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IL RICORDO / Giusy Staropoli Calafati: l’11 giugno di 66 anni fa moriva Corrado Alvaro

Corrado Alvaro

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – L’11 giugno 1956, esattamente 66 anni fa, in una notte di pioggia battente sopra i tetti di Roma, quasi al principiare dell’estate capitolina, moriva nella sua casa di piazza di Spagna, Vicolo del Botttino n. 10, lo scrittore di San Luca, Corrado Alvaro. All’età di 61 anni, nel pieno della maturità umana e letteraria, ci lasciava uno dei più grandi autori del ‘900 italiano ed europeo. Quasi una vita dietro l’uomo e le parole dell’uomo, il suo nesso tra l’essere e il non essere, la convivialità tra la terra e il cielo, le affinità tra le radici e i frutti. Il paese che trattiene e la città che chiama, il conflitto tra la civiltà contadina sospesa e opprimente e il progresso attivo e galoppante. 

“E ora che gran parte della vita è vissuta, che cosa ti dirò ancora per ingannarti? Ma che cosa dirò per ingannare me stesso? Perché certamente ho ingannato non soltanto te, ma anche me. Senza volerlo, s’intende. Non avrei mai potuto pensare che ci sarebbe toccato di vivere al tramonto d’un mondo. Proprio, ti chiedo scusa. Certo è ridicolo che io ti chieda scusa del tempo, del secolo, dell’epoca, del mondo come va. Ma ogni uomo è responsabile del suo tempo”.  

Alvaro colpito da un brutto male, si spegne nel centro del mondo, a Roma, Caput Mundi, lontano dalla sua Calabria, in città, distante dal suo paese. Ma il paese per quelli come Alvaro è il mondo. Le radici, le uniche sole lenti per poterlo osservare. 

Non soffre i finali, Corrado Alvaro, nella vita come nei suoi scritti è sempre reale, affronta, non fugge, e si affida al tempo ovunque egli decide di far traghettare i corpi e le anime che in essi vivono. 

La notte dell’11 giugno del ‘56, è una lunga notte. Piove su Roma, accanto allo scrittore morente, Cristina Campo, la donna(poetessa e scrittirce) che con Alvaro stringe una forte e intensa amicizia proprio negli ultimi mesi della sua vita, a ridosso dell’aspettata morte. È ella infatti che lo accompagna al trapasso. È Cristina che veglia Alvaro disteso nel suo letto, in attesa insieme a lui che la sua “quasi una vita” si faccia “una vita intera”.

Il 28 maggio del ’56 Cristina Campo scrive alla sua amica Margherita Pieracci: “Cara Mita […] Alvaro non sta né meglio né peggio. Vado ogni giorno a vederlo. Spesso l’affidano a me, nel pomeriggio. Non parla che poco, ma ci intendiamo con gli occhi. Ciò che riesce a dire è importante. […] Anch’io gli dico certe cose. Spesso lo faccio ridere: e quando ride chiude gli occhi ed è bello. – come un intaglio cinese – quelle poche parole che dice sono scelte, da scrittori. Quando gli do un sorso d’acqua e gli chiedo se è fresca mi sussurra: ‘Perfetta’… Dorme con un sorriso un po’ ironico, sapiente. Io, nella poltrona, leggo un suo libro. Da un lato il corpo, assopito, lontano. Dall’altra lo spirito appassionato che parla. Tutto è come un papiro lacerato, un frammento: lo spazio vuoto terza dimensione e ciò che rimane di una eloquenza, una forza da far tremare”.

Alvaro aspetta il suo turno. È come un bosso. Il legno duro e compatto, simbolo della fermezza, della perseveranza e dell’immortalità. Il simbolo perfetto del ciclo della vita. 

La malattia che lo logora è tutto ciò che Dio ora ha dirgli. Almeno così sembra. Egli lo ascolta Dio, fa tesoro dei suoi misteriosi sussurri, dei miti e suggestivi racconti, dei soffi che gli attraversano il corpo a tratti già spento. 

Alvaro, come ogni uomo malato, anche ad occhi chiusi, rivede tutta la sua vita, domandandosi per cosa sia stato punito. E va alla ricerca dei suoi errori e delle sue colpe. È un uomo, ed è nell’ultimo atto lecito delle domande che contempla la sua esistenza. 

Scrive Leonida Repaci nell’Omaggio a Corrado Alvaro a un anno della sua morte: […] Questi grandi spiriti non si lascian chiudere nelle tombe, ma sono liberi di prendere qualunque forma, montagna mare stella vigna ulivo quercia. Diventa natura e canto, erba e luce, risacca bionda e stormire di ulivo alla brezza che viene dal mare. […] Egli farà la croce sul pane che esce caldo dal forno, si chinerà sulla culla a sorridere al bambino che nasce. Poi il giorno che la Calabria-madre si sveglierà dal suo incubo, si vedranno le foreste camminare ingemmate e immemori dell’antico incendio di Antonello. Tra queste foreste in prima fila, quercia o ulivo secolare, sarà Alvaro. Al canto della terra risorta egli unirà la sua voce fatta di un verde sussurrio di foglie.”

66 anni fa, quando la pioggia batteva in notturna sui tetti di Roma, come fosse un lungo applauso alla notte di Medea, Alvaro lascia le sue mani ormai appassite in quelle ancora giovani di Cristina Campo, e saluta la vita. 

[…] Ero là tutta l’ultima notte, per molte ore sola con lui. La Signora, quella notte, non era in grado di assisterlo. Ebbe il grande eroismo (per una donna della sua tempra) di rimanere quasi sempre distesa, nella sua stanza, pregando. Fu una notte molto lunga ho ancora negli orecchi il brusio della pioggia e il tuono del suo respiro fino alle 4,50. […] Non so dirle se n’è andato sereno. Dalle 20,30 non era più cosciente (non almeno alla nostra presenza). Se n’è andato ad occhi chiusi, dopo una lotta che appariva una suprema concentrazione. […] Aveva quando è spirato, la febbre a 41,7. Lo tenevo tra le mie braccia, già esanime mentre la donna che ci aiutava gli infilava il pigiama azzurro: e ancora bruciava, bruciava tutto come i bambini che dormono con la febbre…

All’alba era tutto in ordine. La signora ha potuto vederlo nella sua bellezza, giovane come ai tempi del loro matrimonio. Lo ricopriva una coperta bianca, il sole giocava fra le rose del comodino. […] “Come un luogo sacro e amato, qualcosa di terribile e maestoso che ci ha fatto soffrire…”. La Signora lo baciava sulle labbra, gli diceva con un sorriso: arrivederci caro.”

La nenia della Campo per Alvaro come quella di mamma Antonia per il figlio Corrado. Roma piccina e raccolta sotto il cupolone, come San Luca appoggiata sulla schiena della montagna. I colli come l’Aspromonte. Il cielo lo stesso su entrambi. La morte identica in ogni parte di essi.

[…] E quando l’uomo non troverà un nuovo sapore, non farà una nuova scoperta, in ogni suo atto, quando d’ogni sua azione prevederà l’esito finale, allora la vita è veramente finita, allora è la morte. (c.a.)

L’11 giugno del 1956, la Calabria perde con Alvaro, di tutte le sue cime, la più alta (Leonida Repaci). Il mondo perde l’uomo mediterraneo e lo scrittore europeo. 

Ieri era l’11 di giugno. Nessuna “Requiem si primavera”. Ricordo Alvaro nella sua dimensione di uomo e di intellettuale, di scrittore, di drammaturgo, regista e giornalista. E mi rattrista non tanto l’assenza fisica a cui la sua opera letteraria ben supplisce (uno scrittore non muore mai), quanto la consapevolezza che egli continuerà a morire l’11 giugno di ogni anno, fino a quando a ricordarlo, oltre i riconoscenti e gli estimatori, non sarà la scuola italiana, inserendolo tra gli autori del ‘900 da far studiare ai nostri ragazzi nei programmi di letteratura italiana. 

Finalmente, disse, potrò parlare con la Giustizia. Ché ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio. (da Gente in Aspromonte)

(gsc)

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