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RENDE CADUTA IN UN ASSURDO DEGRADO
PESA SUI CITTADINI IL GIRONE INFERNALE

Il Palazzo municipale di Rende

di ETTORE JORIO – Rende è oramai allo stato “liquido”, perché “sciolta” due volte per inquinamento da infiltrazioni mafiose. Scrivo così per essere più veloce e comprensibile sul secondo dramma che la mia città ha vissuto in poco meno di dodici anni. Che i suoi cittadini sono costretti ancora a sopportare.

Alcuni disperatamente, perché privati di tutto ciò che avevano, senza facoltà di ascolto e soprattutto diritto di pretesa alcuna, negata del tutto alle fasce più deboli.

La Città ha perso la sua “solidità”, urbanistica e amministrativa, formatasi in decenni, quella che ha fatto sì che, dagli anni ’70, si producesse una ingente immigrazione cittadina da parte di chi abbandonava il disordine edilizio cosentino o l’isolamento di alcuni paesi dell’hinterland.

Lo stato di sopraggiunta “liquidità” istituzionale, conseguita a seguito di due dei peggiori provvedimenti governativi che possano capitare ad un Comune macchiandolo del più atroce sospetto e della vergogna immonda dello scioglimento per mafia, fa sorgere una domanda spontanea. Un interrogativo che esige una sana riflessione e una risposta adeguata.

Ma di chi è la colpa di tutto questo? Del degrado istituzionale che rinvia la città di Rende nel più tedioso girone dell’inferno, quello solitamente frequentato dai comuni con un valore abitativo ad alta presenza di ‘ndrangheta. Quel girone, dunque, da condividersi con il peggio della deviazione umana, di chi sceglie il malaffare come regola.

Ebbene, a fronte di un tale disagio sociale occorre sottolineare che la democrazia è l’espressione concreta delle scelte, quelle presuntivamente libere e consapevoli. Proprio quando esse non sono più tali, tutte le responsabilità vanno fatte risalire ai loro autori. A chi ci mette la firma (la faccia meno) tradendo la missione autentica della scheda elettorale.

Al riguardo, il dito accusatore è da puntare pertanto verso i rendesi, più o meno indigeni che siano. Ad essi vanno fatte risalire le paternità degli errori delle scelte che hanno pregiudicato la conduzione della città, sino a ridurla nelle condizioni di oggi.

Questa è la risposta più corretta all’interrogativo alla quale va attribuito il significato di una confessione politica, la mia e quella generalizzata. Le selezioni dei candidati e quelle perfezionate mediante il sistema elettorale hanno pesato come macigni. L’ultimo è stato fatale, con un andirivieni di sospetti, di prove, di ammissioni, di certezze ritenuti tali dal primo giudice e del Governo.

Da qui, altri diciotto mesi di commissariamento che sono lunghi da passare, così come in una canzone “blasfema” della fine degli anni ’90.

L’unica fortuna, diciamola così per le aspettative cittadine, è la individuazione della terna commissariale che – con a capo un prefetto d’eccellenza come Santi Giuffrè – di certo farà velocemente il bucato e accelererà i percorsi di individuazione della dirigenza fiduciaria, pena l’immobilità burocratica. Non farlo presto e bene sarebbe decisivo per la vita della Città, già tanto ammalata e gravemente.

Ritornando alle colpe, i peccati vanno fatti risalire unicamente a noi cittadini. Quei peccati politici, degenerativi del modo di scegliere
elettoralmente il bene della Città, affidandosi a proposte inaccettabili che hanno condotto alla situazione attuale. Che hanno portato allo scioglimento un Comune per tanto tempo preso come campione positivo anche fuori dal Mezzogiorno. Divenuto invece oggi un brutto esempio da prima pagina dei giornali nazionali e dei TG televisivi del Paese.

La colpa è nostra di avere reso una città, nata per le giovani coppie che arrivavano da ovunque piene di speranze, ad un aggregato dalle sembianze, fisiche e culturali, di città uguali a tante altre che ospita giovani che crescono male, anziani che invecchiano peggio, imprese che chiudono piuttosto che riaprire come una volta, malavita che rafforza la sua presenza nella quotidianità, e non solo per strada. La città dove l’abitudine sana di passeggiare la sera è andata via come fanno le rondini in autunno. È rimasta solo una somma di strade, disegnate bene ma maltenute peggio che altrove, ove è divenuto davvero difficile scansare la gente che litiga, che spaccia e che non è più guardiana della civiltà urbana.

550 giorni sono lunghi, tanto. Bisogna che siano produttivi, sia in termini di governo locale che di preparazione alla ripresa dell’ordinario. Il solo ricordo di quanto accaduto allora, in entrambi gli ambiti (commissariamento e ripresa dell’ordinario), incute paura.

In questo lungo periodo di un anno e mezzo, ove tanti giovani diverranno maggiorenni, bisogna che ritorni a contare la buona amministrazione ma soprattutto la buona politica, ma quella vera, non quella venduta per tale senza esserla più da decenni. Quella che prenda i giovani sottobraccio per portarli a crescere per l’interesse generale, funzionali a trasformarli in futuri bravi amministratori.

Proprio per questo motivo, ad essi va inculcata la logica e la cultura dell’onestà (difficile di questi tempi e a queste latitudini), del buon senso, della ragionevolezza, del rispetto per i ceti anziani e per i deboli, ma soprattutto della forza di espellere il marcio ovunque esso sia. In sintesi, si faccia una scuola di civiltà politica, nel centro urbano e per le contrade, nel senso più pulito del termine di fare in modo che si impari a lavorare per gli altri e a rimetterci di proprio.

Non fare questo, sarà facile giocare un domani per il terzo scioglimento, che tutti i bookmakers darebbero a quote oltre l’irrisorio. (ej)

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