Carfagna (Azione): Governo ha azzerato il fondo di perequazione per superare i divari infrastrutturali

Mara Carfagna, presidente di Azione e deputata, ha denunciato in una intervista rilasciata al Corriere del Mezzogiorno a cura di E. Imperiali, come «il Fondo per la perequazione infrastrutturale è stato tagliato dall’attuale Governo, c’erano 4 miliardi e 600 milioni, sono rimasti sì e no 700 milioni». Un definanziamento «azzerato dal mio successore, attraverso un definanziamento ben nascosto tra i vari capitoli della legge di Bilancio 2024», ha denunciato ancora Carfagna, chiedendo al ministro Raffaele Fitto di spiegare «ai cittadini meridionali il perché. Quando era all’opposizione saliva in cattedra a dare lezioni di coerenza in materia di Sud e Coesione, ora è diventato afono?».

Un taglio «fatto nel silenzio dell’intero Governo – ha rimarcato –. Una scelta miope, grave, irresponsabile. Un altro schiaffo al Sud, a conferma di quanto poco il Mezzogiorno interessi all’attuale esecutivo. D’altro canto, nella lunghissima conferenza stampa di inizio anno, la presidente del Consiglio non ha mai minimamente fatto neppure un accenno al Meridione. Chiedo alla maggioranza in Parlamento: come mai nessuno dice nulla, per esempio, sul tema dell’abbandono delle zone interne, per le quali ci sono fondi immediatamente disponibili che non sono mai stati spesi? E sulle risorse dei Contratti istituzionali di svilupро?».

La deputata ha ricordato come il fondo sia stato creato dal Governo Conte 2, ma reso operativo dal Governo Draghi.

«La ricognizione fu fatta sulla base di precisi criteri metodologici e statistici, per poter quantificare con precisione i differenti fabbisogni in-frastrutturali», ha detto, spiegando come erano stati individuati quattro macro settori su cui intervenire per «coprire il gap infrastrutturale: le opere idriche, l’istruzione, la sanità e i trasporti. Poi, a loro volta, suddividemmo questi macro-comparti in sottosezioni, per esempio per l’istruzione distinguemmo tra edilizia scolastica e asili nido, e così via».

I 4 miliardi e 600 milioni, infatti, erano stati suddivisi «in questo modo: circa 1 miliardo e 300 milioni per il settore idrico, circa un miliardo e 100 milioni per il comparto dell’istruzione, poco più di un miliardo per il divario infrastrutturale in campo sani-tario, infine un miliardo e cento milioni per i trasporti».

Criteri che, come ha spiegato Carfagna, «garantivano complementarietà con il Pnit e il Pnc e tenevano conto di alcuni parametri tra cui insularità e fabbisogni del Sud».

Inoltre «dalla puntuale ricognizione che facemmo – ha ricordato al Corriere del Mezzogiorno – emerse che i maggiori fabbisogni riguardano le aree meridionali per 1’80% del Fondo perequativo infrastrutturale. In concreto significa che su 4 miliardi e 600 milioni, al Sud dovevano essere destinati circa 3 miliardi e 700 milioni proprio con l’obiettivo di avviare in tal modo il superamento dei divari infrastrutturali».

Sulla Zes, Carfagna vede incertezza e decisioni tardive, oltre che «ancora non è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto del presidente del Consiglio per regolare la transizione. Nel frattempo, l’adozione di una serie di provvedimenti ad opera degli 8 commissari è paralizzata. In Campania ci sono 30 Conferenze dei Servizi sospese. In Calabria 15 e così via».

DAR MENO SOLDI AGLI INSEGNANTI AL SUD?
RIDUCIAMO I COMPENSI AI PARLAMENTARI

di PINO APRILE – Pagare meno gli insegnanti al Sud? Cominciamo dall’alto: riduciamo i compensi ai parlamentari meridionali: anche loro vivono nel Mezzogiorno. E se ci sono presunte ragioni obiettive per pagare meno dei lavoratori che sono già fra i peggio retribuiti d’Europa, figurati se quelle ragioni non sono buone per abbassare i compensi dei parlamentari più pagati d’Europa, pur se terroni.

Che però, facendo parte della maggioranza di governo (quando la maggioranza era un’altra non era diverso) hanno votato l’ordine del giorno proposto dalla Lega (il cui segretario nazionale ha una condanna per razzismo contro i meridionali), per chiedere che gli insegnanti siano pagati di più al Nord. La scusa è che a Sud la vita costa meno (ma se vai ad analizzare davvero le cose, scopri che è falso). In realtà, il lurido disegno della Lega (che sempre Lega-Nord è; pur se con il sostegno ascaro di kapò meridionali) è più sottile: si comincia con gli insegnanti, per poi estendere il criterio, “per giustizia, equità”, a tutti i dipendenti pubblici. E avrebbero così raggiunto lo scopo di un’Italia con diritti differenziati.

Questo hanno votato parlamentari eletti a Sud! Alcuni lo avranno fatto senza manco aver letto di cosa si trattava, per ottusa disciplina di partito. Ora che lo sanno, però, possono ritirare l’appoggio alla porcata, annunciando che non voteranno provvedimenti del genere, se saranno portati in aula. Ove, invece, lo avessero fatto consapevolmente, convinti, non possono limitarsi a questo, ma diano il buon esempio. Applichino lo stesso criterio ai loro emolumenti: se sei terrone, meno soldi. A cominciare da te.
Sono decenni che (con l’aiuto di ascari terroni e razzisti camuffati in ogni partito al Nord, sino al Pd) la Lega cerca di imporre una Costituzione con diritti disuguali, sul modello del Sudafrica prima della civilizzazione a opera di Nelson Mandela. Lì, diritti decrescenti con il colore della pelle dal bianco al nero, qui con la latitudine, da Nord a Sud. La scelta di iniziare dagli insegnanti è furbissima: al Nord scarseggiano e dal Sud, potendo, evitano di andarci, perché tocca far fronte a una serie di spese che non ha chi resta al paese suo e dove, quasi sempre, si lascia la famiglia. Quindi, due case, più i viaggi, costi doppi. La proposta di alzare i compensi al Nord, così, sembra andare incontro proprio alle difficoltà degli insegnanti meridionali fuori sede, nelle regioni più ricche, “dove la vita costa di più”. Davvero?
Vi ricordo che quelle statistiche son spesso fatte con trucchi indegni, per esempio non prendendo prodotti dello stesso prezzo e della stessa qualità a Nord e a Sud; considerando soglie di povertà più alte a Nord; oppure, valutando degli indici in modo ingannevole: qualche anno fa, un trio di docenti di qualche notorietà condusse “una ricerca” in base alla quale, a Crotone risultavano, “di fatto”, più ricchi che a Milano (peccato che l’emigrazione dica il contrario, ma questo è un dettaglio, cosa vuoi che importi ai prof). Poi si scoprì che avevano usato criteri come il prezzo dell’affitto di una casa di pari metratura a Crotone e Milano, dove le abitazioni hanno un costo imparagonabile. Trascurando che in Italia, almeno otto su dieci sono proprietari della casa in cui abitano o ci stanno gratis, perché ne hanno usufrutto, comodato d’uso (beni di famiglia).
Quindi, il valore vero da confrontare non era l’affitto che non pagano, salvo pochi, ma quello della casa che possiedono. E averne una di cento metri quadri a Crotone o a Milano fa una bella differenza, quanto a ricchezza. Al Nord, inoltre, grazie alla “spesa storica” con cui, dall’unificazione a mano armata a oggi, solo lì si investono fiumi di soldi pubblici (spesso sottratti al Sud), godono di servizi che al Sud non ci sono, dai trasporti alla sanità, all’istruzione. Vuol dire che se non c’è il treno per i pendolari, devi provvedere da solo, macchina e carburante. Se non hai trasporti pubblici urbani decenti, idem. E così per curarti, studiare, per l’asilo nido, la palestra. Quindi, a parte il fatto che le retribuzioni, in generale, sono già inferiori di quasi il venti per cento a Sud e, in alcuni settori, di circa il doppio, con quello che guadagni devi pagarti servizi che al Nord hanno buoni e quasi gratis. Il che significa avere, di fatto, una retribuzione ulteriormente decurtata.
Perché, se proprio si vogliono diversificare i compensi dei dipendenti pubblici, non legarli alla quantità e qualità di servizi che lo Stato dà o nega, direttamente o tramite enti delegati? (Trenitalia, ufficialmente, è una società privata. Ma con i soldi pubblici, cioè di tutti noi).
Non solo, ma il Mezzogiorno, per le scellerate e razziste politiche nazionali da oltre un secolo e mezzo, è la più vasta area europea con i più bassi redditi e i più alti indici di disoccupazione. Vuol dire che, con uno stipendio, a Sud, oltre a dover affrontare spese che a Nord non hanno, devono campare più persone che nelle regioni dove l’occupazione è più o meno il doppio e lavorano anche le donne (solo una ogni sette nel Mezzogiorno: la zona più depressa dell’intero mondo Occidentale, per questo). E invece di cercare di accrescere a Sud le opportunità di lavoro, specie femminile, assicurare quei servizi che mancano, mettere in condizioni di almeno sopravvivere chi non ha mezzi e occupazione, cosa votano questi parlamentari del Sud? Una richiesta per aumentare gli stipendi al Nord (dopo aver eliminato pure il reddito di cittadinanza. Tanto loro, i parlamentari, non sono interessati, perché satolli).
È stato un errore? Lo dicano. Sono convinti che questa sia la cura giusta? Allora facciano vedere come si fa: in quanto terroni, pur se senatori, deputati, si riducano i compensi e i privilegi. Mica solo in quelli vorremo essere alla pari con “i bianchi”! Forse è l’unico modo per far capire a questi le conseguenze delle loro azioni: che usino i treni su cui perdono tempo e pazienza tutti gli altri (se c’è il treno); si curino (vabbé, ci provino) negli ospedali e nei pronto soccorso in cui sono costretti a fare gli scongiuri tutti gli altri, i loro elettori; mandino i loro figli a studiare nelle scuole cadenti in cui rischiano i figli dei loro elettori, eccetera. Così, forse, maturano finalmente la sensibilità al differenziale di diritti Nord-Sud, a parità di legislazione e di tasse.
Oh, dimenticavo: aver approvato un ordine del giorno di quel genere è quasi niente. È una sorta di lettera di intenti al governo. Ma questo non può tranquillizzare, perché quel documento indica, appunto, l’intenzione della Lega Ku Klux Klan Nord, e complici di maggioranza, di volerlo fare e l’intenzione degli ascari terroni di farglielo fare. A frustare i neri nei campi di cotone erano altri neri; a tenere Etiopia e Somalia nella condizione di colonie italiane erano ascari somali ed etiopi al soldo dell’invasore; a condurre gli internati ai forni nei campi di sterminio erano altri internati.
«Caino», chiese il Signore, «dov’è Abele?». «Son forse io il custode di mio fratello?», rispose lui. (pa)

ANCHE NEL TEMPO PIENO C’È UN DIVARIO
NELLE SCUOLE DEL SUD È SOTTO IL 25%E

di PIETRO MASSIMO BUSETTAFa specie vedere le classifiche relative al tempo pieno nelle scuole pubbliche nel nostro Paese. Che l’Italia sia duale non lo scopro certamente io oggi, ma vedere come ogni volta, anche in quelli che sono i servizi che dipendono dallo Stato Centrale, vi siano grandi differenze tra le varie parti stupisce sempre. E qui non parliamo solo di servizi essenziali, perché bisogna  fare la differenza tra quelli  che riguardano il passato ed altri che riguardano il futuro. 

Mi spiego meglio quando parliamo di sanità il tema di cui si parla è quello della vita media dell’individuo, della sua qualità della vita, di diritti certamente fondamentali, ma che attengono alla vita dei cittadini e per una parte, quella relativa ai giovani, anche il futuro. Così come la mobilità nei territori riguarda il presente perché mette in discussione la qualità della vita, la possibilità di investimenti e di attrazione di essi dall’esterno dell’area. 

Ma il tempo pieno è qualcosa di più perché attiene all’investimento per il futuro. Quando la Sicilia ha un tempo pieno, che riguarda la metà degli istituti di quelli della Lombardia, si capisce come alle realtà meridionali si stia rubando il futuro. Si dice spesso che la responsabilità del mancato sviluppo del Mezzogiorno sia nella mancanza di classe dirigente. E che il Sud sia colpevole per l’incapacità di scegliere la sua classe politica. Per cui accade che una classe dominante estrattiva riesca a permanere ai vertici delle Istituzioni.  

Ma nelle analisi bisogna andare alla testa dell’acqua per evitare che quelli che sono gli effetti vengano scambiati con le cause.  E le cause della carenza di vera classe dirigente, sopratutto politica nel Mezzogiorno, quella che ha come obiettivo il bene comune e non quello dei propri clientes, deriva da una mancata consapevolezza dell’elettorato attivo, che é fortemente legata al ruolo della scuola pubblica. 

 Se ancora oggi assistiamo a classifiche in cui ancora Lombardia, Lazio, Toscana, Emilia-Romagna sono tutte vicine al 50% e Calabria, Abruzzo, Puglia, Campania, Sicilia e Molise tutte al di sotto del 25% delle classi a tempo pieno, allora tutto quello che da anni viene raccomandato è stato totalmente inutile e questo Paese in realtà non vuole risolvere il suo problema atavico e principale. 

L’Ufficio parlamentare di Bilancio si è concentrato sul «tempo pieno» e sulla disparità enorme che In Italia esiste. Lo aveva già rilevato la Svimez in uno studio intitolato «Un Paese, due scuole». Un bambino del Mezzogiorno frequenta in media quattro ore in meno alla settimana rispetto a un suo coetaneo del Nord. Significa che nell’arco del ciclo scolastico della primaria è come se studiasse un anno in meno. Senza pensare alla mancanza di asili nido che già nella prima infanzia incide sul percorso formativo iniziale.

Risolvere questo divario dovrebbe essere una priorità politica. Ma se si volesse garantire in tutte le Regioni d’Italia il tempo pieno a tutti i ragazzi, bisognerebbe trovare una somma di oltre 4 miliardi di euro annuali. Non mi pare siano somme particolarmente rilevanti, mentre mi pare sia proprio il problema da cui partire, insieme a quello della occupazione, anche femminile, che consenta di avere in famiglia una educatrice preparata e che conosce il mondo, oltre che quella lotta alla dispersione scolastica che non permetta  più che i bambini ed i ragazzi possano fare altro che giocare e studiare, mentre non sia consentito loro di lavorare.

E considerata la dispersione scolastica esistente nel Sud non vi è dubbio che tale fenomeno è ancora molto diffuso e poco combattuto. Come  volete che votino in modo consapevole coloro che arrivano all’età per essere elettori, coloro che ai quali manca qualunque educazione civica e conseguente capacità di scelta di coloro che dovranno amministrare la cosa pubblica?

E come non sia naturale quel distacco da qualunque impegno civico che sfocia poi in un astensionismo generalizzato, prodromico al sostegno a movimenti populisti, che illudano  le popolazioni che si possa uscire da problemi complessi con soluzioni semplificate?

Senza pensare che l’impostazione ancora vigente non sia stata modificata per tenere il Sud in una  posizione di colonia, più facile da conservare se invece che da una classe dirigente esso venga gestito da una classe dominante ascara, pronta a vendersi per pochi spiccioli al miglior offerente. 

A pensar male diceva qualcuno   si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. E molti elementi ritornano  nella gestione di questo Paese, come il ritardo del collegamento con la ferrovia del porto di Gioia Tauro, e  concorrono a far pensare che in realtà moltissime delle decisioni, compresa quella di aver fatto fermare l autostrada del sole a Napoli e l’alta velocità ferroviaria a Salerno, non siano proprio casuali, ma facciano parte di un progetto strategico che prevedeva un Nord produttivo ed un Sud asservito e ancillare. 

Che fornisse manodopera facile a cui attingere, territori nei quali localizzare gli impianti inquinanti, ora per diventare batteria del Nord, realtà da cui estrarre il più possibile, rendendola dipendente in termini sanitari, formativi, produttivi; mercato di consumo per le iniziative persino editoriali che avrebbero trovato lì una parte del mercato di cui avevano bisogno. Pronti a giocarsi la dimensione dei 60 milioni di abitanti sui tavoli internazionali, sui  quali alcune volte era necessario presentarsi con la forza dei numeri demografici per ottenere vantaggi diversi, dalla localizzazione dei grandi eventi a quella delle agenzie internazionali, sempre per caso poi da svolgere o localizzare nel Centro Nord. 

Cambiare passo sarebbe indispensabile ma il fatto che ancora oggi si assista a carenze così fondamentali ci fa essere molto dubbiosi sulla volontà di affrontare seriamente il divario che, prima che economico, é sociale e culturale.

 Il ricco bulimico Nord non vuole perdere quella dominanza  che viene assicurata dall’avere il monopolio di tutti i quotidiani nazionali, la vera gestione di tutte le televisioni private  e pubbliche, di tutti i grandi eventi e delle agenzie internazionali, di tutti i grandi centri di ricerca e delle Università di eccellenza.  Mentre bisognerebbe partire dal riequilibrio fondamentale se si volesse essere credibili rispetto ad una volontà di unificazione, che sembra essere molto dichiarata e poco perseguita. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

REDDITO, LA CALABRIA È FANALINO DI CODA
NELL’INDIFFERENZA TOTALE DEI POLITICI

di FILIPPO VELTRI I numeri ci dicono sempre tutto nella loro apparente freddezza e dovrebbero indurre chi ci governa a capire che esiste un enorme, irrisolto problema che si chiama Sud e che invece di essere affrontato viene peggiorato addirittura.

Dai dati delle dichiarazioni dei redditi 2022 emerge, infatti, che il reddito complessivo dichiarato dagli italiani nel 2021 ammontava a oltre 912,4 miliardi di euro, 47 miliardi in più rispetto all’anno precedente (+5,5%) per un valore medio di 22.540 euro, in aumento del 4,5% rispetto al valore medio del 2020. La dinamica del reddito complessivo riflette l’aumento dei redditi da pensione, lavoro dipendente e lavoro autonomo grazie alla ripresa dell’economia post- Covid. Ripresa che, come emerge dai dati delle dichiarazioni dei redditi pubblicati dal dipartimento Finanze del ministero dell’Economia, ha visto un’accelerazione soprattutto al Nord. 

La regione con reddito medio complessivo più elevato è la Lombardia (26.620 euro), seguita dalla Provincia autonoma di Bolzano (25.680 euro), mentre la Calabria presenta il reddito medio più basso (16.300 euro). 

Se è vero quindi che nel 2021 in media i redditi degli italiani sono aumentati, allo stesso tempo il divario tra le Regioni centro-settentrionali e quelle meridionali si è allargato ulteriormente. Nella classifica delle regioni in base al reddito medio complessivo quelle del Sud si piazzano agli ultimi posti: fanalino di coda la Calabria (16.190 euro), penultimo il Molise (17.390 euro), completano il fondo della classifica Sicilia (17.460 euro), Puglia (17.470 euro), Basilicata (17.510 euro) e Campania (18.130 euro). Sotto la media nazionale (22.540 euro) anche Sardegna (18.800 euro), Abruzzo (19.160 euro), Umbria (20.540 euro) e Marche (21.070 euro).

 Se confrontiamo i dati dei capoluoghi, quello con il reddito medio complessivo più alto è Milano (33.703 euro), che segna un record anche per quel che riguarda l’aumento annuale con un +6,1% nominale e +4,1% al netto dell’inflazione. Seguono Bologna (26.494 euro), Bolzano (26.228), Roma (25.990 euro), Trento (24.736 euro), Torino (24.427 euro). Mentre Palermo è in fonda alla classifica ( 19.985 euro), con Catanzaro (20.248 euro).

Ci scuserete per i tanti numeri ma non è difficile seguirli nel loro percorso che è facile come bere un bicchiere d’acqua e dai quali emerge una cosa chiara: esistono 3 Italie (forse 4) che ancora non hanno trovato una loro vera unificazione dopo 160 e passa anni. Compito delle classi dirigenti sarebbe stato quello di lavorare per eliminare o quantomeno ridurre questo divario, che fa impressione a leggerlo così squadernato oggi nella sua compiutezza.

Qui non si tratta delle solite classifiche sulla ‘qualità della vita’, opinabili finché si vuole, criticabili per i metodi e i criteri utilizzati ma pure sempre veritiere di una situazione ma dei soldi in tasca degli italiani, certo al netto dei reati fiscali e di un’economia sommersa. Anche questa sommersa finché si vuole ma che ad un certo punto deve essere tanto straordinariamente sommersa per consentire un decente livello di vita, di qualità, di socialità etc etc.

 Ci sarebbe, c’è, bisogno di forti azioni di riequilibrio economico strutturale e non di accentuare – come invece avverrebbe ad esempio  nel disegno di una compiuta approvazione dell’idea dell’autonomia differenziata voluta dal Governo – le disparità sociali, economiche, financo culturali all’interno del Paese.

Quei numeri ci dicono intanto una cosa: tra Milano e Catanzaro c’e’ una differenza di reddito di 13 mila euro. Se non è questa una differenza! (fv)

PASTICCIACCIO BRUTTO DELL’AUTONOMIA
BOCCIATO DA UE MA “PIACE” A CALDEROLI

di FILIPPO VELTRI – Gran pasticcio dentro la maggioranza di Governo e dentro il Governo della Meloni su DDL Calderoli. Fratelli d’Italia e Lega ai ferri corti dopo il parere della commissione d’esperti del Senato, prima pubblicato e poi scomparso, denso di critiche e di osservazioni ma anche dentro la Lega non si scherza!

Evidentemente infatti Calderoli e Giorgetti, entrambi ministri dello stesso Governo di centrodestra ed entrambi della Lega, non si parlano, né si scambiano le carte.

Calderoli infatti ha confezionato una proposta di legge sull’autonomia regionale differenziata che dice esattamente il contrario di quanto sostenuto da Giorgetti perché prevede che i nuovi poteri della regione siano stabiliti da un patto a due, tra il governo e la regione interessata e le altre verranno al massimo informate.

Tanto è vero che il Parlamento sul patto tra governo e singola regione potrà esprimere solo un parere, probabilmente delle commissioni, di cui il governo potrà tenere conto oppure no. Di più, Calderoli per forzare i tempi ha previsto che le osservazioni dei Ministeri sulle materie oggetto dell’intesa a due arrivino entro 30/45 giorni, pena le sue dimissioni addirittura dalla politica! Il ministro dell’Economia Giorgetti, forse per la prima volta nella storia dei governi, non solo non è il garante/controllore degli aspetti finanziari del procedimento ma ha solo 30 giorni, come gli altri ministri, per rispondere. In altre parole non gli è riconosciuto il potere di fermare o correggere le decisioni del patto a due per garantire i conti pubblici. Se i ministri non rispondono entro i 30 giorni previsti Calderoli pretende il mandato a procedere comunque: questo afferma la sua proposta di legge.
Calderoli è l’unico firmatario della proposta di legge del governo, non figurano né la Presidente Meloni, né tanto meno il Ministro dell’Economia come avviene di solito.

Sembra una presa di distanza ma segnala anche un atteggiamento remissivo verso le pretese di Calderoli e dei presidenti delle Regioni, forse per rinviare lo scontro a tempi migliori. Non si capisce come si possa imporre ai ministeri e soprattutto al MEF un tempo oltre il quale Calderoli procederebbe comunque. Basta pensare alla Ragioneria generale dello Stato che ha l’obbligo di garantire il rispetto dei conti pubblici, approvati dal Parlamento, e questo non c’è nella proposta Calderoli. Solo quando tutto sarà stato deciso da Calderoli e dalla regione interessata il parlamento sarà chiamato ad approvare la legge che deve dare valore al patto a due, tra Ministro e Regione.

Calderoli ha, dunque, forzato la mano decidendo tutto da solo, accentrando poteri, con una colpevole sottovalutazione degli altri ministri e soprattutto della Presidente del Consiglio. Certo la premier firmerà i Dpcm sui Lep, i livelli essenziali di prestazione, perché è già previsto dalla legge, per il resto tutto è nelle mani del ministro Calderoli. I Lep non possono essere affidati ad una commissione a due che poi passerà al governo le sue proposte, le quali verranno trasposte nei Dpcm. Questo è un altro passaggio che impedirà di controllare la qualità dei servizi garantiti ai cittadini e non è questione tecnica ma una scelta politica.

Prima o poi la bolla scoppierà. Giorgetti, che ripetiamo è leghista come Calderoli, afferma pubblicamente che un patto a due non può superare Costituzione e Parlamento e ha ragione, per questo bisogna cambiare la proposta Calderoli portando il Parlamento a decidere su tutti i passaggi di fondo sull’autonomia regionale differenziata, iniziando con l’eliminazione del patto a due, governo/regione, che è il vero motore di tutto il percorso.

La legge deve essere il motore, non un patto tra due esecutivi. Altrimenti Calderoli e il presidente della Regione interessata sceglieranno insieme i poteri da decentrare tenendo all’oscuro il Parlamento fino a quando sarà messo di fronte al fatto compiuto e verrà costretto a votare a favore con il voto di fiducia.

Il tentativo è di tenere tutto il percorso sull’autonomia differenziata sotto controllo leghista, imponendo alla stessa maggioranza le scelte. Calderoli ha preparato una sorta di “supermercato” con il compito di offrire alle regioni interessate fino a 500 funzioni, senza che il Governo precisi fin dall’inizio quali è disposto a decentrare e quali no, facendo intendere che lo possono essere tutte.

Eppure dei ministri hanno già fatto presente che non sono disposti a concedere poteri, ad esempio nella scuola e nei beni culturali. Perfino Confindustria è preoccupata che si creino nuove barriere all’attività delle imprese, creando differenze tra le regioni che renderebbero più difficile l’attività economica.
Per ora Calderoli continua imperterrito sulla sua strada, ma il ministro Giorgetti e la presidente del Consiglio, e con loro la maggioranza, prima o poi dovranno pronunciarsi sul merito delle scelte. Finora hanno finto di non vedere e hanno lasciato fare, fino a quando potrà andare avanti senza compromettere l’unità di diritti fondamentali e dell’attività economica del nostro paese?

Intanto una buona notizia. Le firme raccolte in calce alla legge di iniziativa popolare promossa dal Coordinamento per la Democrazia costituzionale e dai sindacati della scuola per cambiare gli attuali articoli 116.3 e 117 della Costituzione, che Calderoli usa strumentalmente per le sue scelte per aiutare la “secessione dei ricchi”, sono oltre il traguardo delle 50.000 firme, il risultato finale sarà tra 60 e 70.00. La proposta di legge arriverà al Senato mentre ancora si discuterà la proposta del governo sull’Autonomia regionale differenziata e grazie al consenso che ha avuto potrà influenzare una discussione fin troppo sottovalutata. Esistono dunque le condizioni per una ferma battaglia parlamentare per bloccare chi vuole oggi dividere quello che prima il Risorgimento e poi la Resistenza hanno unito: l’Italia. (fv)

GLI INGANNATORI SERIALI DEL POVERO SUD
PNRR: IL DIVARIO COL NORD SI ACCENTUA

di MIMMO NUNNARI – Abraham Lincoln, che è stato il XVI° Presidente degli Stati Uniti d’America ed è ricordato per la sua vita straordinaria – partendo da umilissimi origini, riuscì ad ottenere la più alta carica dello Stato – amava ripetere: «Potete ingannare tutti per qualche tempo, o alcuni per tutto il tempo, ma non potete prendere per i fondelli tutti per tutto il tempo».

Questo aforisma, che riassume in poche parole una verità indiscutibile, si potrebbe, parafrasandolo, adattare al caso – unico nell’Occidente – dei Governi italiani, tutti: ingannatori seriali nei confronti del Sud, fin dal tempo dellUnitaNonostante proclami, promesse e chiacchiere in libertà, il Sud è da sempre preso per i fondelli, bollato come perso irredimibile, e perciò non meritevole delle medesime attenzioni che si hanno per gli altri territori del Paese.

C’è da chiedersi – stando così le cose – quanto a lungo, si possa continuare a prendere per i fondelli il Mezzogiorno, e quanto potrà reggere ancora un rapporto così squilibrato tra Nord e Sud, senza che ci siamo conseguenze per l’unità, la sicurezza e la stabilità del Paese. I problemi del Sud, sono rimasti quelli di cinquanta o cento anni fa. Problemi, sui quali piove di tanto in tanto, come un elemosina, un’opera pubblica o un investimento finanziario, che accendono una speranza che poi resta delusa:«Gocce d’acqua in una terra assetata», diceva Gaetano Afeltra, mitico direttore negli anni Sessanta e Settanta di grandi giornali all’epoca, come il Giorno, ed editorialista del Corriere della Sera, nativo di Amalfi.

Anche con questo Governo di centrodestra, presieduto dalla leader di FdI Giorgia Meloni, si profila l’ennesima presa in giro del Meridione, in continuità con quell’ottica di tipo coloniale che ha sempre caratterizzato l’azione dei precedenti governi di ogni colore politico. Non c’è – propaganda ed annunciazioni a parte – un piano di sviluppo economico organico e credibile, che affronti lo squilibrio economico tra Nord e Sud. È tutto sulla carta e nelle verbosità stucchevoli, sparate al vento da alcuni leader della coalizione di governo.

C’è molto fumo e molto poco in cantiere: le infrastrutture, le strade, i porti, gli aeroporti, le scuole, gli asili, gli incentivi, le semplificazioni burocratiche mirate, capaci di attrarre investimenti con la capacità di leggere la complessità della realtà del Sud sono come l’araba fenice: l’uccello di fuoco che viveva nell’Arabia Felix. Tutti dicevano che c’era, ma nessuno riusciva a vederlo. Nel migliore dei casi mancano le coperture finanziarie per le cose annunciate, ponte sullo Stretto e statale 106 comprese. C’è un silenzio preoccupante su questo già “poco” che si profila per il Sud.

Lo sanno le opposizioni parlamentari e i sindacati che di tutto parlano meno che di sviluppo concreto del Mezzogiorno e dell’urgenza di un riequilibrio tra le diverse aree del Paese. Sono tutte cose che dovrebbe essere scritte al primo posto dell’agenda di ognuno è che invece non figurano neppure all’ultima pagina o all’ultimo rigo del planning dove si appuntano le cose da fare. Il Pnrr, come è stato detto da più parti e in più occasioni, rappresenta l’ultima opportunità per tentare di rimettere in giusto equilibrio lo sbilanciamento tra la parte settentrionale d’Italia toccata dal benessere e la parte meridionale,  che sta continuando a scontare  la consunzione e lo spreco delle sue notevoli risorse umane e sociali. Ciò che preoccupa maggiormente è la fumosità dei programmi e dei progetti insieme alla chiara difficoltà di “mettere a terra” (espressione che realmente non vuol dire niente ma che ormai è sulla bocca di tutti) le poche cose già previste. Facciamo un solo, illuminante, esempio: qualcuno sa dire con chiarezza se l’Alta velocità ferroviaria raggiungerà Reggio Calabria?

E se il tracciato previsto accorcerà le attuali distanze o se invece, paradossalmente, le allungherà, isolando ancora di più di quanto non lo siano già i territori della Calabria meridionale? Compresa la Gioia Tauro, capitale della navigazione nel Mediterraneo? E la baricentrica nel Mediterraneo città metropolitana dello Stretto ? La reticenza, nel discutere di queste questioni, induce a pensare amaramente che si profila ancora una volta uno stravolgimento di programmi e progetti strategici per lo sviluppo del territorio terminale dell’Europa. Il rischio del fallimento è legato anche al mancato supporto alle pubbliche amministrazioni locali, storicamente deboli e da decenni paurosamente svuotate di organici e competenze. Come ha denunciato recentemente la Svimez, il 62 per cento dei Comuni del Sud ha giudicato complessa la partecipazione ai bandi del Pnrr, al limite, cioè, di non riuscire a farcela; per cui onde scongiurare rischi di non riuscire a portare a termine le opere sarebbero necessarie robuste e incisive azioni di aiuto delle amministrazioni locali, evitando gli scandalosi tentativi – che vedono trasversalmente d’accordo alcuni amministratori del Nord – di portare  nel Settentrione finanziamenti destinati al Meridione.

La stessa idea del collegamento stabile tra Sicilia e Calabria, di cui si parla da secoli, attuale cavallo di battaglia del vicepremier e ministro per le Infrastrutture Matteo Salvini, rassomiglia molto alla storia del cavallo di Troia, che fu un dono subdolo, che in realtà danneggio’ chi lo ricevette. Nel silenzio avvilente delle opposizioni e nei balbettìi soliti dei parlamentari meridionali, si sta ripetendo la scena di un vecchio film già visto, con promesse che difficilmente saranno mantenute. Ma bisogna fare attenzione: i meridionali sono stanchi, oltre che delusi e c’è un fuoco che se non si vede, cova però sotto la cenere. Chi oggi si mostra amico si ricordi le parole di San Girolamo: “È facile trasformare un amico in nemico, se non si mantengono le promesse”. Poche voci  preoccupate, si sentono, anche nel Mezzogiorno. Fa eccezione il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi: «Vedo poco Sud nella manovra del Governo». Manfredi auspica che ci sia maggiore coesione istituzionale tra le amministrazioni del Sud, ma le sue parole finora sembrano cadute nel vuoto. Qual è la situazione oggi, con riferimento al Pnrr, la spiega  Gianfranco Viesti, economista autorevole e docente universitario, autore di Riuscirà il Pnrr a rilanciare l’Italia? (Saggine Donzelli), un libro che può aiutare i cittadini a capire meglio quel che è successo e soprattutto cosa può accadere. Viesti tempo fa ha coniato quel termine “secessione dei ricchi” che ha messo in guardia il Sud sul grande imbroglio che si cela dietro la riforma proposta dal ministro Calderoli.

Riguardo al Pnrr, dice: «Un paese non si rilancia con una lista di riforme e di investimenti scritte da tecnici, ma solo attraverso una visione politica del suo futuro. Il Pnrr, può rappresentare una tappa molto importante, ma senza queste scelte non può produrre un cambiamento». Non sembra, tuttavia, che per il nuovo governo il divario Nord Sud sia un problema, come, in verità, non lo è stato per tutti i precedenti: i segnali che arrivano – ripetiamo propaganda a parte – sembrano non andare nella giusta direzione, anzi la situazione sta peggiorando rispetto alle impostazioni del Governo di Mario Draghi che aveva vincolato il 40% degli investimenti alle regioni meridionali.

Di quelle percentuali, raccomandate anche dall’Ue, non si parla più, si sono perse le tracce come  si sono perse dei progetti capaci di risolvere l’annoso problema delle disuguaglianze tra Nord e Sud. Resta il ponte, per il quale, nonostante le date già sbandierate per l’inizio dei lavori, mancano le coperture finanziarie. C’è scritto nel Def (Documento di Finanza  pubblica) del Governo in carica. (mnu)

QUANTO PESERÀ L’INVERNO DEMOGRAFICO
SULLE FUTURE GENERAZIONI DI CALABRESI

di PIETRO MASSIMO BUSETTA“Il nostro inverno demografico”, che è una definizione che fa un po’ paura, è cominciato da molto. E  sa tanto  di un letargo lungo, che non prelude però ad una primavera, ma invece ad un processo inesorabile di involuzione verso l’estinzione. 

 In realtà,  gli Italiani che vivono nel nostro Paese rappresentano soltanto meno dell’1 × 1000 della popolazione complessiva mondiale. La nostra estinzione potrebbe essere irrilevante e certamente, in ogni caso,  laddove si producono dei vuoti immediatamente essi vengono riempiti. Ma che è un popolo, voglia continuare ad avere una sua identità, ad avere una politica demografica tale da non estinguersi, con tutte le sue tradizioni e la sua storia,  è non solo legittimo ma certamente opportuno. 

Per questo è stata salutata con molto entusiasmo l’incontro sulla natalità che si è svolto a Roma. E Papa Bergoglio e  la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni bene hanno fatto ad essere stati ospiti della giornata conclusiva degli Stati Generali della Natalità. Insieme sul palco dell’Auditorium della Conciliazione hanno parlato di famiglia. 

Anche se non dobbiamo dimenticare che tutto quello che si farà da oggi in poi avrà effetto soltanto, per esempio sul mercato del lavoro, fra diciotto- vent’anni. E che il prossimo futuro demografico, quello più vicino a noi, è stato già scritto.  

La mancanza di figli stimola psicologi e sociologi a cercare le motivazioni profonde di un processo che riguarda in generale tutte le popolazioni che, laddove raggiungono livelli economici più avanzati e tenore di vita più confortevoli,  sono portati a diminuire il numero di figli, o a non averne  addirittura. 

D’altra parte qualcuno dice che oggi avere figli è un privilegio di chi se lo può permettere, considerato che una filiazione consapevole prevede un impegno, non solo economico, estremamente rilevante. Ma se l’Italia nel suo complesso piange il Sud è in un affanno più grande. 

L’inverno demografico che colpisce l’Italia, e non ci si deve stupire che sia diventato il Paese a più basso indice di natalità in Europa, riguarda oggi soprattutto il Sud. E i dati sono a dir poco allarmanti. Il  decremento è di -6,3 per mille residenti a fronte di -2,6 per mille al Centro e di -0,9 del Nord. Evidentemente su questi dati vi è l’influenza dell’emigrazione economica verso le realtà settentrionali. 

Le Regioni meridionali sono tutte nelle prime posizioni della classifica della perdita  della popolazione. Mettendo a confronto i dati relativi ai nuovi nati e ai deceduti la Basilicata  nel 2022 ha un tasso di natalità per mille abitanti di 6 e di mortalità di 13, il Molise 5,8 nati e 14,7 deceduti, Sardegna 4,90 contro 13 e Calabria 7,30 su 12,4 decessi. Arretra anche la Puglia con 6,7 nati su 11,4 morti, la Campania  con 7,9 nuovi nati e 10,9 decessi e la Sicilia con 7,6 nuovi nati e 12,3 decessi. 

È chiaro che su tale processo  incide molto la mancanza di servizi sociali. Il numero limitato di asili nido, che spesso non consentono alle donne di lavorare, i pochi sostegni alle madri, che in altri paesi come la Francia sono molto consistenti. Ma anche la mancanza di lavoro che fa sì che al massimo in una famiglia ci sia un componente che ha una occupazione. 

La maggior parte di coloro che fanno parte della non forza lavoro sono proprio donne, magari istruite, alle quali non viene dato alcuna opportunità di un lavoro che sia consono al loro livello sociale ed alla loro formazione. Tale evidenza fa riflettere ancor di più sulle conseguenze di uno sviluppo anomalo del nostro Paese, che registra un processo migratorio importante da una parte all’altra,  che certo non aiuta ne incoraggia coloro che vogliono formarsi una famiglia. E che spesso si trovano a dover emigrare in realtà nelle quali, oltre alla carenza di welfare pubblico, viene a mancare anche la rete di protezione sociale rappresentato dalla famiglia.

Che certamente, parlo dei nonni, degli zii, se presente, costituisce un aiuto non indifferente soprattutto nei primi anni di vita dei bambini. Nel 2022 la diminuzione del numero medio di figli per donna riguarda sia il Nord 1,26,  sia il Centro pari a 1,16, che il Mezzogiorno che  si attesta anch’esso a 1,26. 

Purtroppo abbiamo distrutto quella tradizione di famiglia patriarcale, esistente ancora in passato nelle comunità meridionali, per cui in molti di noi vi è il ricordo di una nonna che aveva avuto anche otto-dieci figli. Per il Sud si prospetta una società che non riesce a mantenersi, per la mancanza di equilibrio tra nuove e vecchie generazioni, per cui diventa difficile il sostegno anche pensionistico di una popolazione con una vita media, per fortuna, sempre più lunga, ma proprio per questo con esigenze sempre più rilevanti di una sanità adeguata.

Peraltro la situazione è aggravata anche dal fatto che coloro che sono andati via per mancanza di lavoro, spesso, ritornano, dopo il pensionamento, nella loro terra di origine. Aggravando l’esigenza di sanità, già non adeguata per coloro che sono stati sempre residenti. 

Riflettere sulle condizioni già presenti, ma che si aggraveranno ulteriormente nei prossimi anni, non è un esercizio di puro studio ma deve avere conseguenze operative immediate che riguardino l’esigenza di una crescita consistente in tutte le parti del Paese, ed in particolare in quelle che hanno più possibilità di crescita.

Cosa assolutamente scontata tanto che lo stesso Luigi Einaudi già in un articolo  del 23 giugno del 1900 sul Corriere della Sera affermava riferendosi al Sud: «quando su un campo si sono già impiegati rilevanti capitali, torna più conveniente applicare i nuovi capitali non su di esso ma su nuovi campi trascurati prima perché ritenuti troppo sterili». 

Al di là di fattori sociali, di un sentire diffuso, l’aspetto economico di sopravvivenza, di servizi alla persona di diritti di cittadinanza diffusi ed adeguati diventano un elemento fondante di qualunque politica attiva per le famiglie. Compreso quel reddito di cittadinanza, ormai quasi cancellato, che darebbe ai cosiddetti occupabili maggiori certezze di poter affrontare periodi di difficoltà avendo un ombrello protettivo per superare momenti difficili.

Ma tutto questo prevede che vi sia una produzione di reddito adeguata alle tante esigenze di una società evoluta. L’Italia non può più accontentarsi di crescere allo zero  virgola qualcosa ma deve puntare a tassi di incremento consistenti. Per questo è necessario ripensare in grande, e in questa visione anche il Ponte sullo Stretto di Messina diventa oltre che lo strumento per il recupero dei traffici mediterranei anche il simbolo di una volontà di giocare negli scacchieri  internazionali un ruolo che ormai da anni abbiamo perso. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

TORNANO LE PROVE INVALSI NELLE SCUOLE
E VIENE FUORI LA DISUGUAGLIANZA AL SUD

di GUIDO LEONECon il  mese di marzo sono  ritornati nella normalità  nelle scuole italiane i test Invalsi, croce e delizia degli studenti e non solo, che monitorano il livello di apprendimento di circa 2,6 milioni di studenti italiani. Le prove standardizzate  proseguiranno fino al 31 maggio interessando tutti gli ordini di scuola, dalla primaria, alle medie  di primo e secondo grado.

Va sottolineato che quest’anno lo svolgimento delle prove Invalsi costituisce requisito di ammissione all’esame di Stato conclusivo del primo e del secondo ciclo d’istruzione ma non incideranno sul voto. Un ritorno al passato, al periodo pre-pandemia, quando appunto Invalsi costituiva requisito di ammissione agli esami.

In questa prima fase, saranno impegnati quasi mezzo milione di studenti delle classi quinte della scuola superiore. In Calabria saranno circa 600. Per le classi campione le prove Invalsi 2023 di Italiano, Matematica e Inglese (lettura e ascolto) si sono svolte nei giorni scorsi 

Per le classi non campione, le medesime  prove sono previste fino al venerdì 31 marzo. La sessione suppletiva è fissata dal 22 maggio al 5 giugno. Poi, dal 3 al 28 aprile sarà il turno degli alunni di terza media sia di quelli impegnati con le classi campione e non, anche loro alla prese con prove al computer di italiano, matematica, inglese.

Infine a maggio dal 5 al 9 toccherà agli allievi di II e V primaria affrontare le prove cartacee di italiano, di lettura, e matematica e inglese.

Infine, chiuderà la II secondaria di secondo grado ( prova al computer –CTB) tra l’11 e il 31 maggio con i test di italiano e matematica. In Calabria il campione complessivo sarà rappresentato presumibiLmente da circa 3800 studenti della scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado. 

Non c’è dubbio che la pandemia ha causato non pochi problemi alla scuola italiana, soprattutto per quegli alunni che, per via delle chiusure dovute al Covid 19, hanno dovuto affrontare lunghi periodi di DaD.

Le prove Invalsi continuano di anno in anno a restituire il volto di un Paese diviso in due con differenze territoriali in italiano e matematica sempre marcate. Anche gli esiti delle ultime prove 2022 hanno evidenziato che l’istruzione al Sud resta un’emergenza, con una situazione incredibile, diremmo quasi drammatica in particolare per la Calabria.

Dopo due anni di pandemia, ciò che maggiormente emerge, è un livello di apprendimento degli studenti italiani comunque stabile, ma non riesce a raggiungere gli standard pre-Covid.

Si allargano, invece, i divari territoriali, con il Nord e il Sud Italia che viaggiano a due velocità già a partire dalla scuola media, soprattutto in Calabria, Sicilia e Campania.

Per la scuola primaria, i risultati sono rimasti sostanzialmente invariati rispetto al 2019, ma con segnali di preoccupazione soprattutto per la matematica. Se in italiano l’80% degli studenti dell’ultimo anno raggiunge almeno il livello base, in matematica arriva al livello base solo il 66% degli allievi, con la Calabria, sotto la media nazionale.

I divari territoriali non migliorano e rimangono molto ampi anche nella scuola media di primo grado. In alcune regioni come Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna uno studente si due ottiene risultati molto bassi, insufficienti, in Italiano; percentuale che sale al 55-60% per la Matematica e scende al 35-40% per l’Inglese (reading).

Emergono forti evidenze di disuguaglianza educativa al Sud: le scuole riescono a fatica ad attenuare l’effetto delle differenze socio culturali del contesto famigliare e le disparità ci sono sia tra scuole che tra classi.

Per quanto riguarda le superiori l’anno scorso ,si sono registrati oltre 15 punti di distacco tra le regioni del Nord e alcune regioni del Sud. Gli allievi che non hanno raggiunto il livello base in Italiano hanno superato la soglia del 60% in Campania, Calabria e Sicilia. In Matematica chi è rimasto insufficiente alla fine delle superiori è arrivato  al 70% in Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna.

Una battuta, infine, sulla dispersione implicita  che misura la quota di studenti che termina il percorso scolastico senza avere acquisito le competenze fondamentali. Nel 2019 la dispersione scolastica implicita si attestava al 7,5% per salire al 9,8% nel 2021, molto probabilmente per via della sospensione delle lezioni in presenza.

L’anno scorso la tendenza si è fermata al 9,7%. In termini comparativi, il calo maggiore della dispersione si registra in Puglia e in Calabria con -3,8 punti percentuali. Tuttavia le differenze assolute a livello territoriale rimangono molto elevate. Per esempio Campania col 19,8% e Calabria, 18%.

Dunque, è una Italia che procede a due velocità e che speriamo gli esiti Invalsi 2023 smentiscano. Riemerge, però, in tutta la sua drammatica evidenza l’urgenza di rimettere al centro dell’attenzione politica e dei nostri governanti l’istruzione e la formazione come emergenza sociale per il Sud e la Calabria in particolare. C’è una questione meridionale all’interno del sistema scolastico nazionale che va attenzionata.

Sicuramente la crisi economica, che ha invaso gli ultimi lustri, e accentuata dalla emergenza pandemica, sta portando ancor più i nodi al pettine e dove la povertà è più densa lo scarso rendimento scolastico è più intenso, e non c’è bisogno di essere sociologi per affermarlo, mentre la riprova è data puntualmente ogni anno  dall’altro dato dell’Invalsi e cioè che al Sud ci sono pure differenze tra scuole e scuole, tra quelle delle zone residenziali e quelle altre delle periferia.

Stupisce, tuttavia, come l’opinione pubblica di fronte alla costante diseguaglianza così forte che si registra ogni anno non reagisca con il dovuto vigore e perché  la classe politica e amministratrice, ma anche il sistema scolastico calabrese non intraprenda azioni più significative che vadano nella direzione di colmarla.

Assumere allora il tema dell’elevamento del grado di istruzione  dei nostri giovani e dei nostri ragazzi credo che sia una questione che ha molto a che fare con i programmi di sviluppo di una  regione che vuole superare il proprio ritardo, che vuole fare i conti con le proprie risorse e che vuole mettersi alle spalle  la dimensione assistita dello sviluppo. Credo, quindi, che questa non possa che diventare una priorità fondamentale per la Regione Calabria e degli altri enti territoriali a cascata(gl)

L’ESEMPIO DI MONGIANA: UN ‘SACCHEGGIO’
POST UNITARIO CHE AVVIÒ IL DIVARIO A SUD

di PAOLO BOLANO – Mongiana è una località situata nell’appennino calabrese. Qui prima dell’Unità d’Italia circa duemila tra operai, tecnici, ingegneri e dirigenti lavoravano a un grande polo siderurgico che produceva armi. Era il fiore all’occhiello di tutto il Regno. Dopo l’Unità le ferriere di Mongiana sono state trasferite a Terni senza alcuna giustificazione.

Oppure, diciamo cosi, invece di rimodernare la fabbrica, renderla competitiva, si è deciso di chiuderla e trasferirla altrove con grande danno per i calabresi. La domanda a questo punto sorge spontanea: così la nuova Italia cominciava a recuperare i ritardi Nord-Sud? Dei duemila operai rimasti a spasso una parte emigrò e l’altra andò a ingrossare le file dei briganti in montagna. Come vedete la politica, dopo l’Unità, non fece nulla per questa prima operazione di rapina perpetrata ai danni della Calabria.

Una politica che enfatizzava la “questione meridionale” per avere risorse, non per lo sviluppo, ma per alimentare le clientele. Ne sappiamo qualcosa anche oggi. La chiusura del centro siderurgico di Mongiana contribuì a creare insanabili difficoltà politiche al nascente Stato Unitario e portò dritto dritto alla terribile “guerra sociale” o mancata rivoluzione agraria etichettata col nome di “brigantaggio meridionale”, che insanguinò per anni le nostre contrade meridionali e calabresi.

Ci fu sgomento a Mongiana e dintorni, incredulità, risentimento, proteste, saccheggi, vandalismi ai danni della ferriera. I lavoratori e le loro famiglie si ribellarono al nuovo potere politico che portava via il polo siderurgico che dava pane a migliaia di famiglie nel cuore dell’appennino calabrese. Era la prima dimostrazione lampante che la destra e la sinistra che governavano in quel periodo non erano in grado di affrontare e risolvere la “questione meridionale”, che come esigenza primaria aveva la questione sociale. Fu questa la molla che scatenò appunto l’esplosione del vastissimo fenomeno noto come “brigantaggio meridionale”, che per anni ha impegnato mezzo esercito per combatterlo.

La “legge Pica” ha permesso lo “stato d’assedio” in molti paesi del sud , dove le rappresaglie nei villaggi furono violente e sanguinose. Ci furono fucilazioni di massa di contadini poveri considerati fiancheggiatori dei briganti. Era povera gente che protestava per avere un tozzo di pane, un pezzo di terra da coltivare, l’unica speranza per ricavare un piatto caldo per se e per la famiglia. Era un tempo difficile, la borghesia agraria purtroppo acquisiva i modelli feudali, comprava terre dall’aristocrazia, quelle terre che lor signori avevano arraffato dal demanio pubblico. Si stava riorganizzando il vecchio teatrino che per secoli aveva inchiodato i contadini alla miseria più assoluta.

Nessuno voleva capire che il mondo stava cambiando e bisognava girare pagina per scrivere una nuova storia che contemplasse al posto di comando anche i contadini poveri. Per questo comunque si intuisce che servirà ancora un secolo di lotte dure per fare capire alla nuova classe dirigente che gli interessi della Calabria e del mezzogiorno venivano prima dei propri interessi. Certamente anche Mongiana ci fa capire che l’Unità d’Italia non ha risolto il problema meridionale ma congiunse due diverse formazioni economiche e sociali caratterizzate da un differente grado di sviluppo.

I ritardi non furono superati, ancora oggi sono li che aspettano soluzioni, mentre l’intreccio di allora tra liberismo e autoritarismo aggravò il problema mettendo in campo lo stato d’assedio e le leggi eccezionali non per combattere i delinquenti comuni, il mezzogiorno era pieno, ma per colpire le masse contadine povere che non ce la faceva più a pagare tasse e a essere sfruttate. Come si fa a considerare questi poveri contadini nullatenenti “briganti”? Una vergogna che la storia deve cancellare! Al Sud serviva più attenzione, non più tasse, leva obbligatoria che costringeva i contadini meridionali a lasciare le terre e combattere accanto all’odiato esercito piemontese. Il trasferimento dell’industria siderurgica di Mongiana era la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Bisognava analizzare meglio, studiare a fondo i problemi meridionali e calabresi in quel lontano 1880 quando gran parte del patrimonio industriale del tempo era stato spazzato via mettendo sulla strada migliaia di famiglie povere.

C’è da aggiungere la voracità fiscale dei nuovi governanti, gli interessi commerciali delle nuove potenze industriali come l’Inghilterra che facevano da contorno. Il capitalismo liberale ha usato ragioni di mercato e libero scambio per nascondere le politiche di sfruttamento e di sottrazione di risorse al sud. È semplicistico indicare il mezzogiorno come “palla al piede” senza fare un’analisi accurata del territorio, senza capire che chi ha governato per secoli lo ha fatto solo per fini personali. Sia chiaro a tutti, anche ai polentoni responsabili dei ritardi del sud rispetto al Nord.

Lor signori hanno affossato una grande industria siderurgica in Calabria che dava lavoro a moltissimi calabresi. Mongiana è stata sacrificata sull’altare dell’Unità. L’annessione forzata al nord poteva essere una bella cosa, anzi lo è stato. Ma il sud in quel momento non poteva sopportare tutte quelle tasse. Dopo l’Unità si erano aggiunte altre 24 balzelli d’importazione piemontese compresa la tassa sul macinato. I poveri contadini non ce la facevano più a pagare. Un sud afflitto dunque non poteva reggere. Dal 50 per cento di tasse si era arrivati all’87 per cento. Una vera follia. Meglio “briganti” che morti di fame.

È stata una tragedia. Anche agli opifici mancarono i capitali e per la metalmeccanica fu un colpo mortale. Più tasse e poco commesse dal nascente Stato Unitario sono stati l’anticamera della chiusura degli stabilimenti siderurgici di Mongiana. Una Calabria che ha pagato un alto prezzo per entrare nella grande famiglia italiana. Mongiana è un esempio da non dimenticare. Nessuno ha mai parlato di questo dramma calabrese. Nessun ricercatore, giornalista, professore ecc. Si comincia a parlare solo dopo cento anni circa, nel 1973, quando parte l’indagine sulle ferriere di Mongiana.

L’obiettivo della ricerca era quello di scoprire le prime fasi dell’industrializzazione in Calabria. Disciplina nata in Inghilterra e nota come archeologia industriale. Studiare, capire, catalogare il patrimonio di fabbriche e attrezzature siderurgiche sparse sul territorio calabrese. Certo, il profitto ha cancellato in questi ultimi 250 anni il passato industriale calabrese senza riflettere e senza assegnare le colpe che non sono quelle di una generica Calabria fannullona e incapace di produrre e spendere i denari per lo sviluppo. Le ferriere di Mongiana sono una esaltante impresa industriale meridionale. Si affianca alle seterie di San Leucio, alla manifattura d’armi di Torre Annunziata, ai cantieri navali di Castellammare di Stabia, alle Officine Ferroviarie di Pietrarsa e altre realtà meno note. Possiamo qui dire senza essere contraddetti che il passaggio delle ferriere di Mongiana dall’Amministrazione borbonica a quella sabauda è stata una vera tragedia. Mongiana si spopola di tutte le molteplici attività legate alla ferriera sotto l’indifferenza totale della corona. 

Bisogna ricordare che la fatica degli operai era dura e i fattori ambientali pesavano su tecnici e maestranze che dalla ferriera traevano lavoro e sostentamento. Le categorie più numerose e meno qualificate protestavano ripetutamente per i bassi salari e le dure condizioni di lavoro. Comunque nel cuore dell’appennino i calabresi in tempi difficili facevano funzionare la più grande industria siderurgica del Regno legata alle materie prime locali. Eppure non si capisce perché il tempo poi e la mano dell’uomo hanno cancellato questa importante realtà. Certo questa ferriera ha procurato enormi danni ambientali, i boschi sparivano dentro gli altiforni.

Quando l’area boschiva mancava l’altoforno si spostava fino a mangiarsi tutta la foresta vicina. Comunque, i liberisti del tempo non erano contenti perché sostenevano che la ferriera non era efficiente al massimo, che i costi erano altissimi e i finanziamenti dello Stato si bruciavano con pochissimi risultati. In 15 anni di Unità il capitolo siderurgico calabrese ebbe fine, non reggeva al mercato era la motivazione. Invece, secondo me, la responsabilità era di una gestione incapace. La gente che prestava la propria opera coinvolta in un sistema politico chiuso, aveva comunque espresso, ottime capacità sul terreno del lavoro industriale. Altro che “palla al piede”. L’incapacità del governo della Corona non si poteva riversare sugli operai. 

Purtroppo si è giunti alla fine. Il 25 Giugno 1874 lo Stato Sabaudo, a Catanzaro, per mezzo dell’Amministrazione del demanio e delle tasse vendette lo stabilimento di Mongiana all’asta. 50 alloggi civici, una caserma, diversi altiforni e forni di seconda fusione, segherie, boschi, terreni e miniere nel territorio tra Mongiana, Ferdinandea e Pazzano di Reggio Calabria. All’asta acquistò un ex garibaldino, Achille Fazzari, già deputato al parlamento Regio d’Italia. Compra a un milione di lire.

Si aprì una speranza tra la popolazione del luogo che presto svanì. Il garibaldino non riuscì più ad avere commesse dalla Stato, il mezzogiorno era ormai segnato, abbandonato al suo destino, restava soltanto  la via dell’emigrazione, unica speranza per cercare lavoro. Così tristemente finì la grande storia dell’industria siderurgica in Calabria. Le considerazioni fateli voi. Bisogna riprendere il cammino lasciato allora. Ancora oggi la  “questione meridionale” è li davanti agli occhi di tutti, la classe politica è in testa alle responsabilità. Sappiamo tutti che in Calabria servono centomila posti di lavoro per fermare l’emorragia dell’emigrazione iniziata da allora e mai fermata da nessun governo.

Anzi, nel dopoguerra lo stesso De Gasperi capo del governo invitava i calabresi e i meridionali a studiare le lingue ed emigrare. Nessuno fino a oggi è stato in grado di programmare il domani. Mettiamoci tutti assieme noi calabresi, approfittiamo che sul palco manca la politica , saliamo noi e recitiamo a memoria quello che da secoli recitano i nostri avi: pane e lavoro per tutti a casa nostra. Non vogliamo più emigrare per arricchire altri popoli e fare morire i nostri borghi.

Questa volta siamo decisi. Ce la faremo tutti assieme. Serve una nuova classe dirigente però che guardi al nuovo Mediterraneo, che assuma la guida di questo obbligato motore di crescita che analizzi bene il passato con tutti gli errori fatti e pensi seriamente a rilanciare il domani della Calabria che con un occhio deve guardare all’Europa e l’altro al mediterraneo e l’Africa, il nostro futuro. (pab)

L’AUTONOMIA ESISTE GIÀ DA PIÙ DI 20 ANNI
AL NORD PIÙ SOLDI E AL SUD SOLO BRICIOLE

di GIACINTO NANCILa spesa sanitaria delle regioni ammonta a più del 70% di tutta la spesa pubblica regionale per cui le regioni che ricevono più fondi pro capite per questa spesa sono già differenziate “avvantaggiate” rispetto alle altre.

Da più di 20 anni le regioni del Nord ricevono molti più fondi rispetto a quelle del sud perché il criterio scelto dalla Conferenza Stato-Regioni in applicazione dell’art.1 comma 34 legge 23/12/1996 n. 662 è stata quella del calcolo della popolazione pesata. Questo criterio che da pochi fondi pro capite per la giovane età e molti più fondi per la popolazione anziana ha favorito le regioni del nord che hanno avuto e hanno una popolazione più anziana.

La Conferenza Stato-Regioni per ripartire i fondi sanitari alle regioni non ha mai tenuto in conto i criteri epidemiologici (cioè la numerosità delle malattie presenti nelle regioni) pur contenuti nella sopra citata legge. Ciò ha fatto sì che per più di 20 anni sono stati dati più fondi a quelle regioni che avevano sì più anziani ma in buona salute e meno fondi a quelle regioni che pur avendo meno anziani avevano più malati cronici e quindi necessità di maggiore spesa sanitaria. Di ciò tutti erano e sono al corrente, infatti basta leggere le dichiarazioni di insoddisfazione dei governatori delle regioni del Sud all’ascita della Conferenza Stato-Regioni ogni anno alla fine del riparto dei fondi sanitari e di contro quelle di soddisfazione dei governatori delle regioni del Nord.

Ma ancora più eloquente è ciò che avvenuto nel 2017 quando, per bocca dell’allora presidente della Conferenza Stato-Regioni Bonaccini, è stato annunciata una “parziale” (per come dichiarato dallo stesso Bonaccini) modifica dei criteri di riparto dei fondi sanitari non più solo sul calcolo della popolazione pesata ma bensì su quella della “deprivazione” in rispetto della legge 662.

Ebbene nel 2017 grazie a questa parziale modifica alle regioni del sud sono arrivati ben 408 milioni di euro in più rispetto al 2016, ovviamente la modifica fatta non è stata ne ampliata ne riproposta  negli anni successivi. Se la modifica invece di parziale fosse stata inter e in rispetto della legge 662 la cifra di 408 milioni di euro si dovrebbe moltiplicare per 4 e ogni anno da 20 anni a questa parte. Per rendere l’idea di quanto ampia è la ampia la differenza di numerosità delle malattie croniche presenti nelle varie regioni basta citare ad esempio il Dca n. 103 del lontano 30/09/2015 a firma dell’allora Commissario al piano di rientro sanitario calabrese ing. Scura e vidimato per come prevede il piano di rientro prima del ministero dell’Economia e poi da quello della Salute, nel quale Dca alla pag.33 dell’allegato n. 1 si legge: “Si sottolineano valori di prevalenza più elevati (almeno il 10%) rispetto al resto del paese per diverse patologie”.

E siccome il Dca è fornito di dettagliate tabelle è stato facile calcolare che nei circa due milioni di abitanti calabresi c’erano allora (e oggi ancor di più) ben 287.000 malati cronici in più rispetto ad altri due milioni circa di altri italiani. Nonostante ciò la Calabria è la regione che, da oltre 20 anni a questa parte, è la regione che in assoluto riceve meno fondi pro capite per la sua sanità. Le altre regioni del Sud sono, anche se con meno criticità, nella stessa situazione della Calabria sia per la maggiore presenza di patologie che per il fatto di essere le regioni che ricevono meno fondi per la loro sanità. Ciò è talmente vero che questa estate il governatore della Campania De Luca ha fatto un ricorso al Tar proprio per il fatto che ritiene ingiusti i metodi di riparto dei fondi sanitari alle regioni.

Ma ancora più significativo è il fatto che il governo ha promesso che per l’anno venturo saranno rivisti i metodi di riparto dei fondi e sarà applicato il criterio della deprivazione e non con quello demografico (popolazione pesata), e lo ha fatto ancor prima della pronuncia del TAR immaginando che il ricorso è giusto e il Tar lo accetterà sicuramente.

Le regioni del Sud, a questo punto, devono far sì che nella prossima Conferenza Stato-Regioni sia applicato il criterio epidemiologico, cioè più fondi alle regioni che hanno più abitanti con patologie croniche e non come è stato fino ad adesso: meno fondi alle regioni con più malati. (gc)

[Giacinto Nanci è medico dell’Associazione Medici di Famiglia a Catanzaro]