Greco (IV): La posizione del partito sul referendum

Italia Viva Calabria, con la responsabile regionale del partito, Filomena Greco, si schiera per un no netto e deciso al quesito n.1 che disciplina il contratto di lavoro a tutele crescenti ed un no altrettanto netto per il quesito n.3 relativo alla durata massima del contratto e condizioni per proroghe e rinnovi.

Sta per terminare, infatti, una campagna «che si infiamma di motivazioni che hanno poco riguardo al contenuto e vivono di contrapposizioni ideologiche, si legge nella nota del partito.

«Una “guerra” dichiarata alle riforme sul lavoro del governo Renzi peraltro in parte modificate successivamente. Ad esempio la vittoria del SI del primo quesito referendario riporterebbe la lancetta dell’orologio non all’articolo 18, bensì alla disciplina introdotta dal governo Monti, con minori tutele per i lavoratori licenziati».

Filomena Greco invita a guardare oltre la contesa sul job act e la resa dei conti in casa PD ed invita a riflettere sul dato drammatico pubblicato dalla CGIA di Mestre da fonte Istat: da qui a dieci anni l’Italia perderà quasi 3 milioni di lavoratori, pari al 7,8% della popolazione in età lavorativa. In Calabria la percentuale si impenna al 12,1 % che corrisponde ad una perdita di forza lavoro di 140mila unità. Un’emorragia che rischia di compromettere ulteriormente la già fragile struttura sociale ed economica del territorio. Meno forza lavoro significa meno produzione, minori consumi, meno servizi per una popolazione che invecchia. In parole povere, meno benessere e meno ricchezza.

«Forze politiche responsabili – ha ragionato Filomena Greco –dovrebbero occuparsi di come invertire questa marcia verso il collasso, di investimenti mirati, di formazione, di studiare politiche del lavoro utili al futuro e al contrasto all’emigrazione dei ragazzi, anziché bisticciare su una legge di 10 anni fa, inchiodando il paese ad una guerra ideologica e fuori tempo»

«Sugli altri quesiti sul lavoro – continua la nota del partito – Italia Viva lascia libertà di voto. Si tratta del referendum 2 – licenziamenti ed indennità per le piccole imprese – e del referendum 4 – che introdurrebbe una responsabilità anche del committente in caso di infortuni sul lavoro. Nei suggerimenti di Italia Viva c’è anche un SI ed è quello che si propone di ridurre da 10 a 5 il numero di anni di residenza legale in Italia per ottenere la cittadinanza». (rcs)

L’OPINIONE / Caterina Vaiti: Andiamo a votare per i diritti, la sicurezza e la dignità del lavoro femminile

di CATERINA VAITI – Ci sono numeri che raccontano una realtà che spesso si preferisce non guardare. Sono i numeri del lavoro delle donne in Italia, quelli che ogni giorno disegnano i contorni di un Paese che ha ancora enormi difficoltà a riconoscere il valore e la fatica del lavoro femminile.

Nel 2024, il nostro Paese resta fermo al 111° posto su 146 per partecipazione femminile al lavoro (Global Gender Gap Report). Solo il 53,5% delle donne ha un impiego, contro il 70,9% degli uomini. E quando arrivano i figli, la situazione peggiora drasticamente: una donna su tre abbandona il lavoro dopo la maternità. Mancano i servizi, mancano le tutele, manca la possibilità di scegliere.

Non si tratta solo di occupazione, ma di qualità dell’occupazione. Ancora oggi quasi la metà dei nuovi contratti per le donne è part-time, spesso involontario. Un tempo ridotto che diventa stipendio ridotto, carriera sacrificata, pensione povera: il gender pay gap reale tocca il 25% nel privato e cresce man mano che si sale nella carriera e nell’istruzione. Alla fine del percorso lavorativo, le donne percepiscono pensioni più basse del 36% rispetto agli uomini.

Ma c’è un’altra faccia di questa disuguaglianza: la sicurezza sul lavoro. Una sicurezza che per molte lavoratrici semplicemente non esiste. Nei settori dove la presenza femminile è maggiore – sanità, assistenza, cura, servizi alla persona – aumentano gli infortuni, i disturbi da stress lavoro-correlato, le aggressioni e le molestie. Solo nel 2023, oltre il 26% degli infortuni mortali in itinere ha riguardato donne. Quasi 2 milioni di lavoratrici, secondo l’Istat, hanno subito molestie sul posto di lavoro nell’arco della loro vita professionale. È un’emergenza che spesso viene sottovalutata o raccontata come fisiologica. Non lo è. Di fronte a tutto questo, troppo spesso il messaggio che arriva dalla politica — da chi sminuisce la portata del voto o invita addirittura a non votare — è quello di un silenzio pericoloso. Come se i problemi si potessero congelare o rinviare. Come se rinunciare al proprio diritto di voto fosse un gesto neutro. Non lo è.

L’8 e 9 giugno, votare ai referendum sul lavoro non è solo esercitare un diritto: è un gesto di responsabilità e giustizia verso chi lavora ogni giorno in condizioni difficili, invisibili, precarie, esposte a rischi che spesso non vengono nemmeno nominati – si legge ancora nella nota -. Per questo, oggi più che mai, è necessario un vero cambio di rotta. Un lavoro buono, stabile, sicuro e libero da discriminazioni è il presupposto essenziale per garantire autonomia economica, dignità e diritti a tutte le lavoratrici. Servono scelte coraggiose a partire da misure concrete per garantire la sicurezza sul lavoro con un approccio che tenga conto delle differenze di genere nella valutazione dei rischi, dei dispositivi di protezione individuale, della prevenzione e del riconoscimento pieno delle malattie professionali e psicosociali.

L’8 e 9 giugno, con i referendum promossi dalla Cgil, abbiamo l’opportunità concreta di fermare questa deriva. Votare non è solo un diritto: è un atto di giustizia verso le tante donne che ogni giorno pagano sulla propria pelle il prezzo della precarietà e della mancanza di tutele. (cv)

[Caterina Vaiti è Segretaria regionale Flai Cgil Calabria]

IL REFERENDUM PER LA CITTADINANZA
E L’IMPERDONABILE SCELTA DI CONTE

di ERNESTO MANCINIIl leader dei Cinque Stelle, Giuseppe Conte, non si è schierato a favore del referendum che riporterebbe da dieci a cinque anni il tempo necessario per chiedere la cittadinanza da parte degli stranieri regolarmente residenti in Italia.

Egli ha motivato tale scelta affermando pubblicamente che i 5 Stelle hanno presentato in Parlamento apposito disegno di legge organica sulla cittadinanza (ius scholae) per cui è opportuno procedere con tale legge anziché con lo strumento del referendum. 

Conte ha pure affermato che lascia comunque liberi gli iscritti al Movimento di votare secondo coscienza rimanendo perciò liberi da direttive di partito. Egli voterà “sì” al referendum ma gli iscritti potranno regolarsi come meglio credono.

La posizione di Conte non può essere condivisa

In primo luogo, va notato che di proposte di legge giacenti in Parlamento sulla cittadinanza (ivi compreso lo ius scholae presentato non solo dai 5 Stelle ma anche dal PD ed altre componenti della sinistra che in più sostengono a ragione anche lo ius soli eventualmente temperato con lo ius scholae) ce ne sono almeno una decina e nessuna di queste ha possibilità concrete di arrivare in porto in questa legislatura. La maggioranza parlamentare di destra, infatti, è blindata contro ogni legge che riconosca maggiori diritti per i migranti quand’anche siano nati qui o qui siano residenti regolarmente da parecchi anni. Non si tratta perciò di clandestini od irregolari ma di persone (donne, uomini, ragazze e ragazzi, in moltissimi casi addirittura nati in Italia) che lavorano e studiano in questo nostro Paese e che alcuni hanno giustamente definito “nuovi italiani” (Treccani, Vocabolario dei neologismi; Censis progetto di ricerca sui “nuovi italiani”).

In secondo luogo, la riduzione dei tempi di cittadinanza tramite referendum non ostacola in alcun modo i disegni di legge depositati in Parlamento, anzi ne rafforzerebbe le ragioni qualora una forte partecipazione popolare riuscisse a spingere verso la stessa direzione. Al contrario, tali disegni di legge sarebbero ancor più ostacolati ove il quorum non si raggiungesse consentendo alla destra di cantare vittoria ed affermando gratuitamente che gli italiani non hanno voluto alcuna norma di favore per gli immigrati. Sembra già di sentirla questa prossima litania.

In terzo luogo, va ricordato che alle recenti elezioni europee del 6 giugno 2024 votarono 24.621.499 di italiani su 46.552.399 aventi diritto al voto. Meno della metà, insomma, e cioè il 49,6%. Va però chiarito che nei 24 milioni dell’anno scorso ci sono solo 11,6 milioni di votanti che appartengono a partiti favorevoli a ridurre il tempo per la cittadinanza mentre il quorum rimane a circa 24 milioni. Se poi da questi 11,6 mln si detraggono in tutto od in parte, dato il forfait di Conte, i 2,3 mln dei Cinque Stelle delle europee 2024, il quorum dei 24 mln,  già lontano, diventa lontanissimo perché i contrari alla riduzione dei termini per la cittadinanza non hanno alcun interesse a partecipare al voto così impedendo il quorum. In questa situazione è evidente che la partita del referendum si gioca tutta sul quorum per cui il disimpegno “come partito” dei 5S è scelta imperdonabile.

Solo per completezza va detto che la tornata referendaria è stata privata del referendum per l’abrogazione totale della legge Calderoli sull’autonomia differenziata; tale referendum, come è noto, è stato inopinatamente non ammesso dalla Corte Costituzionale. C’è da credere, al riguardo, che quella consultazione sarebbe stata molto trainante per le altre. Si è dunque assai lontani dal quorum anche per circostanze sopraggiunte e Conte, come se non bastasse, ci ha messo anche del suo.

C’è dunque da sperare in un’alta affluenza alle urne: alle politiche del settembre 2022 l’affluenza fu del 63,91 % con 29,4 mln di votanti ampiamente superiore ai 24 mln ora richiesti.  C’è però da tener conto, anche in questo caso, che oltre metà di questa cifra appartiene ai partiti di destra che oggi incentivano con messaggi ufficiali a non recarsi alle urne proprio per evitare il quorum. Perciò, come si disse una volta, “tutti al mare !!”. È significativo, al riguardo, che il Governo abbia scelto una domenica di giugno nonostante il referendum potesse essere fissato, a termini dell’art. 34 della legge n. 352/1970, tra il 15 aprile ed il 15 giugno). È anche significativo che la Meloni abbia dichiarato che si recherà alle urne ma senza ritirare le schede referendarie; di mezzo ci sono anche i secondi turni per le elezioni comunali di alcune città e quelle schede saranno invece utilizzate senza che vadano conteggiate per il quorum referendario. 

Da quanto precede risulta evidente che l’unica concreta possibilità di successo del referendum sulla cittadinanza è quella di una massiccia partecipazione da parte dei cittadini che nelle scorse votazioni non andarono a votare. In tal modo si colma il gap di voti mancanti a causa della non partecipazione degli elettori appartenenti ai partiti governativi che si oppongono al referendum. Questo vale anche per i referendum sul lavoro e su ciò i segretari dei sindacati e dei partiti referendari hanno più volte rivolto un appello al voto nei pochi talk televisivi che fino ad oggi hanno affrontato l’argomento.

Un’ultima annotazione sulla libertà di coscienza indicata da Conte. La riduzione per legge da dieci a cinque anni per gli immigrati non è una questione di coscienza bensì di puro diritto ed ancor più di diritto umanitario. Dice l’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948: “Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza. Nessuno può essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza né del diritto di mutarla.” Sulla stessa linea vedi Convenzione Europea sulla Nazionalità (Strasburgo, 1997), Convenzione sui diritti del fanciullo (New York, 1989), Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (1966), Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1965), Convenzione sulla condizione dei rifugiati (Ginevra, 1951).

Non è dunque una tema che può essere lasciato all’etica o alla morale personale perché è vincolato ai principi universali dei diritti dell’uomo che lo Stato “deve” applicare. Che uno Stato preveda discrezionalmente condizioni temporali di accesso è cosa possibile ed anche legittima ma che queste condizioni si spingano oltre il ragionevole (dieci anni più gli ulteriori due-quattro anni per la procedura burocratica di riconoscimento e altri requisiti quali, reddito personale o familiare, lavoro, ecc.) è cosa che va ridimensionata con ogni mezzo. Il referendum è un mezzo che va in questa direzione nell’attesa di una legge organica che, per ora, non accenna minimamente ad arrivare.

Se poi si insiste sulla coscienza e perciò sulla morale va ricordato quanto disse duemila anni fa un maestro di virtù umane: “…perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi.” (Vangelo secondo Matteo 25,35-36). Speriamo che anche molti elettori democratici di destra non abbiano paura e se ne ricordino. 

Quel Maestro oggi andrebbe a votare segnando il “sì” sulla scheda. Non c’è dubbio. (em)

 

L’OPINIONE / Amalia Bruni: Voto al Referendum è un dovere morale

di AMALIA BRUNI – Ogni volta che un lavoratore perde la vita sul posto di lavoro, non è solo una tragedia personale e familiare: è un fallimento collettivo, che chiama in causa l’intera società, le istituzioni e il sistema delle regole che dovrebbero tutelare la vita e la dignità di chi lavora. Ed è proprio questa strage silenziosa, che continua a ripetersi giorno dopo giorno, a dare oggi un significato ancora più forte ai referendum popolari dell’8 e 9 giugno.

L’ennesima vittima registrata nei giorni scorsi nel cantiere dell’A2, il 55enne Salvatore Cugnetto di Lamezia Terme, è solo l’ultimo volto di un elenco che si allunga senza sosta. Solo nei primi cinque mesi del 2025, nella sola Lamezia Terme, sono già tre gli operai che non sono più tornati a casa: Francesco Stella, 38 anni; Maicol Affatato, 26 anni; e adesso Salvatore. Tre tragedie che non possono più essere archiviate come fatalità, ma che raccontano di un sistema che continua a sacrificare vite umane sull’altare del profitto e dell’assenza di prevenzione.

Dietro ogni morte sul lavoro c’è quasi sempre un denominatore comune: mancanza di controlli, carenza di formazione, appalti e subappalti che scaricano la responsabilità verso il basso, imprese che tagliano sui costi della sicurezza. È questo meccanismo che i referendum cercano finalmente di interrompere, restituendo piena responsabilità a chi decide, organizza e gestisce i cantieri e i luoghi di lavoro. Non possiamo più permettere che a pagare siano sempre gli ultimi, mentre i vertici restano protetti e impuniti.

Serve un modello di impresa diverso, che metta al centro la persona e la qualità del lavoro, non il massimo ribasso. Bisogna introdurre meccanismi chiari di responsabilità solidale per chi appalta e subappalta, potenziare gli ispettorati del lavoro, rafforzare la medicina preventiva, arrivare a norme penali che riconoscano la gravità di chi consente, per negligenza o dolo, che si continui a morire così.

Il referendum ci chiama a scegliere. Scegliere se restare indifferenti o dare finalmente voce a chi lavora, spesso in condizioni di precarietà e insicurezza. Scegliere se accettare ancora questa strage continua o pretendere che la vita di chi lavora sia sacra, inviolabile e tutelata. L’8 e il 9 giugno non è in gioco solo una riforma: è in gioco la nostra idea di giustizia sociale. Per questo rivolgo un appello a tutti: andiamo a votare, per noi e per chi non può più farlo. (ab)

[Amalia Bruni è consigliera regionale del PD]

Landini in Calabria: “Il referendum è un’opportunità per rimettere al centro il lavoro e i diritti”

I Referendum «permettono di cancellare leggi sbagliate che hanno precarizzato il lavoro e di estendere i diritti a chi oggi non li ha. Si tratta di rimettere al centro la dignità del lavoro, superare la logica degli appalti e subappalti che riduce la qualità, mette a rischio la sicurezza e sta facendo morire persone». È quanto ha detto Maurizio Landini, segretario nazionale della Cgil, all’Università “Magna Graecia” di Catanzaro per un nuovo appuntamento della campagna referendaria che lo vede impegnato nella nostra regione.

Accompagnato dal segretario generale della Calabria, Gianfranco Trotta, e introdotto dal segretario generale della Cgil Area Vasta Catanzaro-Crotone-Vibo, Enzo Scalese, Landini ha incontrato studenti e precari nell’aula magna C dell’Ateneo, alla presenza di numerosi dirigenti, docenti ed esponenti politici e istituzionali del capoluogo.

Riferendosi in particolare alla Calabria, il segretario ha richiamato l’emergenza dell’emigrazione giovanile e del lavoro povero: «In tanti, giovani e laureati, sono costretti a lasciare il proprio territorio per mancanza di prospettive. Superare il sistema degli appalti significa anche contrastare gli spazi lasciati alla malavita organizzata, che si infiltra nell’economia dove mancano regole e controlli».

Landini ha ribadito inoltre il legame tra precarietà e criminalità organizzata, denunciando «150 anni di connivenze politiche con mafia, camorra e ’ndrangheta che hanno favorito la concentrazione della ricchezza in mano a pochi, l’evasione fiscale e i condoni».

Sul tema della partecipazione al voto, il leader della Cgil ha lanciato un appello diretto: «Chi invita a non andare a votare ha paura del cambiamento. Il referendum è uno strumento di democrazia diretta: non si vota per qualcuno, si vota per cambiare leggi che hanno tolto diritti e dignità. E noi sentiamo che il quorum può essere vicino».

«Stiamo portando avanti questa campagna referendaria attraversando i territori, andando in mezzo alla gente, nei luoghi di lavoro, nelle aziende, nelle università, come oggi qui all’Università Magna Graecia. Stiamo cercando, nei tempi e nei modi possibili, di creare occasioni di confronto reali, dove il segretario generale della CGIL, oggi qui con noi, possa ascoltare, discutere e aprire un dialogo vero con le persone. Un dialogo che richiede tempi distesi, non quelli della fretta, perché il confronto sulle questioni del lavoro ha bisogno di ascolto e di approfondimento», ha detto il segretario generale della Cgil Area Vasta Catanzaro-Crotone-Vibo, Enzo Scalese, introducendo i lavori e passando poi la parola al sindaco di Catanzaro, Nicola Fiorita per un saluto.

«L’8 e il 9 giugno andrò a votare e voterò 5 Sì, ma ciò che conta davvero è il valore della partecipazione», ha esordito il sindaco Nicola Fiorita, che ha scelto di non entrare nel merito dei quesiti, lasciando spazio agli esperti e ai promotori del referendum, ma ha voluto sottolineare l’importanza del voto come espressione fondamentale della democrazia. «La democrazia non è solo il governo di chi ottiene più voti, ma un sistema di regole, contrappesi, limiti costituzionali e confronto tra idee. Si può legittimamente scegliere il proprio orientamento, ma utilizzare l’astensione per condizionare il risultato significa danneggiare il nostro sistema democratico», ha aggiunto.

Per il sindaco, il rischio è che la disaffezione al voto possa progressivamente intaccare uno dei pilastri fondamentali della democrazia: «Il voto deve essere uno strumento di confronto libero e trasparente», ha concluso Fiorita.

Ad entrare nel vivo del confronto, la testimonianza del rappresentante delle Rsu dell’Università “Magna Graecia”, Ivan Caroleo, ha posto l’attenzione sulle criticità che investono il personale precario dell’Ateneo di Catanzaro, sottolineando come il problema del precariato coinvolga oggi almeno il 60% del personale.

«Esistono due principali categorie di lavoratori precari – ha spiegato Caroleo –: i tecnologi a tempo determinato, in attesa di una definitiva stabilizzazione dopo anni di precariato, e i lavoratori interinali, soggetti a continui rinnovi di contratti a breve termine, pur svolgendo mansioni essenziali per il funzionamento dell’università».

Caroleo ha quindi auspicato che si possano individuare soluzioni concrete per superare questa situazione e garantire stabilità lavorativa a chi da anni contribuisce con competenza e professionalità alla vita dell’Ateneo.

Durante l’incontro all’Università Magna Graecia di Catanzaro, il rappresentante degli studenti Giovanni Oliverio ha portato la voce della comunità studentesca, sottolineando le difficoltà che oggi vivono gli universitari: dall’insufficiente sistema di diritto allo studio al precariato, fino alle criticità dell’accesso a Medicina e al problema degli stipendi per dottorandi e specializzandi.

«Troppo spesso gli studenti si sentono abbandonati – ha detto Oliverio – e ne pagano le conseguenze nel lavoro, nei trasporti, nella mancanza di tutele economiche. La riforma dell’accesso a Medicina rischia di creare nuove disuguaglianze, mentre il vero merito esiste solo se tutti partono dalle stesse condizioni». Oliverio ha infine invitato a non cadere nella trappola dell’astensione sul referendum: «Per noi votare è un gesto di democrazia e di civiltà. Chi nasce e cresce in Italia deve essere riconosciuto come cittadino a pieno titolo».

«Se penso al quesito sulla precarietà – ha detto Landini – penso al fatto che oggi il lavoro precario è diventato la forma più diffusa di occupazione. Sono stati introdotti strumenti come il lavoro interinale, i voucher e tante altre forme contrattuali atipiche che hanno generato instabilità e insicurezza. Per questo il referendum può rappresentare un punto di svolta: non è solo un modo per cancellare una legge sbagliata, ma per indicare una direzione nuova, un cambio di rotta rispetto alle politiche degli ultimi anni».

«Il referendum – ha ribadito – non serve solo ad abrogare una norma: serve a dare un segnale politico forte al Governo, al Parlamento e a tutte le forze politiche. È il modo per dire che c’è una parte importante del Paese che chiede un cambio di paradigma nel mondo del lavoro. Non si può più andare avanti con norme che alimentano precarietà e diseguaglianze.»

«Naturalmente il referendum da solo non basta – ha sottolineato –. Servono nuove riforme: una legge sul salario minimo, una sulla rappresentanza sindacale, un nuovo Statuto dei diritti dei lavoratori che non lasci nessuno indietro. Perché oggi lavorano anche i collaboratori, le partite IVA, i freelance, e tutti devono avere gli stessi diritti su malattia, maternità, infortuni e sicurezza».

«La sfida più grande oggi – ha concluso – è riportare al voto anche chi ha smesso di crederci. Il referendum è diverso dalle elezioni politiche: qui non si vota per eleggere qualcuno, ma per decidere direttamente su leggi che incidono sulla vita delle persone. È come essere parlamentari per un giorno. E spesso ci sentiamo dire: “Voto per i miei figli, per il loro futuro”. Questo ci dice che la speranza, nonostante tutto, esiste ancora». (rcz)

AUTONOMIA, 10 DOMANDE E 10 RISPOSTE
IN ATTESA DELL’ESITO DELLA CONSULTA

di ERNESTO MANCINIIl prossimo 20 gennaio la Corte Costituzionale deve decidere in via definitiva se ammettere o meno il referendum per l’abrogazione della legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata. La decisione, in senso favorevole allo svolgimento del referendum, appare molto probabile ma non scontata.

È infatti accaduto che la legge Calderoli sia stata molto rimaneggiata dalla precedente sentenza della stessa Corte del 14 novembre scorso che aveva dichiarato incostituzionali parti essenziali di tale normativa cancellandole dall’ordinamento giuridico oppure imponendo, come vedremo di qui a poco, interpretazioni ed applicazioni costituzionalmente orientate.

Ed è perciò che il quesito referendario originario formulato con la raccolta delle firme l’estate scorsa (“volete voi abrogare la legge n. 86 del 26 giugno 24 sull’autonomia regionale differenziata?”) è stato riformulato a cura dell’Ufficio per il Referendum della Corte di Cassazione sentito il Comitato promotore, nel seguente modo: (“volete voi abrogare la legge n. 86 del 26 giugno 24 sull’autonomia regionale differenziata come risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 192/94? – Abrogazione totale) 

D’altra parte, la Corte Costituzionale non può non prendere atto che con le firme raccolte l’estate scorsa a cura del Comitato promotore del referendum (ben 1.300.000 firme) si chiedeva l’integrale abrogazione e non quella parziale. 

In vista dell’imminente decisione del Giudice Costituzionale conviene riepilogare qui di seguito come stanno ad oggi le cose. Seguiremo il metodo F.A.Q. – Frequently Asked Questions – cioè domande e risposte frequenti per una rapida conoscenza degli aspetti principali della fattispecie in esame.

 

1) Perché la legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata è stata definita “legge spezza Italia”?

La legge Calderoli è stata definita “legge spezza Italia” perché si propone di trasferire alle Regioni in modo differenziato, e segnatamente alle regioni più ricche, poteri che spettano allo Stato, con ciò minando l’unitarietà e la indivisibilità della Repubblica. Questo giudizio è pressoché unanime da parte di costituzionalisti, economisti, esperti di regionalismo e di finanza pubblica. Anche importanti istituzioni, centri di studio ed associazioni si sono espressi nettamente contro; tra questi: Banca d’Italia, Confindustria, Ufficio Parlamentare di Bilancio, Svimez, Anci, Acli, Anpi, Conferenza Episcopale, Sindacati maggiormente rappresentativi, e così molti altri.

2) Qual è il ruolo svolto dalla Corte Costituzionale nei confronti di tale legge?

La Corte Costituzionale è un organo di vertice dello Stato a cui spetta giudicare se una legge sia illegittima o meno e cioè se essa contrasti o meno con i princìpi della Costituzione. Va ricordato che la Costituzione è la legge fondamentale della Repubblica cioè una legge sovraordinata a tutte le altre sicché nessuna legge ordinaria può contrastare con essa. Quando vi è contrasto, come avviene con la legge Calderoli, la Corte Costituzionale ne dichiara la illegittimità e la cancella in tutto od in parte dall’ordinamento. 

3) Su quali premesse la Corte Costituzionale fonda il proprio giudizio di illegittimità sulla legge Calderoli?

Nella premessa della motivazione la Corte afferma che qualsiasi legge che riguardi il regionalismo italiano non può derogare ai princìpi fondamentali di unitarietà ed indivisibilità della Repubblica nonché di solidarietà ed uguaglianza dei cittadini. Si tratta di princìpi molto chiari così come vengono codificati dagli articoli 2, 3 e 5 della Costituzione. Già di per sé questa affermazione della Corte impedisce di poter differenziare i poteri delle Regioni quando tale differenziazione, come nel caso della legge Calderoli, comporta frammentazione e competizione anziché unità e cooperazione.

4) Qual è la principale censura che la Corte Costituzionale muove alla legge Calderoli sull’autonomia differenziata? 

La Corte dichiara illegittima la legge Calderoli perché consente di trasferire alla competenza esclusiva di alcune regioni più “materie”, cioè poteri pubblici sia legislativi che amministrativi. Si tratta di materie fondamentali dell’agire pubblico quali, per esempio, la pubblica istruzione, la sanità, la tutela dell’ambiente, i trasporti, l’energia ecc. ecc. (in tutto 23). Per tali materie lo Stato non avrebbe più avuto, stante la devoluzione esclusiva a singole regioni, una posizione di sovra ordinazione rispetto ad esse. Lo Stato, in altri termini, sarebbe stato estromesso da ogni competenza, perfino quella di indirizzo e di controllo dell’operato regionale.

5)  Qual è la differenza tra il regionalismo originario e quello voluto dalla legge Calderoli? 

Il regionalismo italiano fu voluto dai Padri e dalle Madri Costituenti fin dal 1948, e poi attuato negli anni ’70 come sistema che valorizzasse le autonomie territoriali e la partecipazione dei cittadini alle istituzioni a loro più vicine. La legge Calderoli, però, tradisce la volontà originaria dei Costituenti perché spinge il regionalismo al punto di dargli consistenza di separatismo e, comunque, di differenziazione esasperata ed egoistica in ragione della maggiore ricchezza di alcune regioni rispetto ad altre. La conseguenza è il disordine istituzionale, la frammentazione ed il caos nel funzionamento di tutte le attività legislative e di pubblica amministrazione e ciò a danno dei cittadini, delle imprese e di qualsiasi altra componente sociale. 

6) È vero che la legge Calderoli, come sostengono i suoi fautori, non fa altro che applicare il nuovo titolo V della Costituzione così come introdotto nel 2001?

Non è vero. La legge Calderoli tradisce anche il nuovo Titolo V della Costituzione introdotto nel 2001. Tale normativa, infatti, pur prevedendo la possibilità di attribuire più autonomia, giammai consente, neppure implicitamente, la possibilità di trasferire intere materie alle regioni svuotando lo Stato delle competenze originarie attribuitegli. E su ciò la Corte Costituzionale è stata molto chiara impedendo, come si è detto, che alle regioni fossero trasferite disinvoltamente ed in via esclusiva le materie e cioè i poteri legislativi ed ammnistrativi dello Stato.

7) Il Giudice delle Leggi esclude la devoluzione delle “materie legislative ed amministrative” ma ammette la possibilità del trasferimento di alcune “funzioni”. Cosa significa?

Intanto significa che i poteri dello Stato rimangono inalterati poiché su tutte le materie che il Titolo V già prevede col sistema della concorrenza (rectius: cooperazione) Stato/Regione (istruzione, sanità, ambiente, trasporti, ecc.) rimane allo Stato il potere di legiferare sui principi fondamentali da cui le Regioni non possono discostarsi. Per esempio: la scuola resta statale e non può diventare regionale, il Servizio Sanitario rimane Nazionale e continuerà ad articolarsi nelle regioni da un punto di vista organizzativo, come già avviene per effetto della Riforma Sanitaria del 1978 (legge n.833/78).

Inoltre, per la devoluzione di singole  funzioni la Corte stabilisce che per specifiche esigenze possono trasferirsi singole funzioni  (non materie) ma ciò deve essere adeguatamente giustificato, deve essere preceduto da adeguata istruttoria , deve riguardare specifiche esigenze del territorio, deve  essere fatto ex parte populi e non ex parte principis; in altri termini non deve essere un mero trasferimento di potere dallo Stato a singole Regioni solo per accrescere il potere di queste a danno di quello ovvero a danno delle altre regioni e, più in generale,  a danno della Repubblica considerata come soggetto unitario. Per esempio, la “funzione assistenza ospedaliera” che fa parte della “materia sanità” è comune a tutte le regioni e non specifica di alcune per cui non può configurarsi alcuna differenziazione di poteri di una regione rispetto ad un’altra. 

8) In che cosa consistono i princìpi del bene comune e della sussidiarietà richiamati dalla Corte?

Il principio del c.d. “bene comune” comporta che non si dovrà avere riguardo solo all’interesse della singola regione bensì all’interesse pubblico che è interesse comune a tutti. Afferma al riguardo la Corte che la differenziazione non deve essere un fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale, ma uno strumento al servizio del bene comune della società e della tutela dei diritti degli individui e delle formazioni sociali.

Ma non basta. La Corte insegna altresì che tutte le scelte devono applicare anche il c.d. “principio di sussidiarietà”. Si tratta del principio per cui una funzione pubblica può essere collocata verso il basso o verso l’alto (Comuni, Regione, Stato e addirittura Unione Europea) allorché si stabilisca che il modo più adeguato per svolgere tale funzione appartenga all’uno od all’altro di questi livelli secondo un principio di corretta distribuzione delle competenze per una maggiore efficacia delle politiche di riferimento. In materia di tutela ambientale, per esempio, è di tutta evidenza che interventi efficaci devono farsi a livello sovranazionale non essendo più sufficiente, secondo il principio di sussidiarietà, il livello nazionale. L’Unione Europea si avvarrà, nei limiti della propria competenza, dello Stato e questo delle Regioni per l’organizzazione dei servizi di tutela ambientale come già avviene da tempo.

9) Quali altre censure di illegittimità ha dichiarato la Corte riguardo alle Legge Calderoli.

È presto detto: a) è illegittimo che la decisione sostanziale sull’autonomia differenziata venga lasciata al Governo emarginando il ruolo invece essenziale del Parlamento. Tutta la procedura va in conseguenza rivista; b) è illegittimo che sia un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri e non un atto legislativo a determinare i livelli essenziali delle prestazioni. È attraverso tali livelli che si potranno misurare le differenze territoriali e determinare i relativi finanziamenti per cui è assolutamente necessaria una legge del Parlamento quale massimo organo decisionale della Repubblica; c) è ugualmente illegittimo che sia un decreto interministeriale e non un atto legislativo a stabilire quali siano i proventi delle imposte da mantenere alla singola regione riducendo pertanto la quota che va allo Stato per ogni esigenza nazionale della finanza pubblica; d) è inoltre illegittimo che le Regioni siano semplicemente facoltizzate e non obbligate a concorrere agli obbiettivi della finanza pubblica con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà ed unità della Repubblica.

Vi sono altre norme della legge che la Corte non ha dichiarato incostituzionali ma, beninteso, alla condizione tassativa che vengano interpretate in modo “costituzionalmente orientato” senza il quale ogni atto successivo diventa illegale. Le condizioni, per ogni aspetto, sono: a) che l’iniziativa legislativa per ogni eventuale differenziazione non venga riservata unicamente al Governo; b) che la legge di differenziazione non è legge di mera approvazione dell’intesa Governo/Regioni (“prendere o lasciare”) ma implica il potere di emendamento (modifica, integrazione, rigetto) da parte delle Camere. c) quando si tratta di materie cosiddette “non Lep”, che cioè non riguardano livelli essenziali delle prestazioni, le relative funzioni sono trasferibili purché non si tratti di prestazioni concernenti diritti civili e sociali. Anche in questi casi si dovranno prima attendere la determinazione ed i finanziamenti dei Lep e non devolvere sbrigativamente come voleva fare il Governo. d) le risorse destinate alle funzioni trasferite non dovranno essere determinate sulla base della spesa storica ma con riferimento a costi e fabbisogni standard e criteri di efficienza. Se, per esempio nella tale regione del  Nord vengono garantite risorse per dieci asili nido ogni 100mila abitanti e nel tal altra regione del Sud risorse per tre asili nido ogni 100 mila abitanti, i finanziamenti dovranno essere conseguenti per garantire parità di livello delle prestazioni. La spesa storica, invece, non fa altro che cristallizzare le differenze.

10) Quali sono le conclusioni che si possono trarre dopo la sentenza della Corte Costituzionale? Ed il referendum abrogativo è ancora necessario?

Tutti gli osservatori qualificati sono concordi nel dire che la legge Calderoli n.86 del 26 giugno 24 è stata “demolita” o “svuotata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n 192 del 14.11.24. Addirittura, la suprema Corte di Cassazione (che è ben di più di un osservatore) parla di “massiccia demolizione” nell’ordinanza del 12 dicembre 24 (pag.32) con la quale ha dichiarato l’ammissibilità del referendum abrogativo e, come si è visto,  ha riformulato il quesito referendario. Sono infatti rimaste in piedi alcune parti della legge, invero non essenziali, che tuttavia non possono ostacolare la volontà referendaria di abrogare tutta la legge sia pure con i rifacimenti sostanziali operati dal Giudice Costituzionale. 

Va detto che da un punto di vista di legalità costituzionale i Comitati contro l’autonomia differenziata hanno già vinto la loro battaglia. Ora, con il referendum, la lotta si sposta sul piano politico affinché nessuno, con artifizi e raggiri messi in atto da governi e ministri compiacenti, insista ancora su questa partita che, così come era stata impostata, aveva creato, a dire di eminenti costituzionalisti, una legge “eversiva”, “indebitamente appropriativa” ed “incostituzionale nell’anima”.

Ecco, le cose stanno nei termini coma sopra esposti. Non rimane che attendere il giudizio definitivo della Corte Costituzionale sull’ammissibilità del referendum per l’abrogazione totale anche di ciò che rimane della legge Calderoli. (em)

 

AUTONOMIA, REFERENDUM QUASI INUTILE
PRESTO LA DECISIONE SULL’AMMISSIBILITÀ

di ERNESTO MANCINI –Ed ora cosa succede dopo che la Corte Costituzionale con sentenza n. 192 del 14 novembre 2024 ha dichiarato illegittime e perciò cancellato molte norme della legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata?

La stragrande maggioranza dei costituzionalisti parlano di avvenuta demolizione della legge nelle sue norme più significative al punto che ora si discute se ancora sia ammissibile svolgere il referendum per la sua abrogazione totale posto che la legge, nel suo impianto originario e nei suoi princìpi ispiratori, non esiste più. Sul punto si può osservare quanto segue.

1) L’iter per i giudizi di legittimità e ammissibilità del referendum.

Saranno la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale a decidere sul referendum, sia pure con due distinti ruoli: alla prima spetta un giudizio di legittimità, alla seconda un giudizio di ammissibilità. Vediamo in che senso.

1.1) Corte di Cassazione: giudizio di legittimità

Secondo l’art. 32 della legge n. 352 del 25.7.1970 che detta la disciplina dei referendum, la Corte di Cassazione, dopo avere accertato con propria ordinanza che le firme per la richiesta di referendum sono regolari per numero e conformità e dopo avere stabilito, sentiti i promotori, la denominazione del referendum da riprodurre nelle schede di votazione, trasmette il tutto alla Corte Costituzionale per il giudizio di ammissibilità.  Infatti, una richiesta di referendum potrebbe essere legittima sotto il profilo degli adempimenti di legge (regolarità di almeno 500 mila firme, presentazione entro i termini di legge della richiesta, ecc.) ma la sua ammissibilità, cioè il fatto che il referendum possa svolgersi, è affidata alla Corte Costituzionale.

L’ordinanza della Cassazione sulla legittimità del referendum dovrà essere trasmessa al Presidente della Corte Costituzionale entro il prossimo 15 dicembre c.a. e cioè nei prossimi giorni. Non vi sono dubbi che ciò avverrà.

1.2) Corte Costituzionale: giudizio di ammissibilità

Il Presidente della Corte Costituzionale, ricevuta l’ordinanza della Corte di Cassazione, fissa entro il 20 gennaio l’udienza per la deliberazione sulla ammissibilità nominando, tra i giudici costituzionali, un relatore. La sentenza che ammette o rigetta l’ammissibilità del referendum deve essere pubblicata entro il 10 febbraio successivo e deve essere formalmente trasmessa al Presidente della Repubblica, ai Presidenti delle due Camere, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed all’Ufficio Centrale della Cassazione per il referendum. Si tratta di termini massimi sicché il procedimento può concludersi anche prima.

1.3) indizione del referendum con decreto Presidente della Repubblica previa deliberazione del Consiglio dei Ministri

Ricevuta la sentenza di ammissibilità pronunciata dalla Corte Costituzionale il Presidente della Repubblica indice il referendum sulla base di una deliberazione ad hoc adottata dal Consiglio dei Ministri. Da notare che la data del referendum deve essere fissata in una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno.

2) Le insidie per l’abrogazione totale della legge Calderoli

2.1) Il quorum per la validità del referendum abrogativo

Come è noto il quorum per la validità del referendum è costituito dalla metà più uno degli italiani aventi diritto al voto cioè iscritti formalmente nelle liste elettorali. Al riguardo va notato:

– che tale numero al momento può quantificarsi in 25.607.175 cioè la meta più uno di 51.214.348 (tali erano gli aventi diritto al voto alle recenti elezioni europee del 9 giugno 24 -vedi su Eligendo – Ministero Interno);

–  che alle recenti elezioni europee hanno votato solo il 48,31 % degli aventi diritto al voto e cioè 24.741.651 (ancora su Eligendo – Min. Interno);

– che ulteriori difficoltà per il quorum sono rappresentate dal fatto che si vota nel solo giorno di domenica mentre alle recenti elezioni europee si è votato dalle 14 alle 22 del sabato e alla domenica;

– che tra gli aventi diritto al voto per il referendum sono compresi anche gli italiani residenti all’estero (Aire) come specifica il Ministero dell’Interno sul proprio sito istituzionale. Al 1° gennaio 2023: erano iscritti all’AIRE circa 5.933.418 italiani;

– che il referendum possa essere considerato come uno scontro Nord-Sud anziché una battaglia per l’unità d’Italia contro ogni frammentazione;

È dunque di tutta evidenza che la battaglia dei referendari per il quorum sarà durissima atteso il diffuso astensionismo dalle urne degli italiani. Peraltro, all’astensionismo ormai consolidato si aggiungerà sicuramente l’astensionismo indotto dai partiti di governo che spingono per l’autonomia differenziata (Lega soprattutto ma anche gli altri, almeno esteriormente, stante il noto pactum sceleris sulle riforme programmate: autonomia differenziata, premierato, separazione carriere magistrati).

E tutto ciò sarà ancora più difficile se si dovesse votare in una domenica di giugno poichè moltissimi cittadini fissano per giugno le loro vacanze stanti i prezzi di soggiorno minori rispetto a luglio ed agosto. Il Comitato Referendario dovrà perciò rivendicare dal Governo una data giusta e non pregiudizievole.

Gioca invece a favore del quorum la circostanza che si voterà anche per altri referendum abrogativi di norme ingiuste (tra gli altri il referendum sulla cittadinanza, i quattro referendum Cgil sul lavoro – reintegro, licenziamenti, lavoro a termine, precarietà negli appalti).

2.2) sul giudizio di ammissibilità

Come si è detto il giudizio sull’ammissibilità del referendum è affidato alla Corte Costituzionale e ciò dà tutte le garanzie ai promotori per una decisione giusta ed equilibrata.

Il problema che la Corte dovrà risolvere è se possa svolgersi un referendum abrogativo su una legge che nel frattempo è stata, nelle parti più importanti, dichiarata illegittima e pertanto, nelle stesse parti, non più in vigore dal giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

Beninteso non si tratta solo di caducazione di norme per illegittimità costituzionale ma anche di correzione di norme che in alcuni casi è ancora più penetrante.  Infatti, stante il dictum della Corte, è già subentrato nell’ordinamento ed è perciò perfettamente vigente il principio per cui non possono trasferirsi alle regioni intere materie ma solo singole funzioni in relazione a specifiche esigenze, peraltro debitamente motivate e giustificate da una situazione peculiare della Regione e perciò da una situazione non comune alle altre. Con il contestuale obbligo che si applichi il principio di sussidiarietà che impone di svolgere la funzione al livello più adeguato. Tale livello, come ha insegnato la Corte, non è necessariamente quello regionale ma può essere quello statale e perfino europeo secondo il principio di efficienza, vincolanti direttive europee, ecc.ecc. Il tutto sulla base del “bene comune” e non certo del mero trasferimento di poteri per fini competitivi ed egoistici contrari ai princìpi costituzionali di cui agli artt. 3,5 e 7 Costituzione: solidarietà, uguaglianza, unità ed indivisibilità della Repubblica.

Sulla base del tassativo criterio così indicato dalla Corte non si vede come, ad esempio, nella sanità pubblica possano attribuirsi funzioni in via esclusiva (assistenza ospedaliera, medicina di base, specialistica, igiene pubblica, sistema di accreditamento sanità privata, ecc. ecc.) che non hanno la caratteristica di unicità e peculiarità delle singole regioni richiedenti bensì sono comuni a tutte. Per il trasferimento di istruzione, commercio estero, professioni, ambiente, energia, trasporti ed altro, la Corte ha già detto che di ulteriore devoluzione non se ne parla nemmeno (sia pure in modo più elegante rispetto a questo mio dire). Tutto ciò a tacer di molto altro che qui, per brevità non riportiamo avendone già trattato in recenti scritti (vedi su www.dirittoepersona.it ).

Ora va detto che sul tema dell’ammissibilità sembra prevalere da parte della dottrina costituzionale la tesi per cui, rimanendo comunque formalmente in piedi la legge sia pure assai rimaneggiata, il referendum è ammissibile. Sul punto si vedano i recentissimi interventi dei costituzionalisti De Minico, De Fiores, Iannello, Villone al Convegno sul Referendum (Napoli – 5 dicembre u.s. Istituto Studi Filosofici con registrazione audio-video di Radio Radicale https://www.radioradicale.it/scheda/745705/lammissibilita-del-referendum-sullautonomia-differenziata-dopo-i-rilievi-della-).

Per altra dottrina costituzionalista ugualmente autorevole (Ceccanti) ““sembrerebbe impossibile negare che siano cambiati i “principi ispiratori” e “i contenuti normativi essenziali” che sono le due condizioni che la Corte costituzionale nella sentenza 68/1978 riteneva necessari per considerare quesiti referendari superati, esauriti e quindi non più proponibili al voto degli elettori””.

Sarà il Giudice delle Leggi a decidere con sentenza non impugnabile.

2.3 Sulla inammissibilità del referendum per altre possibili cause

Si potrebbe mettere nel conto che nelle more della indizione del referendum il Governo approvi un decreto-legge (Calderoli bis) che modifichi ed integri ciò che è rimasto della legge n.86/2024 rendendola perciò superata e quindi non più soggetta a referendum. Ci sono precedenti al riguardo: referendum sulla procreazione assistita (2005); referendum sulla legge elettorale (2009): referendum sulle concessioni per l’estrazione di idrocarburi in mare (2016).

Nel caso dell’autonomia differenziata l’improvvido legislatore non potrebbe derogare ai princìpi sanciti dalla Consulta (come quello che nega la trasferibilità della materia e limita le funzioni a pochi e rarissimi casi) salvo a creare un conflitto istituzionale gravissimo che gli si ritorcerebbe contro. Queste eventuali nuove norme, sarebbero infatti clamorosamente in contrasto con la sentenza del novembre scorso e tornerebbero alla cognizione della Corte Costituzionale previo ricorso delle regioni interessate per un’ulteriore dichiarazione di illegittimità.

Dalla parte opposta i promotori referendari, nella difficile prospettiva di raggiungere il quorum (oltre 25 milioni di elettori) stante il diffuso e radicato astensionismo, potrebbero rinunciare al referendum avendo già ampiamente conseguito una netta vittoria sotto il profilo giuridico stante l’abbattimento della  legge nelle sue parti essenziali. Sul punto la dottrina è divisa: c’è chi ritiene che la rinuncia non sia possibile e chi all’opposto la ritiene possibile purché avvenga prima della indizione. Va da sé che il referendum con esito abrogativo più che una vittoria legale ormai già conseguita nella sede suprema della Corte Costituzionale, rappresenterebbe una vittoria politica affinché nessuno più ci provi a fare leggi così obbrobriose, palesemente incostituzionali e comunque spaccaitalia.

E ad una vittoria politica, dopo anni di bocconi amari per l’insipienza e l’incoscienza dei Governi Gentiloni e Conti che hanno sottoscritto le prime intese Stato/Regione, la prepotenza di Calderoli & co. dell’attuale maggioranza che se ne sono infischiati delle censure mosse dalla gran parte degli attori istituzionali, culturali, accademici e perfino ecclesiastici, è troppo importante per rinunciarvi(em)

 

Loizzo (Lega): Dopo referendum serve pacificazione sociale

La deputata della Lega, Simona Loizzo, ha evidenziato come «l’idea della grande area urbana di Cosenza rimane valida e aperta a soluzioni legislative di vario livello ma dopo il referendum c’è bisogno di una pacificazione sociale».

«Mi pare che anche il Pd ritenga valida l’idea – ha detto Loizzo – che, in ogni caso, va rimodulata con la partecipazione dei sindaci, delle associazioni, e di tutti gli attori sociali. Penso che intorno alla ricchezza dell’Unical si debba pensare seriamente all’area sud, iniziando da quel centro storico che è un patrimonio di cultura che appartiene non solo a Cosenza».

«In questo senso dobbiamo favorire iniziative – ha concluso – che partano dal concetto che gli investimenti debbano essere funzionali a tutti i comuni contermini. Il referendum era una competizione e nelle competizioni ci si divide-conclude Loizzo- ma subito dopo si lavora insieme nell’interesse esclusivo del territorio, a prescindere dai colori politici». (rp)

Antoniozzi (Fdi): Dopo referendum lavorare tutti per area urbana Cosenza

Il deputato di Fdi, Alfredo Antoniozzi, ha evidenziato come «sia comunque necessario che le forze politiche, insieme ai comuni e alle forze sociali, lavorino per sostenere le realtà locali e l’area urbana».

«Non entro nelle competenze regionali – ha aggiunto – ma credo sia indispensabile che i parlamentari sostengano l’area urbana, a partire dai centri storici. È necessario lavorare per valorizzare le bellezze storiche, per effettuare interventi sociali, per inserire l’area che gira intorno al capoluogo in progetti di sviluppo».

«I bisogni dell’area urbana – ha proseguito Antoniozzi – sono diversi e vanno inseriti in un contesto che garantisca sviluppo e futuro. Bisogna aiutare ulteriormente la città capoluogo ad uscire dal dissesto, sostenere tutti gli altri comuni anche quelli nell’area sud e delle serre».

«L’area urbana di Cosenza è ricca di tradizioni culturali e sociali di rilevanza – ha concluso Antoniozzi – che non possono essere disperse». (rp)

L’OPINIONE / Bruno Tucci: La gente che va a votare in percentuali irrisorie

di BRUNO TUCCI – Ormai è una prassi consolidata in tutto il Paese, purtroppo. La gente che va a votare ha percentuali irrisorie. Così accade da tempo in Italia, così è accaduto di recente in Calabria quando la gente ha dovuto esprimersi su “La città unica” che riguardava Cosenza e il suo hinterland.

Ci sono i soliti sapientoni che hanno letto i risultati e si sono espressi contro coloro che non si recano alle urne. Sono ritornelli riti e ritriti a cui noi calabresi abbiamo fatto il callo. Stavolta i pessimisti, non hanno potuto criticare a lungo, perchè il fenomeno interessa ogni angolo del nostro Paese, da Nord a Sud. Ragione per cui il borbottio ha avuto la durata di qualche ora, poi è finito nel nulla..

Comunque, la statistica di quest’ultimo voto è  a dir poco sconvolgente: ha votato poco più del 25 per cento della popolazione con il primato di Cosenza che non è andata al di là di un venti per cento. Se l’Italia non vota noi non dobbiamo essere contenti di un risultato così povero.
D’accordo, abbiamo violato un principio sacrosanto della nostra Costituzione. Però, qualche giustificazione è doverosa. Il progetto presentato agli elettori non aveva i crismi della originalità. Anzi, percorreva strade ormai note che non  ingannano più la gente. Chi deve esprimersi non si fa più prendere per i fondelli: legge e ragiona. Per cui molti si sono convinti che quanto proposto dalla regione era insufficiente anche se dagli organi responsabili si diceva un gran bene della “città unica”.
Adesso che è stato risposto con un chiarissimo no, quegli stessi studiosi ed esperti dovranno correre ai ripari perché “il progetto era privo di una qualsiasi visione del futuro”: In parole semplici, non c’era nulla di nuovo e lo studio non risolveva i problemi di oggi.
Allora, da ora in poi, sarà bene prima di indire un referendum che inviti la gente a rimanersene a casa, di avere una cura più attenta del piano o del programma che dir si voglia di modo che chi dovrà esprimersi con un voto lo farà volentieri senza rispondere con un no secco. (bt)