di FRANCO CIMINO – No, non è stata una partita di pallone. E, forse, neppure la somma di tutte le altre sono state un campionato di calcio. Le partite di pallone sono diventate, ormai da molti anni, una cosa diversa. Una cosa che ha più a che fare con la coltivazione dell’odio e del rancore, con l’addestramento alle più stupide guerriglie urbane che iniziano già prima delle partite e proseguono, attraverso “lanciarazzi” da una curva all’altra, fuori dallo stadio, mettendo a soqquadro un’intera città e a rischio la fatica e l’incolumità di persone e di tanti uomini delle Forze dell’Ordine.
Quest’ultima, ma anche le altre viste oggi con occhio diverso, non è stata una semplice, normale, ovvero straordinaria, partita di pallone. È stata un’altra cosa. Una cosa che non è facile vedersi altrove. Non è stata neppure una festa popolare bagnata da lacrime confuse, e nel mare nostro fuse, di uomini e donne che si sono liberati di nodi che stringevano la gola, come di un tormento antico, “nu bunnu”, come diciamo noi nella nostra prima lingua.
La giornata intera di questo magico diciannove marzo, festa del papà, è stata la meraviglia che rioccupa spazi abbandonati lungamente. Di più, lo stupore ritornato bambino. Di più, il sogno antico che riprende la sua antica forma. È stata ancora di più. Molto di più. L’orgoglio collettivo che socializza con quelli individuali senza che questi diventino fastidiosi e antipatici. Dannosi. Ché l’orgoglio è sempre buono quando é sentimento diffuso. Atto comune che difende un valore comune. Quasi come avviene in Politica quando essa compie il capolavoro di trasformare l’Io individuale in un Noi sociale, appunto politico, senza che il primo perda un grammo di sé.
La giornata di ieri, la domenica tutta giallorossa, è stata quella dell’incontro e dell’orgoglio. L’incontro tra i catanzaresi. Quelli residenti in loco e quelli della vecchia provincia che da Vibo-Tropea arriva fino a Cirò-Torre Melissa, commoventi gli striscioni di Cutro, per dirne uno. I catanzaresi sparsi per tutta Italia che, come i vecchi tempi, hanno preso treni e auto per raggiungere lo stadio delle grandi imprese. Si sono incontrati anche i catanzaresi che vivono qui, quelli che da tempo camminano distanti l’uno dall’altro, che si trovano sullo stesso marciapiede o nello stesso negozio e non si sono né parlati né guardati. Quelli che alle recenti elezioni hanno festeggiato il sindaco nuovo, quelli che non l’hanno festeggiato e quelli che, lontani dall’agone elettorale, non hanno votato alcuno.
E sono i più. Diecimila persone che invadono pacificamente la nobile Salerno, colorando di giallorosso autostrade e ferrovie, diecimila catanzaresi che i più attenti hanno inserito nel record assoluto( altro primato raggiunto) di sostenitori che si muovono in trasferta( settemila hanno detto fosse quello degli interisti epoca Mourinho) non sono solo la lunga carovana di tifosi accesi. Come non lo sono le migliaia di auto e di persone che hanno occupato a colpi di bandiere e trombe e clacson e cori corso Mazzini e le strade e le piazze di Marina e di altri quartieri. Non sono soltanto tifosi quelle migliaia che prima che li raggiungessero i catanzaresi di ritorno da Salerno, dalle ventuno si sono ritrovati allo stadio riempiendolo fino a circa mezzanotte per salutare e ringraziare la squadra vittoriosa.
E gli altrettanti ancora, che non potendosi muovere sono rimasti nelle loro case, magari affacciandosi da finestre e dai balconi al passaggio di un corteo. È stata la gioia dell’incontro tra generazioni diverse, tutte quelle in campo in questa sofferente società. Da Corso Mazzini, camminandolo avanti e indietro, fino al Ceravolo, mi sono “ scialato” un sacco nel vedere uomini e donne, bambini e ragazzi, giovani e anziani, ricchi e poveri, professionisti e senza lavoro, impiegati e operai, uniti attorno a una bandiera. Una semplice bandiera. Di una squadra di pallone. Una bandiera di due colori, il giallo e il rosso. La gioia dell’incontro tra le generazioni dei figli e quella dei padri. I padri che non ci sono più.
I nostri, che ci guardano invecchiare adesso più contenti. Sono loro, i non istruiti e gli ignoranti, come quei pochi che hanno potuto studiare e i pochissimi anche all’università, che ci hanno trasmesso questa cosa che non sappiamo ancora cosa sia. Non è passione per questo sport. Non è conoscenza tecnica delle stesso. Cosa sia non lo sapevano loro e non lo sappiamo noi, se oggi le lacrime copiose negli occhi dei diecimila di Salerno più quelli dei calciatori, dell’allenatore, dei due direttori, e del presidente, e quelle dei diecimila della sera allo stadio e di tante migliaia di “catanzaresi”, sono identiche a quelle dei nostri padri e delle nostre madri. Cos’è allora tutto questo dolce furore che ci prende? E ci fa fremere e sognare? Urlare a squarciagola gli slogan nuovi e quelli antichi? E le canzoni che sono diventate la nostra colonna sonora? Cos’è tutto questo se non è passione? Non è tifo? Ci può dire qualcosa l’orgoglio odierno che abbiamo vissuto con gioia smisurata.
Risento nel cuore il grido che, in una sera mia particolare di diciassette anni fa, a primavera inoltrata che volevo iniziasse un’altra primavera per la Città, ho chiesto ai giovani di lanciarlo ovunque nel mondo si trovassero. Questo: “Sono orgoglioso di essere catanzarese, sono orgoglioso di essere catanzarese”. È l’orgoglio che sentirono i nostri padri quando hanno spinto il mitico Catanzaro a raggiungere la nostra prima serie A. Una piccola squadra di provincia, che porta la Calabria in serie A. Era un fatto sportivo, ma non un semplice atto calcistico. Era molto di più, la vittoria per il riscatto della nostra terra, la più importante perché avveniva attraverso una Città che quel riscatto collettivo, regionale, anticampanilistico, avrebbe saputo al meglio rappresentare. Per vincere il campionato più importante, quello della crescita economica e culturale della Calabria.
Insomma, la partita delle partite, quella del Progresso. Catanzaro in serie A ė stata la Catanzaro che si affermava, anche attraverso quello storico passaggio, capoluogo autentico. Una città riconosciuta quale guida della Regione. Guida vera. Rispettata. Amata. Qualcosa non ha funzionato, però lungo gli anni a seguire. Calabria e la sua Catanzaro sono andate avanti e indietro, come il gambero del nostro mare.
Un po’ vai e due volte indietreggi. Luci e ombre non si sono alternate, essendo le prime sempre più fioche. Le ripetute crisi economiche nazionali e mondiali hanno aggravato la nostra condizione fino ad esporla sempre di più ai poteri di diversa mafiosità. Risorse miliardarie, pure concesseci a parziale compensazione dei torti subiti, sono andate in gran parte sprecate. Le università non si sono incontrate. I campanili sì, ma tanto strettamente da scontrarsi e rompersi vicendevolmente. Catanzaro, la nostra Città, ha fatto più che il gambero. È andata indietro. Anche nel calcio. Il giallo e il rosso, che sono i colori del nostro gonfalone, il simbolo che raccoglie tutte le bandiere, è rimasto distante dalla società. È scolorito sui teli. Tifosi e cittadini sono stati attratti dallo stesso destino, l’unico che ha concepito Catanzaro e il Catanzaro ancora insieme, quello della disfatta. Del degrado. Della retrocessione.
Ambedue, Città e squadra, hanno vissuto tante retrocessioni, da trovarsi insieme nelle rispettive cadetterie. Sembrava che questa discesa non dovesse finire mai. Ieri la fine di un incuBo, per dirla con la scritta sulla maglietta bianca indossata dai nostri campioni a fine partita. Ieri quell’orgoglio è tornato. È un orgoglio festoso, ricco di gioia vera, che, per la quasi contemporaneità con un altro recente avvento civile, nutre tutti di una speranza nuova. Che non è quella di cui siamo tutti certi, e cioè il più rapido ritorno in serie A, che Floriano Noto, con i suoi fratelli, ha già mostrato di garantire. La speranza che Catanzaro e il Catanzaro riprenderanno a camminare insieme. E sempre più in avanti. La speranza che quell’aquila reale che li rappresenta, porterà ambedue a volare sempre più in alto, verso quella profondità del Cielo in cui saranno una cosa sola. E i catanzaresi, tifosi e cittadini dimentichi di esserlo, un solo popolo.
Un popolo forte e orgoglioso. Che canta tutti i giorni, fuori e dentro lo stadio, per le vie della Città e del mondo, un solo motivo:” noi siamo Catanzaro”. Togliere l’articolo, questa volta aiuta anche la grammatica. Allora, la risposta a questo incontro e a questo orgoglio, a questo sentire strano, è una sola. È Amore. Quello che i catanzaresi tutti sentono per Catanzaro. Davvero, la Città più bella del mondo. È l’Amore che ha vinto. Ché l’Amore vince sempre. (fc)