di FRANCESCO RAO – L’argomento ha polarizzato in modo particolare l’attenzione dei media e quindi degli italiani. La politica, nelle sue diverse compagini partitiche, si è frammentata: oltre ai sostenitori ci sono i contrari ed i parzialmente favorevoli. Seppur il provvedimento voluto dal Ministro Calderoli è già legge, con buona probabilità, essendo in fermento il desiderio di promuovere l’abrogazione della norma attraverso il ricorso all’Istituto del Referendum, abbiamo avuto modo di intervistare il prof. Aurelio Misiti, già Preside della Facoltà di Ingegneria presso la Sapienza di Roma, Presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, vice ministro alle infrastrutture e trasporti, il quale, con molta disponibilità, ha voluto condividere non solo il suo pensiero in merito ma ha illustrato una proposta alternativa di riforma, rispetto alla norma recentemente approvata.
-L’esperienza di 54 anni delle Regioni italiane mostra un bilancio chiarissimo. In questo periodo, il divario tra il (ricco) Nord e il (povero) Sud è aumentato?
La Costituzione italiana prevede che le Regioni debbano dedicarsi alla programmazione del territorio, mentre esse, oltre a programmare, si sono caricate di un’attività operativa tipica dei comuni. Tanto è vero che i Presidenti si autoproclamano governatori. Al Titolo V della nostra Carta costituzionale è prevista l’autonomia, che non va definita differenziata, in quanto ciò vuol che in Italia ci sarebbero Regioni ricche e regioni povere da assistere con una prevista solidarietà. Non basta affermare che, prima di attuare la legge approvata dal Parlamento, bisogna realizzare i Lep e mettere nelle stesse condizioni di partenza le regioni e addirittura le stesse persone. Ciò significherebbe che le Regioni del Nord aumenteranno la loro ricchezza e quelle del Sud la loro povertà.
-In merito alla Legge Calderoli, indicata come spaccaitalia, il suo pensiero appare divergente. Può illustrarci la ragioni?
Vista nel suo complesso, la legge proposta dal Ministro Calderoli va abolita. In quanto va attuata l’autonomia prevista dalla Costituzione, ragion per cui le unità territoriali dovrebbero essere in grado di gestirsi autonomamente in tutto e senza ricorrere ad assistenza esterna. Per raggiungere questo risultato, sarebbe necessaria una profonda riforma costituzionale da realizzarsi nel prossimo decennio.
-Perché secondo lei è necessaria una profonda riforma alla Carta costituzionale?
Come già anticipato, il regionalismo previsto dai costituenti, nel dare vita alla Costituzione più avanzata del mondo occidentale, aveva l’obiettivo di realizzare la parità tra le regioni del Mezzogiorno e le regioni del Nord. Di fatto, l’evolversi delle dinamiche post-belliche, con la ricostruzione dell’Italia, ha comportato l’affermazione del divario Nord-Sud. Bisogna ricorrere alla storia culturale, politica e costituzionale del nostro Paese, unificando le regioni, le quali, da sole non riescono a gestirsi e attraverso una riduzione del numero delle stesse, sarebbe necessario passare dalle attuali venti a quattro. Le attuali regioni saranno enti intermedi (tipo le vecchie province), operative e attuatori delle politiche decise e programmate dalle macroregioni. Nello specifico: nel Meridione otto regioni, unite in una macroregione, conterebbero circa 18 milioni di abitanti. Poi, Lazio, Umbria, Marche, Sardegna, Toscana, macroregione centrale, con oltre dieci milioni di abitanti; Emilia-Romagna, Veneto, Venezia Giulia, Alto Adige, con 13 milioni di abitanti, diverrebbe la macroregione nord-est e infine, Liguria, Piemonte, Lombardia e Val d’Aosta macroregione nord-ovest con circa 17 milioni di abitanti. Ciascuna delle macroregioni rappresenterebbe una entità statale con tutti i poteri e le strutture necessarie. L’Italia diventerebbe uno Stato con i poteri fondamentali: forze armate, economia, istruzione, sanità – che deve tornare allo Stato in quanto è necessario garantire a tutti le stesse opportunità prima di tutto in ambito sanitario. Questo modello è riconducibile al sistema federale già diffuso in Europa – Germania, Francia Spagna e Svizzera e il potere periferico viene esercitato attraverso la funzione decisionale dei rispettivi Länder oppure dei Cantoni.
-Attraverso questa proposta, non si potrebbe rischiare un ulteriore acuirsi delle cause che hanno generato gli attuali divari non solo tra Nord e Sud ma anche tra le diverse regioni d’Italia?
Prima di affermare che siamo autonomi dobbiamo pensare alle necessarie modifiche costituzionali. Non bisogna fare i Lep – livelli essenziali delle prestazioni –, bisogna fare il cambio della struttura regionale. Naturalmente, l’unificazione delle macroaree non dovrà far perdere la singola originalità delle regioni.
-Secondo lei, i tempi sono maturi per attuare una riforma del genere?
Se questa riforma costituzionale venisse realizzata avremmo in Italia l’autonomia vera e propria, per intenderci, quella prevista dal Titolo V della Costituzione e, in tal modo, si potrebbe andare avanti tutti insieme. Naturalmente ci sarà qualcuno che andrà più veloce e qualcuno che andrà meno veloce. Ma la velocità di cui stiamo parlando non sarà tale perché prevista dalla Costituzione. I ritardi saranno generati dall’incapacità, mentre le azioni virtuose saranno frutto della capacità amministrativa e allora, i risultati, andranno ricercati tra le attività svolte tra le macroregioni e non tra le persone.
-Attraverso questo suo ultimo concetto ripone una forte aspettativa sulle persone. Quale sarebbe il loro ruolo secondo lei?
In tali condizioni ci sarebbe il ritorno della gente nei luoghi di origine e tutto ciò significherebbe rinascita strutturale dei sistemi socioeconomici e produttivi. Basti pensare che i contratti nazionali di lavoro potranno essere stipulati nelle singole macroaree interessate, mentre la parte giuridica dovrà essere uguale in tutta Italia e la parte economica, contrariamente ad oggi, terrà in considerazione le esigenze locali. Vista la nostra condizione territoriale, può anche darsi che i contratti collettivi di lavoro potrebbero essere più vantaggiosi nell’area meridionale che nell’attuale Lombardia e quindi potremmo attirare nuovi investimenti e rendere possibili nuove opportunità di crescita socioeconomica.
-Attraverso la realizzazione di questa riforma, il Meridione assumerebbe un ruolo fortemente strategico per il rilancio dell’intero Paese?
Esatto. La visione di questa riforma, da attuare nel corso del prossimo decennio, potrebbe dare vita al progetto di sistema per il Sud dell’Italia e l’Europa, come a suo tempo illustrato con lungimiranza dallo studio pubblicato da Svimez nel 2021, creando quei presupposti di sviluppo per il corso dei prossimi cento anni attraverso un virtuoso processo di crescita e sviluppo. Si pensi infine al ruolo che potrebbe svolgere una Città Metropolitana dello Stretto, composta dalle due Città metropolitane di Reggio Calabria e Messina con circa 1,5 milioni di abitanti, il Porto di Gioia Tauro, l’aeroporto dello Stretto, l’Aspromonte, gli scavi archeologici di Locri, le Università e tutte le ricchezze afferenti alle risorse culturali della Magna Grecia, quest’ultimo autentico vettore di cultura e di attrazione turistica mondiale. La Città Metropolitana dello Stretto potrebbe superare definitivamente gli effetti della rivolta del 1970 che hanno portato alla suddivisione, proposta allora dal Governo nazionale, con l’istituzione dell’Università a Cosenza, il Capoluogo a Catanzaro e la sede del Consiglio regionale della Calabria a Reggio.
Tutto ciò potrebbe dar vita ad una piccola Rio de Janeiro, naturalmente senza le favelas, divenendo oggettivamente la capitale del Mediterraneo. In sostanza, queste riforme potrebbero portare al superamento del Gap tra Sud e Nord attualmente esistente. (fr)