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BEN RITROVATO PRESIDENTE MATTARELLA
VIGILI PERCHÈ CI SIA «PIÚ STATO» AL SUD

Il ritorno di Mattarella al Quirinale

di MIMMO NUNNARI – Eletto (rieletto) il capo dello Stato, il galantuomo siciliano, il politico d’altri tempi, il cattolico Sergio Mattarella, e in vista, auspicabilmente, di profonde riforme istituzionali, capaci di ridisegnare il sistema istituzionale, l’occasione è buona per parlare di Stato, di Stato al Sud.

Lo Stato padre/madre, come dev’essere nelle democrazie, dovrebbe comportarsi con tutti i suoi cittadini alla stessa maniera:  riconoscendo i diritti di ognuno e pretendendo rispetto delle regole e dei doveri.

Ma è proprio così?

In Italia, paese dall’unità malcerta, piena di vizi d’origine che hanno penalizzato il Mezzogiorno, viviamo certamente in una democrazia, ma  non tutti i cittadini sono garantiti alla stessa maniera.

Facciamo appunto l’esempio del Meridione.

Al Sud, particolarmente in Calabria, che è sud del Sud, l’ultima regione d’Europa e allo stesso tempo la casa madre della mafia più violenta e potente de mondo, la Ndrangheta, lo Stato c’è e non c’è. È una presenza intermittente, una presenza incerta, figlia del dualismo, della frattura Nord Sud; di quelle anomalie  diventate nel tempo normalità in barba alle leggi, alla Costituzione, alle regole etiche e ai principi democratici.

Non a caso si parla, fin dai tempi di Giustino Fortunato, di “due Italie”, distanti, lacerate, e conflittuali.

È questo il nodo istituzionale non sciolto che si può sciogliere – ripete da sempre il meridionalista Sergio Zoppi – solo riportando la Calabria nel cuore dello Stato e il senso dello Stato nel cuore dei cittadini della Calabria.

L’affermazione, con lo stile elegante che contraddistingue Zoppi, storico cresciuto alla scuola di Spadolini, sottintende che la Calabria non è, e non è mai stata, nel cuore dello Stato, e che il senso dello Stato manca nella coscienza dei cittadini calabresi, o almeno in buona parte di essi.

Manca, il senso dello Stato, in Calabria, a torto o a ragione; per colpa dei calabresi, oppure perché i calabresi sono stati spinti alla disaffezione verso le istituzioni proprio dallo Stato.

L’auspicio di Zoppi è che le due “indifferenze”: centrali (dello Stato), locali (della regione), scompaiano con un’assunzione di responsabilità dello Stato verso il Sud,  e con una nuova consapevolezza di cittadini che fanno parte di un consorzio nazionale nei calabresi.

Sembra semplice, ma non è semplice, tutt’altro, tant’è che – in più di un secolo e mezzo dall’unità – l’operazione di “rammendo”, nei rapporti Stato Mezzogiorno, Calabria, che è ultima della classe, in particolare, non è stata mai fatta.

Una situazione di disparità territoriale del genere, sotto uno stesso manto costituzionale, non esiste da nessun’altra parte, in Europa e nell’Occidente.

Ed è una disparità che provoca disuguaglianze non solo in campo economico, civile e sociale, ma anche in quello sanitario, che è disuguaglianza più insopportabile, posto che da una buona o cattiva sanità dipende se la vita del cittadino è più lunga o meno lunga. Abbiamo continui esempi tragici di questa sanità di secondo livello in Calabria. È in queste disuguaglianze, racchiuse nei vizi d’origine del Paese, che si riscontra quel dislivello di “statalità” che continua a separare, in una continuità discriminatoria, Il Sud dal Nord. Quando, perciò, diciamo che al Sud lo Stato non c’è, o c’è poco, nessuno si senta vilipeso nei palazzi delle istituzioni.

Poiché,  se per presenza dello Stato, interpretiamo l’agire di un Governo che permette a tutti i suoi cittadini, indistintamente, di cambiare le condizioni sfavorevoli in cui sono nati e vissuti, lo Stato al Sud non c’è. Oppure c’è, nel ritornello stantio di ministri che quando accadono crimini feroci, che sbatacchiano le scrivanie dei palazzi romani, si affrettano a dire: “lo Stato c’è”.

Ma tutti, cittadini, amministratori locali, sindaci, movimenti civili, associazioni sanno che è una caritatevole oppure ipocrita bugia.  Li Stato, nei territori aggrediti dalla violenza mafiosa, non c’è; o se c’è, c’è poco; è lontano e distratto.

Fa il guardiano (è occhiuto, ma non governante, diceva un grande vescovo calabrese come Giuseppe Agostino) mentre le consorterie mafiose gli  sottraggono sovranità e tentano di sostituirlo.

Il film dello “Stato c’è”, in Calabria, e nel Sud, lo conosciamo bene: è un remake, e neppure dei migliori, poiché se per Stato c’è intendiamo uno Stato che delega esclusivamente a magistratura e forze dell’ordine la sua presenza, possiamo dire che si, un poco c’è, ma non è lo Stato che serve, intero, c’è uno Stato dimezzato. Manca la parte di Stato governante.

È solo uno Stato che affida (in realtà li abbandona al loro pericoloso destino) a magistrati e forze dell’ordine una battaglia difficile da vincere con la sola repressione: lo dicono anche i magistrati, che sono i più esposti sul fronte della lotta.

Più Stato al Sud e più senso dello Stato da parte dei cittadini, questo serve, ma oggi, non domani, quando sarà troppo tardi. Serve lo Stato che, nel rispetto della Costituzione, offra pari opportunità in tutti i campi e che non ceda alle cornacchie che gracchiano: “Al Sud, non vale la pena di fare niente, perché c’è la mafia”.

Tuttavia, benché la Calabria sia sempre stata tendenzialmente governata con una specie di spocchia coloniale, non sarebbe onesto attribuire solo a “nemici esterni” le colpe di un malessere che esiste anche per colpa grave degli stessi calabresi, per la inadeguatezza della classe dirigente regionale, per l’inconsistenza, salvo rare eccezioni, della classe politica e parlamentare.

Sarebbe un’imprudente semplificazione; un gioco che non fa altro che incrementare le patologia. Ciò non toglie che sono tanti gli interrogativi davanti a noi, ai quali occorre dare risposte.

Non è retorico chiedersi come chiudere l’annosa questione meridionale, passata, negli ultimi decenni, da questione nazionale, cioè di tutti, a questione criminale, che riguarderebbe, cioè, solo alcuni territori e una parte di cittadini del Paese.

Svanito il sogno dei profeti meridionalisti, di eliminare le disparità tra le due Italie, l’addio al Sud è diventato ideologico e politico, oltre che culturale, mentre l’economia “dualistica” si è sviluppata in un circolo conflittuale vizioso analogamente a quanto avvenuto sulla scia del colonialismo in altre parti del mondo.

Solo col completamento del percorso unitario, sarà possibile affrontare la questione delle “due Italie”. Ma bisogna fare presto: se una parte d’Italia (il Sud) s’inabissa, l’altra, il Nord, corre il rischio di ridursi al vecchio destino preunitario di nazione solo espressione geografica, col risultato che le regioni del Sud saranno sempre più esiliate, nella loro spaventosa condizione di deficit civile e di arretratezza economica, e le regioni del Nord continueranno a inseguire gli scenari di un separatismo impossibile,  dal punto di vista istituzionale, mascherato da una specie di secessione passiva (autonomie differenziate) che mina l’unità nazionale.

La nazione diventerebbe, così, definitivamente matrigna, per alcuni cittadini, e inquieta, senza identità, nonostante il benessere, per altri. Sarebbe il fallimento definitivo della nazione. (mn)

[courtesy Il Quotidiano del Sud]

 

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