di ERNESTO MANCINI – Dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 14 novembre scorso che, pur non avendo dichiarato illegittima l’intera legge sull’autonomia differenziata ne ha censurato tutti gli elementi più significativi, c’è da chiedersi se il referendum abrogativo dell’intera legge sia ancora ammissibile e se, pertanto, si debba svolgere o meno.
Si ricorda che la legge n. 86 del 26 giugno 2024, detta anche legge Calderoli, stabilisce la possibilità di trasferimento alla competenza esclusiva delle Regioni di intere materie legislative ed amministrative previste invece come competenza in concorso tra Stato e Regione. Addirittura, la legge consente il trasferimento di tutte le ventitré materie come richiesto dalla Regione Veneto ovvero una gran parte di esse – quindici – come richiesto dalla Regione Lombardia. Tra le materie trasferibili spiccano, per importanza strategica, istruzione, sanità, ambiente, trasporti, le quali sono già state oggetto delle preintese 2018 ed ora sono confermate dalla legge Calderoli all’art.11.
Si ricorda pure che la legge è stata impugnata per incostituzionalità ai sensi dell’art. 127 Cost. dai ricorsi di alcune regioni (Toscana, Puglia, Campania e Sardegna) ora decisi dalla Corte Costituzionale con la già menzionata sentenza del giorno 14. La legge è tuttora avversata dalla proposta di referendum abrogativo avanzata dal Comitato Promotore formato da partiti, sindacati, associazioni e comitati NO AD (no a qualunque autonomia differenziata) che ha raccolto oltre 1.300.000 forme durante la scorsa estate. La procedura per l’ammissibilità di tale referendum è in corso e dovrà definirsi entro il mese di dicembre a cura della Corte di Cassazione ed eventualmente della Corte Costituzionale.
I precetti della Corte Costituzionale
Per capire se il referendum sia ancora attuale dopo la sentenza della Corte va chiarito che tale organo (detto anche Giudice delle Leggi perché non giudica uomini ma, appunto, leggi) ha colpito e si può dire “affondato”, i punti principali della legge dettando anche princìpi vincolanti per qualsiasi attuale o futuro progetto di autonomia.
La Corte ha sentenziato che in ogni caso si devono osservare i princìpi dell’unità della Repubblica, della solidarietà e non della competitività tra Regioni, dell’eguaglianza, della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio. Tutti princìpi esattamente opposti a quelli che caratterizzano la legge Calderoli.
Ma, a parte l’affermazione dei princìpi ora ricordati, il Giudice delle Leggi ha colpito al cuore la legge Calderoli stabilendo testualmente che una normativa sull’autonomia non può trasferire intere materie legislative ed amministrative (sanità, istruzione, ecc.) alla competenza esclusiva di singole Regioni ma solo particolari funzioni relative a tali materie.
Peraltro, tale trasferimento di particolari funzioni non è libero ma, continua il Giudice Costituzionale, deve essere “giustificato” dalla necessità rispetto alle esigenze dello Stato e del bene comune. Deve inoltre osservarsi il principio di sussidiarietà e cioè si deve dimostrare che la singola funzione sia meglio attuata esclusivamente a livello territoriale rispetto al concorso Stato/Regione.
L’esempio su quanto stabilito dalla Corte è agevole: non può trasferirsi la “materia sanità” che, in quanto materia di rilevanza costituzionale (art.32) è affidata all’intera Repubblica (Stato-Regioni-Comuni-Città Metropolitane). Né possono trasferirsi singole funzioni in cui si articola la sanità come l’assistenza ospedaliera, l’igiene pubblica, l’assistenza farmaceutica, l’assistenza medica di base, quella specialistica, la funzione veterinaria, e molte altre, in quanto si tratta di funzioni non specifiche alla singola regione ma comuni a tutte.
Peraltro, il principio di sussidiarietà che valorizza le autonomie territoriali non può spingersi fino al punto da escludere lo Stato abolendo di fatto il Servizio Sanitario Nazionale ex art. 32 Costituzione e leggi di riforma sanitaria 833/78 e 502/92. Tutto ciò vale anche per l’istruzione, “spina dorsale del Paese” (Asor Rosa, intervista al Corriere del 2.11.2018) ed anche per l’ambiente, oggi da proteggere efficacemente soprattutto con politiche comuni sovrastatali. Così, insomma, vale la giusta applicazione del principio di sussidiarietà per ogni altra materia di rilevanza costituzionale.
Ma il Giudice delle Leggi, nonostante questi parametri siano di per sé già sufficienti per bloccare la legge Calderoli, non si è fermato qui.
Egli ha infatti stabilito che per i Lep (livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali) spetta al Parlamento e non al Governo fissare i princìpi ed i criteri direttivi per la loro determinazione. Ha precisato che l’aggiornamento dei Lep non può farsi con atto governativo (DPCM) bensì con atto del Parlamento e ciò vale anche per le aliquote di compartecipazione al gettito tributario. I finanziamenti non vanno peraltro determinati in base alla spesa storica ma sulla base di costi e fabbisogni standard, il che rende peraltro giustizia alle regioni del sud che, sulla base della spesa storica, possono solo perpetuare la loro insufficienza nei servizi pubblici (es: servizi sociali) senza alcuna implementazione che soddisfi il vero fabbisogno come certificato dai Lep.
Inoltre, le Regioni non hanno la facoltà (come vuole Calderoli nella sua legge) bensì l’obbligo di concorrere agli obbiettivi di finanza pubblica, né il Governo è esclusivo titolare del potere di iniziativa per le intese sulle autonomie particolari.
C’è dell’altro nella massima della Corte Costituzionale ma qui non mette conto di parlarne perché quanto evidenziato basta e avanza per dire che la legge Calderoli non esiste più dovendosi, affinché sia immune da vizi di illegittimità costituzionale, apportare tutte le modifiche e le integrazioni sostanziali volute dalla Corte medesima. Cha la legge sia stata demolita dai dicta della Corte Costituzionale è peraltro opinione comune della stragrande maggioranza dei costituzionalisti che in questi giorni hanno fatto sentire la loro voce.
Dunque, il referendum?
Ed allora possiamo tirare le somme per rispondere alla domanda iniziale che ci siamo posti.
A nostro avviso il referendum non è più attuale perché interverrebbe su una legge che, seppure formalmente ancora in piedi, non è più applicabile nelle sue parti fondamentali. Sono stati introdotti dal Giudice Costituzionale tali e tante modifiche ed integrazioni sostanziali e non certo marginali che fanno venire meno proprio l’oggetto del referendum.
In altri termini si voterebbe su una legge che in gran parte non esiste più anche perché alcuni princìpi introdotti dalla Corte devono già considerarsi del tutto simili al c.d. ius superveniens: il noto articolo 116, terzo comma del titolo quinto della Costituzione che prevede la possibilità di autonomie particolari (e non differenziate), dovrà interpretarsi per il futuro come se ci fosse un ulteriore comma il quale stabilisce che le “materie” di cui all’art. 117 non sono trasferibili alla esclusiva competenza delle regioni, che le “funzioni” devono essere specifiche e non comuni (es.: minoranze linguistiche, luoghi di confine o con esigenze particolarissime, ecc. ) ed in ogni caso anche le funzioni devo essere giustificate dalla perfetta applicazione del principio di sussidiarietà.
La giusta autonomia regionale
Molti firmatari della richiesta di referendum, tra cui il sottoscritto, sono favorevoli allo sviluppo dell’autonomia regionale ma non certo nella forma voluta da Calderoli giustamente definita secessionista o frantumatrice dell’unità della Repubblica. Essi sono contrari allo statalismo di massima centralizzazione ma pure al secessionismo ed alla competitività tra Regioni.
Essi vogliono l’autonomismo regionale come disegnato dai Padri Costituenti nel 1948 eventualmente aggiornato dal legislatore del 2001(nuovo titolo V) ma a condizione che tale aggiornamento sia interpretato ed applicato secondo le odierne ed inderogabili direttive del Giudice delle Leggi.
Ben vengano perciò i Lep (livelli essenziali delle prestazioni e relativi fabbisogni e costi standard); così si “certificherà” una volta per tutte quale sia il bisogno effettivo di ciascuna regione rispetto agli standard, quale e quanta differenza via sia tra regioni ricche e regioni povere, come debba assolutamente abbandonarsi il criterio assurdo della spesa storica che nulla aggiunge alle regioni povere ed anzi le costringe ad un permanente distacco dalle regioni ricche. Ben venga tutto ciò, così sarà meglio misurabile anche la performance della classe dirigente territoriale politica e tecnico-burocratica.
I Lep, insomma, non servono per favorire autonomie differenziate ma sono necessari per avere chiaro quanta esigenza vi sia di riequilibrio tra i diversi territori in cui si articola la Repubblica.
Cosa succederà ora?
Se i supremi giudici dichiareranno inammissibile il referendum resta comunque al Parlamento l’onere di introdurre tutte le direttive costituzionali imposte dalla sentenza sapendo che ogni deroga sarà illegittima stante questo precedente tassativo; se il Parlamento non correggerà la legge nel senso indicato, la stessa resterà lettera morta (come già è successo per altre leggi) in quanto non applicabile essendo stati già espunti tutti i punti essenziali che la caratterizzavano.
Se invece i supremi giudici dichiareranno ammissibile il referendum su quel nulla che resta della legge sarà ancora più difficile raggiungere il già difficilissimo quorum (circa 25 milioni di cittadini) stante la scarsa partecipazione alle urne registratasi negli ultimi anni ora vieppiù sostenuta dal fatto che la legge Calderoli è stata già cassata dall’organo di verifica della illegittimità costituzionale e di essa non resta più nulla. Ma si può fare.
Intanto qualcuno dica a Calderoli & Co (Salvini, Zaia, Fontana e maggioranza governativa) che la partita in ogni caso l’hanno già persa e che finalmente l’autonomia regionale non sarà mai differenziata come loro avrebbero voluto con uno spirito anticostituzionale e spezzaitalia mai visto dal 1948 ad oggi. (em)