzione (conoscendolo credo di sì), ma mi piacerebbe che fosse il Sindaco, accompagnato dal presidente del Consiglio Comunale, a portare loro il Grazie di tutta la città, insieme all’impegno di onorarne il legame salvaguardando quel luogo da appetiti e speculazioni dannose per l’immagine dell’economia cittadina e del tratto importante del Corso su cui ha imperato per cinquant’anni Bertucci Grandi Magazzini.

Con la tristezza di questo momento, mi porto a pensare alle immediate conseguenze che la chiusura di quelle saracinesche avranno subito sul Centro Storico, già affaticato dal lungo mancato decollo e dalla più antica crisi del sistema commerciale. Si chiuderanno con le vetrine e le porte, anche le luci sulla strada. Erano luci buone. Che illuminavano e rendevano più bello quel tratto. E più sicuro il nostro cammino.

Anche quello delle nostre passeggiate. L’augurio che faccio adesso per la Città è lo stesso di quello che rivolgo ai quindici nostri principi e principesse del Natale odierno: rinasca una nuova vita, per un futuro prospero e luminoso. (fc)

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