di FRANCO CIMINO – È arrivato, puntuale sul nostro calendario civile, il primo anniversario di quella tragica notte ormai passata alla storia come la “strage di Cutro”. Da subito, istituzioni e mass media se ne sono appropriati per renderla occasione di commemorazione. Ovvero, di iscriverla in una delle tante giornate dedicate.
Tra Onu, istituzioni europee, Parlamento e governo italiano, non sai più dove metterle in quei 365 giorni già strapieni di celebrazioni, tanto che non sai dove collocare le altre che saranno considerate utili. Ma utili a chi? Non certo alla memoria “ da ricordare”. Non certo ai fatti e alle persone, da quella interessati. Non certo alla scrittura della storia, che si serve di ben altri strumenti, pur nel costante condizionamento della cultura operante nel tempo.
Serve, di certo, al potere. E ai poteri, piccoli e grandi. E alle persone, più piccole che grandi, che lo gestiscono o se ne servono. Il potere ha bisogno da sempre di simboli e di riti che lo celebrino per rafforzarsi. E conservarsi. Ovvero, per autocelebrarsi attraverso l’unica forza che ad esso serve. Il consenso del popolo. Si badi del popolo, e non genericamente della gente. La differenza non è di poco conto. Il consenso della gente è di natura elettorale. Occasionale, mobile, transeunte. Sottolinea sempre l’espressione di una parte. E non è sempre o tutta politica. Quello del popolo è solenne. Contiene un qualcosa di storico. Un senso di appartenenza identitario. Una speciale comunanza tra il popolo e i suoi governanti. Insomma, fa patria. Ed eleva il senso di nazione.
Pertanto, anche questa Cutro è chiamata a concorrere a questa ritualità nazionale. Artificiosa e retorica. Da grosso paese di periferia di una regione periferica e lontana, a città della bella Italia. Da imponente centro urbano dominato dalle diverse ‘Ndranghete, con la lunga scia di violenza criminale e di sangue versato, a suo esatto contrario. È questo, straordinario fatto (realizzato, involontariamente), se si vuole, mai, però, finora sottolineato), il dato che, tuttavia, emerge oltre il dramma incommensurabile della notte di un anno fa. Nel mare di Cutro.
A pochi metri dalla sua spiaggia. Da quel caicco che si è fatto in mille pezzi alla prima onda più forte, sono caduti in acqua tutti i centottanta poveri cristi che avevano attraversato quel breve-interminabile tratto di mare che separa le coste africane da quelle calabresi. Di quella piccola folla di disperati carichi di speranza ne sono morti 105. I sopravvissuti settantacinque. Cento i corpi recuperati. Degli altri nulla. Neppure un brandello di corpo, che ne testimoni non la fine, ma la loro presenza in vita. La loro presenza su questa terra. Anche se fatta di dolore acuto, di stanchezza infinita. Di umiliazioni e ferite indicibili. Come quelle della povertà estrema, che li porta a fuggire dalla propria terra. La terra senza pane e senza casa. Senza frutti e senz’acqua. Senza libri e senza penna.
La terra dove il sole non sorge mai e la luna si addolora troppo a uscire. E, perciò, non si fa vedere. E le ferite con le più pesanti umiliazioni, che questi poveri cristi subiscono quotidianamente nei lager in cui vengono imprigionati con la promessa, pagata a suon di dollari fumanti, di essere imbarcati, dopo mesi di traversata nel deserto, su una qualsiasi carretta che li porti chissà dove, purché fuori da quell’inferno. Violenze indicibili, in particolare su donne e bambini, delle quali non dico perché, sommerso da pianto e lacrime, smetterei di scrivere, immaginandole. Tutti morti, quei centocinque. E di una delle più morti più brutte. E beffarde. Morti annegati. A due passi dalla salvezza, la beffa. Con quel grido di gioia spezzato in gola. In mille pezzi, come la barcaccia che come scarti umani li trasportava. Quelle morti da strage quasi programmata da questa cattiva modernità, in cui egoismi e ipocrisia, fanno sì che siano considerate ineluttabili.
Al pari delle guerre, quasi necessarie per la pianificazione demografica. Otto miliardi siamo tanti in questo pianeta così piccolo. E siccome sono in eccesso, insopportabile, per le zone già di maggiore densità, il rischio che una parte, insopportabile, si riversi sulle zone progredite ma progressivamente spopolate, del mondo cosiddetto “ civile”, consente non solo che siano “ legalmente “respinti. Consente anche il rafforzamento di quella bassa cultura del giusto equilibrio tra ricchezza già posseduta da pochi e i bisogni delle popolazioni. Cioè di oltre sette miliardi di esseri umani sparsi in tutto il pianeta. E dalla povertà sempre crescente umiliati. Se ne muoiono in mare a migliaia è quindi fatto ineluttabile. Legge della natura. Quasi una necessità antropologica. La guerra, la sua filosofia becera, lo dice. E di tutte le guerre. La guerra per il pane e per la dignità, è una di queste guerre.
La più crudele. La più vasta e invasiva. Guerra, come quella guerreggiata, dei forti contro i deboli. Dei ricchi, questa, contro i poveri. Che poi è la stessa cosa. L’assuefazione facile e rapida del cosiddetto mondo “civile”, più che dall’abitudine progressiva all’orrore, è data dalla cultura dominante che ci ha preso tutto. Cuore, anima, mente. E memoria. E storia delle nostre origini. Delle nostre vite. A Cutro è accaduta una cosa straordinaria. Che le solennità di queste celebrazioni non dice. È accaduta una cosa imprevedibile. Da cattolico la chiamo miracolosa. Da laico, meravigliosa. La memoria del “Sè”, la persona ricca di dignità umana, si è incontrata con la memoria del “Noi”, la gente del Sud, che ha camminato lungo la storia di violenze e dominazioni, rapine delle proprie ricchezze e devastazioni delle ricchezze dei territori. Storie di partenze senza ritorni e di emigrazioni luttuose e amare. Storie di abbandoni e di promesse, di inganni e di tradimenti. Ma, di contro, storie di lotte e di coraggio, di orgoglio e dignità. Di volontà ferrea e di idealità alte. Del sentire profondo e del guardare lontano. Storie di sogni mai cancellati e di speranze inaffondabili. Di fiducia nella propria terra e nel cuore degli uomini. Storie di riscatto e di vittorie.
Quelle conquistate già. E quelle che uomini e donne del Sud si sono promesse. I pescatori e gli uomini di Cutro e di Botricello, che si sono gettati in mare salvando ottanta persone e pianto disperatamente quando tra le braccia si sono ritrovati i corpi di donne e bambini senza vita, sono quella Calabria di quel Sud. La Calabria che va oltre i suoi confini e quel Sud che si estende a tutti i Sud del mondo. In questi riconoscendosi non come uomini vinti o condannati dalle loro origini, territoriali e culturali, ma come umanità vera, portatrice dei valori umani inalienabili. Dinanzi a queste persone del Sud, come al cospetto dell’isola di Lampedusa e dell’intero popolo siciliano e come le stesse di Locri, Bovalino, Caulonia, Riace, Monasterace, Guardavalle, Catanzaro, e giù a scendere e a salire lungo la costa ionica, la costa degli antichi greci, la costa della Civiltà generatrice, tutto il Paese e l’Europa intera, devono inchinarsi.
Per ringraziarli tutti di un grazie enorme e sostanzioso. Un grazie fatto di gesti, questi sì solenni, come il conferimento da parte del Presidente Mattarella di una preziosa onorificenza all’anziana donna di Cutro che ha aperto la cappella di famiglia ai morti che non trovavano posto neppure nei cimiteri. Penso a gesti analoghi. Per esempio, mantenere gli impegni che il nostro governo ha preso con i sopravvissuti alla strage e con le famiglie dei morti “ uccisi” dall’emigrazione e dalle politiche che la malgovernano. Penso a una legislazione del Parlamento europeo che si muova severamente sulla sua Costituzione e attui con coerenza la legge del Mare. E lo spirito di libertà e fratellanza, che ha nell’accoglienza di tutti i diseredati il suo aspetto peculiare.
Esattamente tutto ciò che con forza chiedo faccia lo Stato Italiano e i suoi governi, ricordando al mondo intero di che pasta noi siamo fatti. Ripetiamolo, in questi tempi bui di divisioni e di strane tendenze alla manifestazione di una forza muscolare, dietro la quale si nasconde un debole senso della democrazia e un equivoca concezione dell’autorità dello Stato e dell’uso della sua forza legittima. Siamo fatti del sangue e del cuore della Resistenza, che ha abbattuto la tirannia e il totalitarismo fascista e impedito il sorgere di altri autoritarismi. Siamo fatti degli ideali della fratellanza e della giustizia, intesi come elementi essenziali della Pace.
E, questa, della Libertà, quale elemento costitutivo della Persona. Libertà che va riconosciuta in chi già la possiede e non concessa. Che va protetta e garantita negli spazi certi della Democrazia, che è il luogo in cui si realizza l’eguaglianza autentica. Tra le persone, le classi, le popolazioni. I territori. Le nazioni. Siamo fatti della Costituzione in cui alberga, nella sua forza laica, la cultura cristiana. Quella che, come dice Moro, che ci parla ancora, rinnova la società e libera l’uomo. (fc)