SERVE UNA TRANSIZIONE ENERGETICA CHE
NON DISTRUGGA IL TERRITORIO CALABRESE

La devastazione del territorio calabrese s’impenna invece di arrestarsi. Così un nutrito gruppo di  associazioni immediatamente sostenuto da intellettuali, artisti, soggetti economici, amministratori, uomini e donne delle istituzioni che il degrado mette in difficoltà, ha ritenuto necessario esprimere sofferenza e al contempo proposte concrete per avviare finalmente una stagione politica orientata al recupero della qualità  ambientale e della serenità sociale nella nostra tormentata regione.

La forma comunicativa prescelta è una lettera aperta al Presidente della Repubblica, invocando «una riconversione energetica che non faccia a pugni con il rinnovato articolo 9 della Costituzione, secondo il quale la Repubblica tutela il paesaggio, il patrimonio storico e artistico, la biodiversità e gli ecosistemi». Perché, si sottolinea, «è paradossale che si continuino a costruire impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili che abbattono migliaia di alberi, alterano morfologie a volte già fragili incrementando il dissesto idrogeologico, consumano e degradano il suolo».

La lettera è stata sottoscritta da oltre 100 firmatari fra sindaci, ex senatori ed ex senatrici, situazioni territoriali, associazioni culturali, uomini e donne della cultura, del cinema, e dello spettacolo, parroci, enti pubblici, camminatori ed esploratori che hanno a cuore l’ambiente e il nostro territorio, contadini, aziende e cooperative agricole. Obiettivo della missiva aperta è quello di creare un effetto mediatico positivo oltre che un minimo comune denominatore tra le tante anime dei soggetti e dei comitati pronti a far nascere, a stretto giro, un coordinamento regionale di tutti coloro che si oppongono all’avanzata dell’eolico e del fotovoltaico stragisti, agli impianti di produzione di energia rinnovabile sostitutivi di boschi, terreni agricoli e suolo naturale.

Caro Presidente, siamo italiani della Calabria,  cittadini a vario titolo impegnati nelle vicende intellettuali, politiche, economiche, sociali e artistiche della nazione, e, spinti dallo stesso disagio, dallo stesso dolore e dalla stessa preoccupazione che hanno già prodotto fermento in altre aree del Meridione e delle Isole, ci rivolgiamo a Lei, considerandoLa un garante del buon senso oltre che della Costituzione, mentre nei territori che abitiamo vengono meno ogni giorno le precondizioni della vita, subiscono duri colpi gli ecosistemi, avanza il degrado ambientale  travolgendo il paesaggio e ogni ipotesi di sviluppo rurale e turistico fondato sulle risorse locali e sul presidio umano delle zone montane e collinari.

Questo vasto e progressivo processo di destrutturazione ecosistemica dei luoghi in cui viviamo è generato da una radicalizzazione degli approcci riduzionistici alla crisi ecologica (affrontata esclusivamente come problema energetico), che hanno creato i presupposti della proliferazione indiscriminata di mega impianti eolici e fotovoltaici. Sono passati ora vent’anni dal decreto legislativo 387 del 2003, il cui dodicesimo disgraziato articolo è dedicato alla Razionalizzazione e semplificazione delle procedure amministrative, e possiamo purtroppo constatare di avere vissuto un assalto senza precedenti alla qualità della nostra vita, siamo entrati in un’epoca che i posteri da noi danneggiati potranno legittimamente chiamare “ il Far West delle fonti rinnovabili”.

Signor Presidente noi chiediamo alla comunità nazionale una riconversione energetica che non faccia a pugni con il rinnovato articolo 9 della Costituzione, secondo il quale la Repubblica tutela il paesaggio, il patrimonio storico e artistico, la biodiversità e gli ecosistemi. Le associazioni, i gruppi, i comitati di cui facciamo parte, in questi ultimi vent’anni di attivismo civico, hanno verificato l’aumento dell’inquinamento e delle difficoltà del vivere quotidiano, e segnalano la diffusione di sfiducia, delusione e risentimento nel corpo sociale. Anche noi pensiamo dunque che la transizione ecologica debba essere ricollocata dentro una prospettiva politica e democratica; le comunità locali non possono più subire i loro paesaggi quale risultato di evoluzioni tecniche ed economiche decise senza di loro.

I nostri sindaci, i nostri rappresentanti istituzionali più prossimi, frustrati dall’impossibilità di contribuire a valutazioni così importanti per gli equilibri dei territori che amministrano, sono i soggetti più consapevoli della complessità dei problemi anche da Lei affrontati nei giorni scorsi, quando è  andato a Longarone, sessant’anni dopo il 9 ottobre del 1963,  a commemorare le vittime del disastro del Vajont, 1910 vittime del malgoverno del territorio, del desiderio cieco dell’uomo di piegare a proprio piacimento la natura per guadagnare il massimo profitto, come ha detto il Presidente Fedriga da Lei citato.

Lei ha dimostrato di sapere benissimo, e dunque siamo certi di sfondare una porta aperta, che la buona salute dei suoli, insieme all’arresto del loro consumo mediante quell’intervento legislativo  tanto atteso e in fase di stallo da più lustri, è conditio sine qua  non del  contrasto ai cambiamenti climatici: per catturare l’anidride carbonica, per assorbire in sinergia con le piante l’acqua piovana rendendoci meno vulnerabili in caso di forti piogge, per produrre cibo, legna e habitat per tutti gli organismi indispensabili alle reti di vita in cui noi umani siamo impigliati.

Del resto si tratta di compiti e temi a cui ci richiama l’Ispra, con una continua produzione scientifica che dovrebbe rappresentare la bussola delle amministrazioni in materia ambientale, trovandosi in perfetta sintonia con l’Europa; compiti e temi pienamente accolti dal nostro Piano di Transizione Ecologica, che assume la necessità di individuare per gli impianti fotovoltaici ed eolici le superfici idonee coerentemente con le esigenze di tutela del suolo, delle aree agricole e forestali e del patrimonio culturale e paesaggistico in conformità ai principi di minimizzazione degli impatti sull’ambiente, sul territorio e sul paesaggio (lo stesso piano individua come soluzione migliore lo sfruttamento prioritario delle superfici di strutture edificate come tetti di edifici pubblici, capannoni, parcheggi,  aree e siti oggetto di modifica, cave e miniere cessate).

Non è paradossale, signor Presidente, che a fronte di tutti questi sforzi conoscitivi, di queste indicazioni ufficiali e di questa consapevolezza si continuino a costruire impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili che abbattono migliaia di alberi, alterano morfologie a volte già fragili incrementando il dissesto idrogeologico, consumano e degradano il suolo? Per quali ragioni il nostro sistema paese di cui Lei è il Presidente fa entrare la sostenibilità dalla porta per farla uscire subito dopo a calci nel sedere dalla finestra?

Noi ci aspettiamo da Lei una parola di sostegno nei  nostri confronti, perché abbiamo a cuore interessi generali insidiati al momento dal trionfo di interessi particolari; confidiamo in un pubblico intervento da parte Sua sulla questione di fondo da noi sollevata: l’esigenza di produrre sempre più energia rinnovabile deve essere armonizzata con altre pressanti esigenze, non può intaccare il rispetto di principi e valori su cui si fonda il patto sociale sancito dalla Costituzione. Lei il 9 ottobre 2023 ha pronunciato parole sacrosante, alle quali è necessario che seguano fatti concreti, prodotti dai vari attori delle nostre istituzioni e da noi cittadini rimessi nelle condizioni di partecipare a una dinamica democratica degna di questo nome.

Presidente ci muove l’ansia di riconciliarci con il mondo che ci ospita, con la natura e l’ambiente in cui siamo immersi, e  immaginiamo che la resistenza nostra, la voglia di non arrendersi allo strapotere di chi preme con la sua forza economica sulle istituzioni per indirizzarne le scelte a proprio esclusivo vantaggio, sia considerata da Lei un’ancella dei compiti della Repubblica. 

Noi ci sentiamo, mutatis mutandis, simili a Tina Merlin, la cui attività  di informazione e denuncia avrebbe meritato l’ apprezzamento e l’appoggio dei Capi dello Stato in carica in quegli anni. Faccia valere il senno del poi, il senno del dopo Vajont, nei nostri tormentati giorni. Siamo Davide che fronteggia Golia, e ci piacerebbe salire sulle Sue spalle per avere più  coraggio e una più solida base. (rrm)

 

Mattarella apprezza il corso dell’Unical sull’intelligenza artificiale

di FRANCO BARTUCCIIl Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso vivo apprezzamento alla collana editoriale sull’Intelligence pubblicata dalla Rubbettino e dall’Università della Calabria. 

Il Capo dello Stato ha fatto pervenire in tal senso una lettera al direttore della collana Mario Caligiuri e all’editore Florindo Rubbettino. Avviata, nel 2009 con il volume “Intelligence e ‘ndrangheta”, la collana rappresenta la prima e finora più numerosa esperienza del settore, con testi dei più importanti studiosi italiani e con la valorizzazione dei lavori di ricerca degli studenti del Master in Intelligence dell’Università della Calabria, fondato, primo in Italia, nel 2007 su sollecitazione di Francesco Cossiga.

 Finora sono stati pubblicati 37 volumi, che affrontano il tema dell’intelligence in una prospettiva multidisciplinare, intesa come punto d’incontro dei saperi. Del Comitato scientifico della collana fanno parte Derrick De Kerckhove, Alberto Felice De Toni, Umberto Gori, Paolo Savona, Antonio Teti e Antonio Felice Uricchio

Al Salone del Libro di Torino ieri sono stati presentati i testi “Enrico Mattei e l’intelligence” curato da Mario Caligiuri che lo ha illustrato insieme con il giudice Vincenzo Calia e “Sorvegliata speciale. Le reti di condizionamento della Prima Repubblica” di Romano Benini e Vincenzo Scotti(fb)

L’OPINIONE / Franco Cimino: Ma che bel 25 aprile e che bel Presidente abbiamo!

di FRANCO CIMINO – Ma che bel Venticinque Aprile! Ma che bella festa! E che bel Presidente abbiamo. E che fortuna che un anno fa le forze politiche, sempre litigiose e inconcludenti, non abbiano trovato una maggioranza parlamentare per eleggere il successore di Sergio Mattarella.

Posso dire ancora, senza incorrere in qualche blasfemia? Bene, lo dico sommessamente: ma che straordinaria fortuna che la scadenza del precedente mandato presidenziale sia caduta nella passata legislatura, altrimenti il rischio che la nuova larga maggioranza, venuta fuori dal voto di ottobre scorso, chissà quale altro capolavoro di democratico antifascista con il vizio di correggere la storia avrebbe regalato al Paese!

Sergio Mattarella si rivela sempre di più un grande presidente della Repubblica. E dire che gli è facile esserlo, nonostante le grandi difficoltà che ha dovuto affrontare nel corso dei suoi otto anni al Quirinale e la complessità dell’attuale situazione politica. Una situazione per nulla rassicurante, a dimostrazione che i numeri e le alleanze intorno ad essi da soli non bastano a garantire un buon governo al Paese, come ha fatto intendere oggi il Capo dello Stato.

Occorre un altissimo senso delle istituzioni e il sentire profondo che esse siano i pilastri della Democrazia. I soldati pacifici della Libertà. La Libertà nata dalla lotta di Liberazione, e che è posta a fondamento della Costituzione, che la riconosce nella Persona in cui essa è radicata. Persona, il centro intorno a cui si muovono tutti i principi costituzionali. Mattarella è stato a Cuneo, la Città trentasette volte medaglia d’oro della Resistenza. Quel lunghissimo applauso che ha salutato il suo discorso è molto più che l’apprezzamento delle sue efficaci parole.

È il segno dell’affetto che il Paese nutre per una personalità su cui sa di poter contare in ogni avversità e nel bisogno di poter ancora sperare. Ancora sognare. Sperare nella Giustizia e nel Progresso. Nella crescita civile ed economica del Paese dell’eguaglianza e dei diritti garantiti a tutti. Un Paese libero e democratico, protagonista della nuova forza dell’Europa e sostenitore del Progresso in tutte le regioni del mondo.

Un mondo in cui siano debellate violenze e povertà. E nel quale ogni popolo possa vivere nella propria terra per mezzo di uno Stato autonomo che ne governi i confini senza più temere invasioni o furti di territorio. Un mondo nel quale ciascun essere umano sia libero di muoversi e di raggiungere il paese in cui conta di poter vivere e lavorare, recandovi la propria intelligenza e la propria cultura per aprirsi a quelle che incontra nel suo cammino. E sognare, sognare la Pace, vorrebbe l’Italia che si affida al Presidente. Su di lui il popolo italiano può contare perché è credibile. Non ha ombre nella vita, non ha scheletri nell’armadio. È credibile in quanto coerente portatore di quei valori democratici nei quali, iniziando dalla propria famiglia, si è formato, e ai quali ha dedicato tutta la vita, e politica e personale.

È credibile perché non solo è il più sicuro garante della Costituzione, ma perché egli stesso la incarna. Mattarella ama la Costituzione. Nel suo discorso odierno, parlando, anche all’Europa e al mondo intero, di Resistenza, ha fatto una lezione sulla Carta Costituzionale. Ha spiegato a chi non l’aveva capito e a quanti fanno ancora finta di non capire cosa sia stato, ieri, e cosa sia, oggi, il Venticinque Aprile. Ha, inoltre, con il suo garbo istituzionale e la sua finezza culturale e la sua eleganza personale, risposto alle polemiche di questi giorni, chiarendo a tutti, ma proprio a tutti, il significato profondo e inalterabile della lotta partigiana contro il nazi-fascismo.

L’ha spiegato specialmente a coloro che ancora parlano strumentalmente di pacificazione nazionale, chiedendo di trasformare il Venticinque Aprile in festa della libertà pur di non pronunciare la parola antifascista. Ovvero, a quanti si ritengono rivoluzionari per aver accettato la comodità della democrazia con le conseguenti convenienze politiche, ovvero dichiarando l’ovvio dell’ovvio. E cioè, che la libertà si contrappone alla dittatura e al fascismo e viceversa. Ma ha parlato anche ai pigri. Agli antifascisti di maniera. A chi pensa che l’adesione semplicistica ai valori della Resistenza gli conferisca un titolo di superiorità verso gli altri o la comoda posizione di rendita con cui nei salotti radical borghesi giudica senza fare, pretende senza lottare, usa la libertà per le proprie convenienze, si serve della Democrazia per trarre profitto dal proprio egoismo.
Sintetizzo le parti salienti del discorso del Presidente.

Il Venticinque Aprile è festa di Libertà e Democrazia, ma soprattutto festa della Liberazione senza la quale “oggi, e tutti i giorni, non festeggeremmo la Libertà e la Democrazia così come l’hanno concepita e costruita i nostri padri costituenti”. La forza della Costituzione è nel pluralismo e nell’autorevolezza del Parlamento. È in quel meccanismo che impedisce all’uomo forte di rompere l’equilibrio democratico e lo stesso pluralismo. La Costituzione, figlia della Resistenza, è contro il mito del capo, il mito della violenza e delle guerre, il mito dell’egemonia dell’Italia nel mondo, il mito di togliere la libertà agli altri per affermare la propria superiorità. E, ancora, la Resistenza è stata un moto irrefrenabile di popolo per sconfiggere il fascismo e costruire la libertà. La Resistenza è uno degli atti su cui si fonda l’identità della Nazione. Le sue testuali parole: “domandiamoci oggi dove saremmo se non avessimo sconfitto il fascismo”

E noi con lui, dove sarebbe l’Europa, e in mano di chi, se non ci fosse stato il Venticinque Aprile. La vittoria partigiana, dice Mattarella, ha consentito che l’Europa si liberasse dall’incubo della guerra. La Costituzione afferma il principio del rispetto della vita, della dignità umana e della persona, anche nei confronti dello Stato che vi si volesse sovrapporre. Un discorso bellissimo, iniziato e chiuso con le famosi frasi di Piero Calamendrei, grande protagonista della Resistenza con Duccio Galimberti oggi richiamato più volte, «se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati…».

E, infine: «ora e sempre Resistenza», scolpita nella lapide di Cuneo. Non è una chiusura da poco. Non è una frase di niente. Detta oggi significa che il Venticinque Aprile non si tocca. Ché la lotta per difendere, per riconquistarla ogni giorno, la Libertà, non è finita. Non deve finire mai, pena l’assuefazione alla sua progressiva mancanza. Da parte mia mia aggiungo, con prudenza e umiltà, che la Libertà è come l’abito e la coscienza.

La si può indossare come un bel vestito, magari quando si ricopre una carica istituzionale, oppure la si vive all’interno della propria anima, in cui matura come coscienza indivisibile e non negoziabile. Sergio Mattarella è una figura bellissima, esemplare, perché in lui la Libertà è abito e coscienza. È Resistenza e Costituzione. È lotta partigiana e Quirinale. È Politica e Morale. (fc)

Messaggio di Mattarella al X Congresso Cisal in corso a Roma

Dopo il messaggio augurale di Papa Francesco al X Congresso Nazionale della CISAL arriva anche il saluto solenne del Capo dello Stato, indirizzato dal Quirinale direttamente al Segretario Generale Franco Cavallaro, originario lui – lo ricordiamo – di Dinami un paesino in provincia di Vibo Valentia. Un segnale importante per la CISAL, ma anche di grande attenzione verso il ruolo strategico del Movimento Sindacale che Franco Cavallaro ha saputo costruire in tutti questi anni al servizio dei lavoratori. Un milione e 400 mila iscritti, tanti ne vanta oggi Franco Cavallaro come leader della CISAL, sono la testimonianza di un lavoro attento, scrupoloso e soprattutto trasparente al servizio del Paese.

Non a caso il Presidente Sergio Mattarella, pur stando ieri lui a Varsavia, trova il tempo per una riflessione tutta sua sul momento delicato della vita del Paese: “Il X Congresso della Confederazione Italiana Sindacati Autonomi Lavoratori, sulle tematiche della dignità umana e del lavoro – scrive il Capo dello Stato ai 600 delegati presenti da ieri sera a Roma – apre una riflessione sulla necessità di ricondurre la dimensione del lavoro nella sua condizione di legame tra la persona e la comunità”.

Ma il Presidente Sergio Mattarella va oltre questa prima considerazione di fondo e ricorda come: “La nostra Costituzione pone il lavoro a fondamento della Repubblica. Perché il lavoro – sottolinea il Capo dello Stato – rappresenta un’espressione irrinunciabile della dignità della persona”.

E come se tutto questo non bastasse, il Presidente della Repubblica scrive a Franco Cavallaro: “Il lavoro rappresenta anche il nostro modo di partecipare alla crescita della comunità e, dunque, a premessa di una libertà personale e collettiva”.

Il lavoro, insomma, rende liberi gli uomini, nel senso pieno del termine: un concetto che spesso in passato è stato dimenticato o forse anche sottovalutato da molti, anche se tragicamente utilizzato dai nazisti sui cancelli di sterminio di Auschwitz.

Sergio Mattarella riscopre anche in questa occasione la sua storia di giurista garante dello Stato e precisa che “La nostra Carta Costituzionale riconosce il lavoro come un diritto. Istituzioni e forze sociali sono chiamate a uno sforzo collettivo per inverarlo, garantendo che esso venga svolto in sicurezza. Con l’auspicio che dal dibattito emergano costruttivi spunti di iniziativa – conclude il messaggio del Capo dello Stato al Congresso della CISAL – invio a tutti i partecipanti ii mio saluto. Sergio Mattarella”.

Il messaggio sarà letto stamattina alla platea del Marriot Park Hotel di Roma dallo stesso Franco Cavallaro e il “popolo Cisal sicuramente si alzerà in piedi per tributare al Capo dello Stato il grazie ideale di tutta l’assemblea.

Questo congresso è un momenti di grande commozione generale e di grande coinvolgimento personale, soprattutto per questo ex ragazzo di Calabria, Franco Cavallaro, che  si prepara a ricevere oggi almeno 5 ministri del Governo Meloni e i leader delle forze di opposizione. Un trionfo preannunciato, che lo vede già segretario generale della CISAL per i prossimi tre anni. Una riconferma che è il risultato di tanto lavoro e di tanta gavetta passata”. (rrm)

Pasquale Tridico: «Da 125 anni Inps al servizio del Paese»

Di PINO NANOC’è il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di apertura delle celebrazioni per i 125 anni dalla fondazione dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale. Il Presidente dell’Inps, Pasquale Tridico tiene una vera e propria lezione magistrale di Welfare.

Alla cerimonia sono presenti fra gli altri la Presidente della Corte Costituzionale Silvana Sciarra, il Vice Presidente del Senato Gian Marco Centinaio, in rappresentanza del Parlamento il  Questore della Camera dei deputati Filippo Scerra, e il Ministro del Lavoro e delle Politiche Social Marina Elvira Calderone.

Manifestazione solenne come nella migliore tradizione Inps, e a cui quest’anno il Presidente Prof. Pasquale Tridico ha voluto riconoscere un valore simbolico aggiuntivo e molto speciale, sottolineando nel suo intervento il ruolo storico che da 125 anni svolge l’istituto che dirige.

«La storia dell’Inps – spiega il professor Tridico – coincide con la storia dello Stato sociale in Italia. È una storia che ha accompagnato le più importanti trasformazioni del mondo del lavoro, del fare impresa e delle famiglie. È una storia che conferma l’indissolubile legame tra welfare e lavoro. E che scandisce l’espansione delle scelte di solidarietà del Paese».

Per nulla rituale la relazione del Presidente, anzi un intervento condito di storia e di dati economici che trasformano la sua relazione di rito in una vera e propria lezione accademica, da economista raffinato ed educato ai consessi internazionali più esclusivi.

«Veniamo da lontano – esordisce il Presidente Tridico – eravamo in piena rivoluzione industriale quando nasce anche in Italia, nel 1898, la previdenza sociale, con l’istituzione di una assicurazione privata obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e con la fondazione della Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e per la vecchiaia degli operai, secondo il principio di una «previdenza libera sussidiata e facoltativa».

«Nel 1919, l’assicurazione diventa obbligatoria per i dipendenti dell’industria e gli agricoltori e vi si aggiunge una assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria. Così come qualche anno prima, nel 1910, si era avuta l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria della maternità».

Il grande economista diventa per un momento anche costituzionalista, e spiega che nasce così il moderno Stato Sociale italiano che avrebbe accompagnato i cittadini in quei successivi trent’anni di straordinario sviluppo industriale del Paese, trent’anni caratterizzati dall’aumento demografico e da una forte espansione economica.

«L’Italia decise di abbracciare un’idea di stato sociale che permettesse a tutti migliori condizioni di vita, costruendo progressivamente una sanità pubblica, un reddito assicurato per malati e indigenti, istruzione pubblica gratuita, servizi per l’impiego e servizi abitativi».

Il “Professore” va ancora oltre: «La missione dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale – ripete – si inserisce in questo solco valoriale, scandito chiaramente negli articoli 1, 3, 4 e 38 della Costituzione, che mira a principi di welfare universalistico e alla promozione del “lavoro buono”, capace di garantire le giuste tutele e lo sviluppo umano». 

Poi, dagli anni ’90 in poi, la globalizzazione e il calo demografico impongono una riflessione e ha inizio un lungo processo di riforma che riguarda sia il mercato del lavoro che l’ambito delle pensioni, dell’assistenza e del sostegno al reddito. Anche questo processo ha visto INPS al centro di cambiamenti importanti e di una profonda modernizzazione.

«Da una parte – spiega Pasquale Tridico –, l’aumento delle disuguaglianze, e la crescente flessibilità del lavoro, che troppo spesso è diventata precarietà, hanno portato a aumentare le prestazioni a sostegno del reddito. Dall’altra, la crisi demografica ha spinto verso maggiori sostegni alla famiglia e per i figli. Infine, le due grandi crisi del nuovo secolo, quella finanziaria del 2008 e la pandemia, hanno generato un welfare sempre più universale e meno categoriale, rivolto a tutti i lavoratori e non solo ai lavoratori subordinati, con l’estensione dell’indennità di disoccupazione e con l’introduzione del reddito minimo, in linea con gli indirizzi comunitari».

Non ha nessun dubbio il Professore: “L’Inps è una grande azienda pubblica efficiente al servizio del Paese e del suo cambiamento. Solo 20 anni fa, l’Istituto offriva prestazioni e servizi nell’ordine di qualche decina. Oggi ne gestisce oltre 400. Per volontà dei Governi e Parlamenti che si sono succeduti, Inps ha incrementato il numero e la varietà delle prestazioni sociali e accorpato a sé altri enti previdenziali, diventando una vera e propria “Agenzia Nazionale del Welfare” con missioni e obiettivi sempre più ampi per rispondere alle crescenti esigenze della società italiana».

Il Presidente Tridico tratta l’Inps come se fosse il fiore all’occhiello del sistema-Paese, forse ha anche ragione lui, ma ci sono pezzi della sua lezione davanti al Capo dello Stato da cui viene fuori un senso di fierezza e di appartenenza che difficilmente di solito l’uomo tradisce in pubblico.

Circa 42 milioni di utenti, tra lavoratori, pensionati, famiglie e aziende, l’Istituto gestisce 386 miliardi di euro di entrate, di cui 145 miliardi di trasferimenti pubblici, e 384 miliardi di euro di uscite, assicurando la sostenibilità del sistema e agendo come snodo per la coesione sociale.

«Tutto questo – conclude Tridico – rappresenta l’Inps, un “motore” sempre acceso, l’ente di welfare più grande d’Europa».

Ma a questo il Professore aggiunge anche quello che è ormai diventato il suo mantra preferito: «Solo se nessuno viene lasciato indietro, lo sguardo di tutti può volgersi in avanti».

E chiude con un monito al Paese, ma è anche un riconoscimento formale alla missione che il Presidente Mattarella ha appena vissuto in prima persona in Calabria, che è la terra di origine del Presidente Tridico: «La mancanza di prospettive e di solidarietà è la più grande sconfitta che un popolo possa affrontare».

«È ciò che costringe i giovani ed intere famiglie ad allontanarsi dalla propria terra di origine e ad affrontare gravi incertezze, con conseguenze anche tragiche. Negli occhi e nei pensieri oggi portiamo il peso del terribile naufragio di Crotone. Sta a noi, con ogni tipo di strumento che scegliamo di porre in campo, mantenere la promessa che abbiamo sottoscritto attraverso la Costituzione: di crescere come collettività attraverso il lavoro e il sostegno al pieno sviluppo di ogni individuo, a partire dagli ultimi e dai più fragili». 

Chi vuole intendere intenda, please. (pn)

L’OPINIONE / Eduardo Lamberti Castronuovo: Presidente Mattarella, perché a Sanremo sì e per il 50° dei Bronzi no?

di EDUARDO LAMBERTI CASTRONUOVO – I Bronzi e Sanremo. La cosa diventa preoccupante. Non che non c’era da aspettarselo ma la misura è davvero colma.
Che Sanremo rappresenti un momento importante per la cultura popolare, Non c’è dubbio, ma che si stia esagerando, è sotto gli occhi di tutti!

Una pubblicità martellante quanto ossessiva ci ha accompagnati per mesi con un countdown da lancio nello spazio dei tanto amati missili, una miscellanea tra politica e spettacolo che non ha mai avuto eguali. Insomma, una decadente promozione che nulla a che vedere con un festival della canzonetta dove una serie improponibile di parole al vento, con musiche pressoché improvvisate e cantanti qualche volta vicini al ridicolo, hanno umiliato la vera identità della musica leggera italiana.

Certo si dirà che è stato un successo, che di meglio non c’è mai stato ma è tutto talmente scontato che non ci crederà nessuno! La vera sindrome dell’ applauso. Quella che registra ovazioni anche se chi sta cantando stecca e chi sta parlando dice ovvietà fanciullesche.
Due però sono gli elementi la cui gravità supera anche la più risoluta ostinazione di trovare il bello laddove non c’è proprio. Il primo è quello di voler a tutti i costi spettacolarizzare la politica con un batti e ribatti sull’intervento di Zelens’kyj (Presidente dell’Ucraina) al Festival: una inclusione letteralmente folle che voleva confondere il trovatore con la

Semiramide. La guerra, ahinoi, è cosa seria e sopratutto dolorosa: cosa avrebbe rappresentato la presenza di uno dei guerreggianti ad un fatto meramente ludico? Non è dato sapere! Ma lo stesso altalenare della partecipazione si o no, la dice lunga sulla validità della scelta primaria.

Il secondo elemento ci vede coinvolti più da vicino. La presenza del capo dello stato al festival! Ho grande rispetto per la figura del capo dello Stato Mattarella ma sinceramente la delusione è grande nell’aver saputo della sua presenza così rappresentativa da vederlo, questa volta , assolutamente fuori luogo.

Noi reggini, poi, nel non averlo avuto ospite gradito a Reggio in occasione del 50nario del Bronzi di Riace, siamo ancora più contrariati da questa presenza alla kermesse delle canzonette in contrapposizione ad una assenza ad una manifestazione culturale quale quella realizzata con tanti sforzi al Teatro Cilea di Reggio la sera del 17 dicembre Eppure il cast, di livello internazionale reale, avrebbe meritato – vista anche la Ricorrenza storica – la presenza del presidente.

La cosa è ancora più grave se realizziamo che nessun rappresentante dello Stato è venuto in città a salutare un evento così importante. Eccezion fatta per il Sottosegretario Maria Tripodi.

Siamo un popolo di serie B? Siamo italiani anche noi? Sanremo vale più dei Bronzi? Le domande sono tante. Chi risponderà mai?
Lo facciano le nostre coscienze. Valutino quanto peso abbia la nostra città nel panorama nazionale e tra coloro che contano tra le cariche dello Stato! La risposta non è difficile.
Ma l’indignazione non può che essere tanta. (edc)

Autonomia differenziata, sindaco di Cariati Greco chiede a Mattarella un incontro

Il sindaco di Cariati, Filomena Greco, ha scritto una lettera al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, affinché sia ricevuta insieme ai 55 sindaci della Rete del Recovery Sud, per parlare dell’autonomia differenziata.

«Fatta salva forse solo la qualità dell’aria e della biodiversità – ha spiegato – nelle regioni meridionali non c’è un indicatore che possa essere considerato normale ed in linea con quelli puntualmente registrati nel Nord del Paese. Una fotografia che resta la sconfitta più imperdonabile della Costituzione Repubblicana, delle Istituzioni e della Politica. Ecco perché serve ancorare tutta la classe politica nazionale, di maggioranza e di opposizione a questa emergenza che resta di unità nazionale ed ecco perché insistere, almeno in questa fase, sull’autonomia differenziata, non farà altro che acuire tutti i gap che fanno dell’Italia attuale uno Stato innegabilmente a pezzi».

Ringraziando il Capo dello Stato per aver fatto riferimento, nel suo discorso di fine anno, alla Costituzione e alle ingiustizie determinate dalle differenze tra i diversi territori del nostro Paese, il Primo Cittadino ha colto l’occasione per ribadire che la riduzione di tutte quelle pesantissime differenze regionali che rappresentano l’unico e più intollerabile gap di sviluppo interno ad uno stesso Paese dell’Unione Europea dovrebbe essere – scandisce – «la priorità al centro dell’agenda politico-istituzionale del Parlamento e del Governo».

Per queste ragioni – ha scritto il primo cittadino a Mattarella – chiediamo ancora una volta di voler farsi interprete e garante non certo delle lagnanze di un’area del Paese che dal 1861 continua a non essere destinataria di quegli interventi finalizzati a garantire eguali opportunità e condizioni di partenza e concorrenza quanto delle esigenze basilari di unificazione sostanziale di una Nazione che, in termini di piena fruizione dei diritti fondamentali, resta profondamente disunita».

«Per la prima volta nella storia d’Italia – ha aggiunto – la Rete Recovery Sud sta riunendo amministratori del Mezzogiorno decisi a promuovere un’azione congiunta per il superamento degli storici divari, affermando il valore della coesione nazionale e proponendo soluzioni a partire da un confronto fondato su un’analisi più puntuale dei bisogni dei nostri territori».

«Non siamo e non potremmo essere – ha sottolineato – pregiudizialmente contrari ad un principio costituzionale come quello dell’autonomia differenziata, così come affrontato nei giorni scorsi nella nostra regione, anche nel confronto tra il ministro per gli Affari regionali e per le Autonomie, Roberto Calderoli con il Presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto».

«Molto più semplicemente – ha concluso Greco – riteniamo che non sia quella attuale la fase di fisiologica attuazione di quella previsione costituzionale, in assenza delle condizioni stesse di sostenibilità socio-economica di quella prospettiva che ha invece senso e diventa anzi opportuna e strategica nel momento in cui a tutte le regioni dello stesso Stato vengano garantiti gli stessi diritti fondamentali: dalla mobilità alla salute, dalla libertà economica alla giustizia, dall’acqua alla formazione». (rcs)

 

 

L’OPINIONE / Filippo Veltri: Mattarella e l’importanza della parola “dignità”

di FILIPPO VELTRI – Questa parola, dignità, che è stato il filo rosso del discorso di Sergio Mattarella una settimana fa, quando ha parlato nell’aula di Montecitorio, è una parola importante, poco usata e quindi fuori dal linguaggio comune e da quello della politica anche di più.

Eppure è fondamentale nell’atteggiamento umano e il Presidente della Repubblica anche da questo punto di vista ci ha veduto giusto e lungo. Dignità è infatti da ricercare in ogni rapporto civile, in una società inclusiva che non escluda nessuno, nell’accettazione dell’altro, nel rispetto di genere, in una informazione libera. In tutto.

Dignità «è un Paese libero dalle mafie, dal ricatto della criminalità, dalla complicità di chi fa finta di non vedere», ha tra l’altro detto Mattarella e il suo discorso mi è venuto e tornato in mente vedendo la mostra della DIA (la direzione investigativa antimafia) che c’e’ stata nei giorni scorsi a Palazzo di Giustizia di Catanzaro.

Poi: la dignità si raggiunge con la capacità di dialogo con gli altri schierati anche su fronti avversi, nel rispetto delle istituzioni cui tocca la responsabilità di essere esempio su questo percorso. Una speranza che speriamo si avveri. «La speranza siamo noi, auguri alla nostra speranza». Con le parole di David Sassoli, uomo dell’inclusione e delle istituzioni, scomparso troppo presto, il presidente Mattarella ha dato il via ad un settennato difficile ma affascinante. Ed è andato oltre: dignità, ha detto, è opporsi al razzismo e all’antisemitismo. Dignità è impedire la violenza sulle donne. Dignità è combattere la schiavitù e la tratta degli esseri umani. Dignità è contrastare la povertà. Dignità è lotta all’abbandono scolastico. Dignità è azzerare le morti sul lavoro. Dignità è rispetto per gli anziani che non possono essere lasciati soli. Dignità è un paese dove le carceri non siano sovraffollate. Dignità è rispetto delle persone disabili. Dignità è un paese libero dalle mafie.

In sintesi, una dignità fondata sull’Europa della pace, sulla democrazia della partecipazione, su una giustizia riformata, sulla lotta a disuguaglianze e miserie.

Mattarella ha fatto un autentico capolavoro e non sfugge quanto lo sforzo del Capo dello Stato di guardare oltre l’emergenza si sposi con la linea “aperturista” contenuta nelle ultime misure del governo Draghi suggerendo così al Paese che malgrado tutto ce la stiamo facendo, riusciamo a venirne fuori, si può parlare anche di cose che non siano la pandemia e il Covid. La posta in gioco – i fondi dell’Europa assieme all’uscita dalla pandemia – è troppo alta per esporci a una scommessa elettorale dall’esito incerto. Per tutto ciò la partita quirinalizia se da un lato è stata letta come una débâcle della politica, o parte di essa, dall’altro restituisce a parlamento e partiti la responsabilità di decidere il loro destino.

Per chi temeva un presidenzialismo di fatto potrà essere un sollievo, per gli altri è la vera prova da superare nel senso che arrivare alle urne del 2023 senza una chiara offerta di alternative (intendo, programmi, visione della società, priorità sul fronte sociale e del lavoro, difesa e promozione della dignità di ciascuno) sancirebbe il fallimento di una classe politica denunciato da alcuni come già consumato. (fv)

Lettera aperta al presidente Mattarella: Venga al Sud

di GIUSY STAROPOLI CALAFATISe qualche settimana fa incominciai scrivendo: Caro “Futuro” Presidente della Repubblica, oggi scrivo cominciando con un semplice: Caro, Presidente Mattarella. 

Non ho sbagliato, affidandomi alle mie sensazioni “patriottiche”, pensando al Capo della Stato, nei giorni in cui il Parlamento, in seduta comune dei suoi membri, si agitava a causa di una concordia nominativa che faticava ad arrivare. Non ho sbagliato, no, a fidarmi di quelle che sarebbero state le capacità umane, le doti morali, e soprattutto il senso altissimo dell’onore con cui il Presidente della Repubblica, avrebbe accettato di servire il paese. 

Se dunque, nei giorni passati, la mia lettera veniva indirizzata a un immaginario Presidente della Repubblica, oggi si rivolge a lei, mio Caro Capo della Patria, che presiede questo paese con la sua carne e con le sue ossa. Con il suo spirito italiano e il suo sangue costituzionale. Indirizzo queste mie parole a lei che, non solo ormai ha un volto preciso, gli occhi blu cielo, un nome e un cognome già noti all’anagrafe di questo paese, ma questi stessi segni di riconoscimento, si rivelano tutti come verità riconfermate. 

Ho atteso con trepidazione il suo giuramento alla Repubblica, e seppure la Costituzione non lo prevede, in segreto, da casa mia, anch’io ho giurato con lei. Con tutti i miei 43 anni di vita, per amore dei miei quattro figli, e per quello che smisuratamente nutro per la mia amata terra natia. Ho seguito composta il suo discorso alla nazione. Mai così attese furono, parole più grate. Da sempre c’è una questione che mi preme forte dentro al cuore ed è la stessa che preme anche a lei. E ci unisce. E si chiama “Unità Nazionale”.

Le scrivo da una parte del paese, caro Presidente, che troppe volte si è vista pisciare sulla testa dal resto d ’Italia. Le scrivo dal Sud, quella terra che per colpa dei disfacimenti della storia, è stata ingiustamente destinata all’inferno, e che invece splende, a tutt’oggi, di luce propria come un paradiso.

Le scrivo dalla Calabria, Presidente, dalla mia inguaribile Magna Grecia. Pervasa da contagiosa speranza, mentre dalla finestra della mia casa, vedo scorrere lento il verso azzurro del Tirreno verso Tropea, fino a Stromboli, per ricordare alla gaudiosa Repubblica italiana che, per rinvigorire i suoi processi di sviluppo sulla base delle più lungimiranti visioni europee, è necessario che l’Italia si riscopra una e una cosa sola. Un grande paese d’ Europa.

Si slanci da “Quel ramo del lago di Como che volge a Mezzogiorno, fino a “Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte”, per raggiungere poi, le meravigliose nostre isole. Acquisisca l’importanza della sua storia primordiale, e riparta dal cuore antico della sua paesologia. Dai ritmi umani del Sud, e da quelli laboriosi del Nord. E si includa in un’unica visione repubblicana di paese. Ma affinché ciò avvenga, è necessario che il Nord riconosca il Sud come parte di sè, e non più sulla base della visione romantica degli amanti sedotti dal piacere dei corpi che si intersecano, ma dell’unica carne di due corpi che si fondono in uno, attribuendole i reali meriti e il giusto valore. 

Presidente, è con pellegrinaggi verso i paesi del Sud, che auspico voglia inaugurare la vita della tredicesima Repubblica italiana. Tra le misconosciute terre del vecchio Regno d’ Italia. Dove ancora è palpitante e viva la storia del paese, e qui vi sventola, sospinto dal grecale, aiutato dallo zefiro, corretto dallo scirocco, invogliato dal libeccio e ansimato dalla tramontana, il Tricolore. In mezzo alle vigne rosseggianti di Cirò, tra le sopravvissute vetuste aspromontane, al fianco dei volti coloriti dei carbonai delle Serre, in alto ai​ santissimi loricati del Pollino; da Montalto a Sant’Elia, da Mongiana a Soverato, da Mileto a Nicotera a Tropea, da Cariati a San Giovanni in Fiore, da Ferramonti a Tarsia, da Cerchiara a Laino Borgo.

Unità, Presidente. Unità Nazionale. Parità geografiche, uguaglianze territoriali. Meritocrazie estese, e identici progetti di formazione umana e professionale. Garanzie di identità. Formazioni e prestazioni omogenee nei confronti dei giovani, quale futura classe dirigente del paese, affinché siano tutti pronti e preparati per assolvere questo nobile compito, adornando la loro mente di condizioni utili che serviranno al loro domani per svolgere attività nel nostro paese. Così si espresse Sandro Pertini nel suo discorso all’Italia, il 31 dicembre del 1983. 

Sincerità di credo, Presidente, per il bene del paese. Condanna ferrea al concetto frammentario delle due Italie. Una e una sola ne celebra la Costituzione, e uno e uno solo è il popolo a cui essa parla, che tutela, garantisce e protegge. Una e una sola la legge, uno e uno solo il paese. Senza allusivi sinonimi e senza neppure i benché minimi contrari. Integrità e autoctonia. 

Di questo scrivo nei miei libri, nella mia opera di rigenerazione e valorizzazione del Sud del paese, che diventa perfetto e sincero palcoscenico di tutti i miei scritti. Delle mie poesie, dei miei romanzi. Perché quaggiù si torni a proteggere il fuoco e non si perseveri ad onorare le ceneri. 

Da cittadina italiana che vive al Sud, da madre calabrese che stringe gli occhi per non piangere vedendo i propri figli partire, distrarsi altrove, scrivo al Capo dello Stato, perché la sua parola alla Nazione, è la sola che non passa, essa, infatti, entra nel cuore della gente e lì vi resta. Si fa esempio, e si fa storia.  Per questo, chiedo a lei, che se ne parli, presidente. Della Calabria e del Sud. Si raccontino i sacrifici a cui la storia ci ha costretti, davanti alla quale non ci siamo mai tirati indietro.

Ci sono giorni in cui la paura che la mia terra chiuda per mancanza di tutto, è davvero tanta. A volte manchiamo proprio noi stessi, e tutto accade quando cresce, nella sfiducia dei cittadini, la percezione di essere nati già al confino. Di dover fuggire, doversi difendere. Ma anche questa è l’Italia. Anche qui, in questo fazzoletto di terra, si intona l’Inno di Mameli. E a volte anche con gli strumenti tradizionali. C’è una Calabria che l’Italia davvero ancora non conosce. Di cui non si preoccupa e che lascia dannatamente sola. E forse è per questo che la mia terra, disperatamente scalpita. E si incancreniscono i suoi abbattimenti e i suoi tormenti. 

Corrado Alvaro insegna che la disperazione più grande che possa cogliere una società, è dovuta al dubbio che vivere rettamente sia inutile. Io non l’ho questo dubbio, presidente. Ma i nostri ragazzi sì. E si perdono, si allontanano perché smarriti in un’Italia ancora troppo poco includente e molto di più inconcludente.  Quaggiù tante sono le lotte, e sono civili, politiche, culturali. Ma serve sostegno, e badi bene Presidente, sostegno, non assistenza. Considerazione, non approssimazione. Le battaglie culturali, molte delle quali mi vedono diretta protagonista, hanno bisogno di essere sostenute quando giungono sui tavoli di lavoro del governo centrale.

Attendo ancora nuove, io stessa, riguardo il Manifesto, di cui scrissi anche a lei, con cui noi calabresi, chiediamo al Ministro dell’Istruzione, una rielaborazione riguardo le linee guida, attraverso cui viene consigliato alla scuola lo studio degli autori italiani del ‘900, affinché al fianco dei siciliani Verga e Pirandello, vengano iscritti a regime, anche i nomi, almeno i più rilevanti, dei geni letterari calabresi, tra tutti Corrado Alvaro.

Lei stesso ha ricordato, proprio a Pizzo, in occasione dell’inaugurazione dell’anno scolastico 2021-2022, insieme al Ministro Bianchi, e nei confronti del quale mi piacerebbe si facesse portavoce, che proprio la scuola ha il compito di insegnare ai nostri ragazzi di diventare dei buoni cittadini italiani. Un concetto certamente condiviso, ma che però, dovrebbe far sentire italiani anche i ragazzi calabresi, passate le cerimonie ufficiali. Perché essere buoni italiani, significa anche poter essere protagonisti di questa Italia, e ognuno con la propria identità. 

Il professore Walter Pedullà, tra le voci viventi più rappresentative del ‘900 italiano, ricorda a sé stesso e a noi, che gli autori calabresi novecenteschi, hanno ognuno almeno un libro necessario per intendere all’italiano cosa è il Sud e cosa l’Italia. E se quello di Pedullà vuole essere un suggerimento, allora, questo è il momento giusto per essere accettato. E in regime di unità nazionale.

La Calabria ha bisogno di conoscere la propria storia, l’Italia la storia della Calabria. Entrambi percorsi necessari affinché le nuove generazioni, quelle della scuola appunto, vengano introdotte e intelligentemente all’Europa e al resto del mondo. 

Senza lo studio a scuola dell’epopea novecentesca italiana, narrata ‘anche’ dai calabresi, letti e tradotti in tutto il mondo, il paese mancherà sempre di un pezzo di storia essenziale, e gli studenti italiani verranno ripetutamente privati di una visone sociale, morale, civile e culturale, vera. Reale. 

Solo se diventa forte la scuola, diventa fortissimo il paese. Una proposta, quella lanciata dalla sottoscritta, che non ha forma individuale ma collettiva, e il cui valore non è limitante alle aree del Mezzogiorno, ma include il valore di unità. Riguarda l’Italia. Tutte le sue regioni. 

Un popolo per capirsi veramente deve conoscere i suoi artisti, altrimenti rimane indietro, diceva Saverio Strati. E la mia, anzi la nostra, caro Presidente, non è una proposta, ma la domanda attraverso la quale si chiede di dare ai nostri figli, la possibilità di un viaggio d’istruzione importante per la crescita personale e quella del paese.

Bene il Pnrr per la rinascita e la crescita economica dell’Italia, ma che si sviluppi con la sola formula dell’Unità Nazionale, tenendo conto che lo sviluppo economico è frutto di un altrettanto sviluppo culturale. Che se anche con la cultura non si mangia, con l’ignoranza si muore.

Il paese ha necessità impellenti che non possono più essere ignorate, e che non si orientano sulla base dell’esercizio del singolo, ma tracciano linee continue e comunitarie, dal Nord al Sud del paese e viceversa. 

La scuola, è necessario torni a essere la più fiorente industria produttiva d’Italia. Con un’offerta formativa completa. E la Calabria, con i suoi geni delle lettere deve tornare tra i banchi di scuola. Corrado Alvaro non può più aspettare. Per troppo tempo lo abbiamo tenuto distante dai programmi di crescita politica, culturale e sociale del paese, lui che è stato uomo mediterraneo e scrittore europeo. La depressione sociale del paese, è conseguenza anche di certe assenze. Di precisi mancati orientamenti. La scuola non può permettersi di coniugare al futuro le aspettative dei giovani studenti, ma è al tempo presente che deve imparare a parlargli. È oggi che deve fornirgli i mezzi necessari e giusti per esprimersi, proporsi, sentirsi protagonisti di un paese che ha voglia di crescere, e in esso crescere buoni cittadini del mondo.

Se le ricorda lei, presidente, le parole dure, pungenti e vive, che Corrado Alvaro mette in bocca al giovane Antonello, in quelle poche righe che chiosano il racconto Gente in Aspromonte?

«Finalmente potrò parlare con la giustizia. Ché ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio!».

Ecco, i ragazzi italiani devono conoscerle certe storie, leggerle, approfondirle, analizzarle, cercale nella storia, per acquisire la consapevolezza della vita, non essere colti dal dubbio che vivere rettamente sia inutile, processare, in modo positivo, la realtà in cui tutti noi viviamo, cercando di cambiarla. 

La letteratura è una buona maestra di vita. Ma l’offerta va ampliata. Va resa veritiera e totale.

Il Sud, caro Presidente, deve tornare protagonista, e non come luogo geografico, ma come parte del mondo, anche sui banchi di scuola, nei libri di testo, come è il resto del grande Nord. Un fatto storico, mi creda, che scriverebbe certamente l’inizio del vero riscatto culturale e sociale di una terra sempre calcolata impari e mai pari. E i ragazzi calabresi, li farebbe diventare definitivamente italiani

In un mondo che rischia di disperdere le memorie tra messaggi fatui e vuoti, conoscere le opere letterarie e gli Scrittori Calabresi significherebbe, prima di tutto, combattere l’apatia portata dalla dissolvenza del nostro senso di appartenenza. La letteratura calabrese se riportata a dimensioni nazionali (e nel caso specifico di Corrado Alvaro elevata a dignità europea) darebbe la spinta decisiva alla riconciliazione del Paese dell’unità malcerta. Ridurrebbe quella disuguaglianza culturale insopportabile, come tutte le disuguaglianze.

L’Italia, ha l’obbligo di disimpegnarsi categoricamente dal progetto dei malfattori, nel costruire un paese abitato da teste di legno come Pinocchio, e impegnarsi, invece, a favore dei tantissimi padri con il cuore di carne come Geppetto. Con il ventre materno e paterno della Repubblica che rappresenta. Il bene prevalente di onorata Madre Patria.

Il Tempo è un Dio breve, Presidente, arriva e passa. Ma è proprio nella sua irrefrenabile corsa che, insieme agli italiani, da buon padre di famiglia, dovrà Lei, scrivere ancora un altro pezzo di storia del paese. E’ una grande responsabilità, è vero, ma è altrettanto vero che la responsabilità è bellezza. E questo suo secondo mandato ne è praticamente testimone.

Se un giorno potessi incontrala per parlarle della mia terra e della mia gente, realizzerei un sogno; se un giorno potessi accompagnarla a fare un giro nella mia terra facendole conoscere la gente che mi appartiene, realizzerei un sogno.  Se un giorno accadessero entrambe le cose, ne realizzerei due. (gsc)

 

BEN RITROVATO PRESIDENTE MATTARELLA
VIGILI PERCHÈ CI SIA «PIÚ STATO» AL SUD

di MIMMO NUNNARI – Eletto (rieletto) il capo dello Stato, il galantuomo siciliano, il politico d’altri tempi, il cattolico Sergio Mattarella, e in vista, auspicabilmente, di profonde riforme istituzionali, capaci di ridisegnare il sistema istituzionale, l’occasione è buona per parlare di Stato, di Stato al Sud.

Lo Stato padre/madre, come dev’essere nelle democrazie, dovrebbe comportarsi con tutti i suoi cittadini alla stessa maniera:  riconoscendo i diritti di ognuno e pretendendo rispetto delle regole e dei doveri.

Ma è proprio così?

In Italia, paese dall’unità malcerta, piena di vizi d’origine che hanno penalizzato il Mezzogiorno, viviamo certamente in una democrazia, ma  non tutti i cittadini sono garantiti alla stessa maniera.

Facciamo appunto l’esempio del Meridione.

Al Sud, particolarmente in Calabria, che è sud del Sud, l’ultima regione d’Europa e allo stesso tempo la casa madre della mafia più violenta e potente de mondo, la Ndrangheta, lo Stato c’è e non c’è. È una presenza intermittente, una presenza incerta, figlia del dualismo, della frattura Nord Sud; di quelle anomalie  diventate nel tempo normalità in barba alle leggi, alla Costituzione, alle regole etiche e ai principi democratici.

Non a caso si parla, fin dai tempi di Giustino Fortunato, di “due Italie”, distanti, lacerate, e conflittuali.

È questo il nodo istituzionale non sciolto che si può sciogliere – ripete da sempre il meridionalista Sergio Zoppi – solo riportando la Calabria nel cuore dello Stato e il senso dello Stato nel cuore dei cittadini della Calabria.

L’affermazione, con lo stile elegante che contraddistingue Zoppi, storico cresciuto alla scuola di Spadolini, sottintende che la Calabria non è, e non è mai stata, nel cuore dello Stato, e che il senso dello Stato manca nella coscienza dei cittadini calabresi, o almeno in buona parte di essi.

Manca, il senso dello Stato, in Calabria, a torto o a ragione; per colpa dei calabresi, oppure perché i calabresi sono stati spinti alla disaffezione verso le istituzioni proprio dallo Stato.

L’auspicio di Zoppi è che le due “indifferenze”: centrali (dello Stato), locali (della regione), scompaiano con un’assunzione di responsabilità dello Stato verso il Sud,  e con una nuova consapevolezza di cittadini che fanno parte di un consorzio nazionale nei calabresi.

Sembra semplice, ma non è semplice, tutt’altro, tant’è che – in più di un secolo e mezzo dall’unità – l’operazione di “rammendo”, nei rapporti Stato Mezzogiorno, Calabria, che è ultima della classe, in particolare, non è stata mai fatta.

Una situazione di disparità territoriale del genere, sotto uno stesso manto costituzionale, non esiste da nessun’altra parte, in Europa e nell’Occidente.

Ed è una disparità che provoca disuguaglianze non solo in campo economico, civile e sociale, ma anche in quello sanitario, che è disuguaglianza più insopportabile, posto che da una buona o cattiva sanità dipende se la vita del cittadino è più lunga o meno lunga. Abbiamo continui esempi tragici di questa sanità di secondo livello in Calabria. È in queste disuguaglianze, racchiuse nei vizi d’origine del Paese, che si riscontra quel dislivello di “statalità” che continua a separare, in una continuità discriminatoria, Il Sud dal Nord. Quando, perciò, diciamo che al Sud lo Stato non c’è, o c’è poco, nessuno si senta vilipeso nei palazzi delle istituzioni.

Poiché,  se per presenza dello Stato, interpretiamo l’agire di un Governo che permette a tutti i suoi cittadini, indistintamente, di cambiare le condizioni sfavorevoli in cui sono nati e vissuti, lo Stato al Sud non c’è. Oppure c’è, nel ritornello stantio di ministri che quando accadono crimini feroci, che sbatacchiano le scrivanie dei palazzi romani, si affrettano a dire: “lo Stato c’è”.

Ma tutti, cittadini, amministratori locali, sindaci, movimenti civili, associazioni sanno che è una caritatevole oppure ipocrita bugia.  Li Stato, nei territori aggrediti dalla violenza mafiosa, non c’è; o se c’è, c’è poco; è lontano e distratto.

Fa il guardiano (è occhiuto, ma non governante, diceva un grande vescovo calabrese come Giuseppe Agostino) mentre le consorterie mafiose gli  sottraggono sovranità e tentano di sostituirlo.

Il film dello “Stato c’è”, in Calabria, e nel Sud, lo conosciamo bene: è un remake, e neppure dei migliori, poiché se per Stato c’è intendiamo uno Stato che delega esclusivamente a magistratura e forze dell’ordine la sua presenza, possiamo dire che si, un poco c’è, ma non è lo Stato che serve, intero, c’è uno Stato dimezzato. Manca la parte di Stato governante.

È solo uno Stato che affida (in realtà li abbandona al loro pericoloso destino) a magistrati e forze dell’ordine una battaglia difficile da vincere con la sola repressione: lo dicono anche i magistrati, che sono i più esposti sul fronte della lotta.

Più Stato al Sud e più senso dello Stato da parte dei cittadini, questo serve, ma oggi, non domani, quando sarà troppo tardi. Serve lo Stato che, nel rispetto della Costituzione, offra pari opportunità in tutti i campi e che non ceda alle cornacchie che gracchiano: “Al Sud, non vale la pena di fare niente, perché c’è la mafia”.

Tuttavia, benché la Calabria sia sempre stata tendenzialmente governata con una specie di spocchia coloniale, non sarebbe onesto attribuire solo a “nemici esterni” le colpe di un malessere che esiste anche per colpa grave degli stessi calabresi, per la inadeguatezza della classe dirigente regionale, per l’inconsistenza, salvo rare eccezioni, della classe politica e parlamentare.

Sarebbe un’imprudente semplificazione; un gioco che non fa altro che incrementare le patologia. Ciò non toglie che sono tanti gli interrogativi davanti a noi, ai quali occorre dare risposte.

Non è retorico chiedersi come chiudere l’annosa questione meridionale, passata, negli ultimi decenni, da questione nazionale, cioè di tutti, a questione criminale, che riguarderebbe, cioè, solo alcuni territori e una parte di cittadini del Paese.

Svanito il sogno dei profeti meridionalisti, di eliminare le disparità tra le due Italie, l’addio al Sud è diventato ideologico e politico, oltre che culturale, mentre l’economia “dualistica” si è sviluppata in un circolo conflittuale vizioso analogamente a quanto avvenuto sulla scia del colonialismo in altre parti del mondo.

Solo col completamento del percorso unitario, sarà possibile affrontare la questione delle “due Italie”. Ma bisogna fare presto: se una parte d’Italia (il Sud) s’inabissa, l’altra, il Nord, corre il rischio di ridursi al vecchio destino preunitario di nazione solo espressione geografica, col risultato che le regioni del Sud saranno sempre più esiliate, nella loro spaventosa condizione di deficit civile e di arretratezza economica, e le regioni del Nord continueranno a inseguire gli scenari di un separatismo impossibile,  dal punto di vista istituzionale, mascherato da una specie di secessione passiva (autonomie differenziate) che mina l’unità nazionale.

La nazione diventerebbe, così, definitivamente matrigna, per alcuni cittadini, e inquieta, senza identità, nonostante il benessere, per altri. Sarebbe il fallimento definitivo della nazione. (mn)

[courtesy Il Quotidiano del Sud]