8 MARZO IN CALABRIA: ESSERE DONNE
LIBERE È UN GIOCO STRAORDINARIO

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Non si sceglie mai il posto dove si nasce, né cosa nascere in quel posto sconosciuto. Eppure se nasci donna e nasci in Calabria, piuttosto che altrove, verso il Nord dell’Italia per esempio, sei calabrese, sei donna e detieni già il mondo.

Che non è in alcun modo quel tradizionale motivo di peso che tutti pensano, né qualcosa che riguarda il corpo come nel linguaggio poetico, bensì la responsabilità innata delle donne del Sud, che è forza e coraggio, determinazione tipica di questa meravigliosa specie; prodezza ed eroicità delle donne nate nei luoghi impervi, a volte anche in cattività, dove la donna stessa, grazie alla sua temerarietà non cerca di essere celebrata, capeggia le celebrazioni, non chiede di essere festeggiata, festeggia le sue emancipazioni.

Come una colonna magnogreca, tiene alto il suo senso altissimo dell’ onore. E si fa perno nella vita della sua famiglia, centro e luogo nella dimensione in cui lavora, riferimento per le idee, i progetti, le più rispettabili e rispettose rivoluzioni.

L’8 marzo è una giornata celebrativa importante in tutto il mondo, eppure ricordo ancora mia nonna, rifiutare il ramoscello di mimosa che i figli maschi le porgevano. Era per i gerani lei, quelli che con il gambo più grosso e la foglia larga fiorivano tutto l’anno. Noi siamo così, diceva, mostrando la pianta che teneva interrata nel vaso di terracotta sopra il davanzale della sua finestra. Facciamo fiori tutto l’anno, ci apriamo alla vita, e non solo perché la diamo, e siamo di tutti di i colori.

Cresciamo piccole come i fiori minuti, ci facciamo grandi come i più forti e adorniamo le case, le strade, la vita stessa. Vedi la mimosa, potrei mai essere io come quel fiore? E’ solo gialla, sboccia soltanto a primavera, e poi finisce. Ha un ciclo breve. La pianta no, quella avanza, ma il fiore ha il tempo contato. Essere un geranio vuol dire esserci sempre, morto un fiore se ne apre un altro…, ed è così che siamo noi, eterne.

Mia nonna non si era mai arresa, neppure davanti alla forza fisica del marito, né di fronte alla durezza della terra. Si era emancipata con la forza della volontà, credendosi davvero ciò che era, stimando ella stessa il mondo che aveva come madre, moglie, contadina… Così sono state tutte le altre donne del Sud.

A partire dalla Melusina di Corrado Alvaro, alla Cicca di Saverio Strati; da Giuditta Levato a Marianna Procopio, da tutte le donne nate e non nate fino a me, che sento nel cuore l’8 marzo ogni giorno, anche se da qui, dal Sud, vinco o perdo. Perché con la mia vita in questo mondo, io non partecipo, gioco. Chi partecipa si sa, o perde o vince, chi gioca si diverte. E in Calabria, essere donne libere, è un gioco meraviglioso. (gsc)

MILETO (VV) – La scrittrice Giusy Staropoli Calafati incontra gli studenti

La scrittrice Giusy Staropoli Calafati incontra domani, a Mileto, alle 9.30, nell’Aula Magna dell’IC, gli studenti della secondaria di primo grado. Alle 11, invece, nella sala consiliare gli studenti della Ragioneria, alla presenza del sindaco della città.

Al primo incontro, inoltre, ci saranno i rappresentanti della Generali Vibo Valentia, Michela TulinoGiuseppe Portaro.

L’evento rientra nell’ambito di Piovono libri dall’impresa alla scuola, il progetto culturale dedicato alle scuole secondarie di primo e secondo grado.

Protagonista il libro Terra santissima della scrittrice Giusy Staropoli Calafati. Un progetto di lettura che attraverso la sensibilizzazione verso i temi dell’identità e dell’appartenenza, mette in connessione la scuola e l’impresa, la scuola e gli amministratori locali.

Dopo l’adesione dell’azienda Generali di Vibo Valentia grazie alla quale alla scuola media vengono donati 50 copie del volume, il sindaco Salvatore Fortunato Giordano ha inteso rendere protagonisti attivi di questo evento anche gli studenti dell’Istituto tecnico economico Galileo Galilei, donando loro altrettante copie del volume. Entrambe le scuole dopo aver letto il libro, averlo discusso e approfondito con i propri docenti, il prossimo 26 aprile incontreranno l’autrice.

«Sono sempre più convinto – afferma il sindaco della capitale normanna – che la cultura sia il motore di riscatto per i nostri giovani, e se dunque è forte la scuola è fortissimo il Paese». (rvv)

Un ricordo di Saverio Strati: avrebbe compiuto oggi 98 anni

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Il 16 agosto 1924. A Sant’Agata del Bianco nasce Saverio Strati. Il poeta muratore, lo scrittore contadino. Il maestro grato di Tibi e di Tascia, il calabrese che insegnò alla letteratura italiana come accendere una teda. Oggi avrebbe compiuto esattamente 98 anni, Saverio Strati. 98 all’anagrafe, per la vita tanti di più, se si considerano gli anni con cui la Calabria attribuisce a ognuno dei suoi una certa somma algebrica inclusiva degli anni di resistenza del paese a cui si appartiene e quelli infinitesimali de “I cari parenti” da cui si discende. 

Una vita capiente, abbondante di esperienze, viaggi, turni, mani in pasta e mani vuote, piccolo e grande Sud, e più vite con sogni di tornanza, nostalgie, miti, racconti e leggende, fiabe calabresi e lucane, in cui di Strati s’alzano il collo e la testa che su di esso si regge, del paese a lui caro, dei volti della madre e del padre, quello di Cicca e di Carmela, del Mezzogiorno in cui gli è capitato di nascere, il solo volo geografico a cui si è sempre sentito di appartenere. 

Sant’Agata del Bianco, piccolo borgo di pietra ai piedi dell’Aspromonte. Il niente e il tutto. La casa e la piazza, i muratori e i contadini, le adolescenze, gli infanti, le madri di paese, l’acqua nel bombolotto, i giochi alle nocciole. Il centro del mondo per Strati, lo spazio sacro, il posto originale in cui mai si contrae il desiderio d’esservi dentro, appartenervi col sangue e la carne, il sesso e l’anima. Il paese. La culla con precisi caratteri di geografia, il sepolcro con definiti elementi di storia. 

Il mio centro del mondo, come Recanati era il centro del mondo per Leopardi. Ogni cosa che io riesco a immaginare, in ogni cosa che io devo scrivere e ambientare, c’è quel pezzo di terra e quel pezzo di mare che mi stanno sempre davanti, che sono sempre dentro di me. Poi magari si può allargare e diventare Firenze, Milano, Zurigo, Francoforte, il mondo, ma il centro vero, il punto focale e vitale, la matrice è lì. Il vero unico personaggio che vive una sua vita autonoma, che si muove con padronanza è proprio quel pezzo di terra. Un buco di pochi chilometri quadrati della Calabria più povera, un pezzetto sperduto dell’estremo Sud d’Italia, un paesino al confine dell’Europa Mediterranea. tanto che io potrei esclamare: Sempre caro mi fu quest’eremo colle, ecc., ecc. …

Scrittore selvaggio e lazzarone, Saverio Strati, anticonformista, con una lingua diversa dalla lingua dei letterati. Mai copia conforme, solo stesura in originale. Poco avvezzo ai riflettori, voce pregnante priva di sconti, con verità sincere assicurate alla compostezza umana, e per questo sempre poco gradite alla menzogna. Agli artefici altrui. Degli stessi letterati, dubbiosi e altresì teatrali difronte alla coralità della vita.  

A molti la mia scrittura dà parecchio fastidio. Tanto meglio per me e tanto peggio per loro. Quando mi danno del selvaggio e del lazzarone non lo riferiscono alla mia persona, ma al mondo che esprimo. Essere lo scrittore dei lazzaroni e dei selvaggi mi fa piacere, perchè vuol dire che ho centrato un mondo-problema, un mondo-idea. I miei personaggi sono personaggi-problemi. Non sono personaggi con la carta di identità in tasca, con un reddito annuo, con relazioni col mondo degli affari o col mondo delle cortigiane. Sono creature che si affacciano alla storia e che capiscono che anche loro ne possono fare la loro parte, da protagonisti e non più da servi. A chi non intende questo, i miei libri non piacciono. Non interessano infatti alla piccola borghesia che si nutre di storielle di coppie che si cornificano fra di loro.

Uomo di paese e uomo in viaggio. Scrittore periferico e non di periferia. Strati doppia il senso dell’umano, si esprime nella vita e nella scrittura. Per coscienza e credo si dissocia dalla “periferia” quale incapacità dell’individuo di riuscire a trovare il nocciolo del proprio essere. Gli uomini fanno parte dell’essere universale, dice Saverio Strati, ed è esattamente quando trovano il nocciolo del proprio essere, che si riscoprono dentro l’universale: Viviamo su un pianeta che ha la forma di una sfera e la sfera non ha periferie. Ogni punto della sfera si trova alla stessa distanza dal centro. […] Noi calabresi non siamo scrittori periferici. Siamo scrittori nati in Calabria, ma nella nostra opera c’è qualcosa che fa parte del mondo degli uomini. I nostri libri, le nostre storie non sono affatto espressione di un mondo periferico.

Nell’opera di Strati c’è il mondo e basta. Con i suoi carichi di pregi e difetti, i limiti della bruttezza e le massime bellezze. E poi vi sono gli uomini e il loro disagio, le donne e la loro sacra maternità. V’è il linguaggio assoluto dell’universale.

Saverio Strati entra di petto nella letteratura italiana. E ne viene completamente assorbito come se le lettere fossero da tempo in attesa di uno scrittore così assoluto e per completare il ‘900 culturale italiano. I suoi libri vengono tradotti nel mondo, premiati ovunque. Dal Campiello al Veillon, dal premio Napoli al premio Sila. E nonostante le sue “discusse” origini calabresi. Un’appartenenza che l’Italia fa pesare a suo carico quasi fosse una colpa, ma di cui egli non si sposta, anzi la presenta come prima radice e massimo orgoglio. 

Essere calabrese, per Strati, non è limite ma vantaggio. “Calabrese” non è per lo scrittore un puerile aggettivo e basta. C’è davvero tanto di più in questa parola che ovunque lo identifica. Lo bolla, lo marchia (uomo e intellettuale di qualità). Alcune volte con un dito puntato contro, altre con tutta la mano. Calabrese è una dimensione umana regionale che lo stesso scrittore ama. Sente sua.

Io sono contento ogni volta che di me scrivono “il calabrese” o quando addirittura mi dal del calabrese. Sono orgoglioso di essere calabrese davanti a chiunque, perchè ho la piena coscienza di aver compiuto qualcosa… Una delle prime volte che capitai a Milano nella sede della Mondadori, negli anni ’50, un dirigente settentrionale che ra stato in vacanza in Calabria mi disse: “Voi calabresi siete dei veri uomini: dei saggi, la vostra parola conta di più di un atto notarile”. Io rimasi fuor di me dalla gioia a sentir dare questo giudizio così positivo della nostra gente, di noi tutti.

La Calabria diventa per Strati il tutto di Tutta una vita (questo il titolo dell’opera pubblicata postuma). E senza farle sconti, senza cercare alibi, ma bensì proponendosi come obiettivo quella sacrosanta verità che le appartiene, l’unica in grado di portare a un possibile rimedio a quelli che sono gli effetti critici che a tutt’oggi impediscono a questa regione, nonostante la bellezza di cui dispone, di sbarcare il lunario.

Aveva ancora solo 60 anni Strati, quando si trovò a dover discutere della Calabria, terra ricca di bellezza, povera di lavoro. E le sue osservazioni sembrano essere un vero manifesto politico, a tutt’oggi urgentemente da considerare: Non siamo stati capaci, credo questo sia il nostro limite, di creare lavoro. Non siamo dei creatori di lavoro. Siamo rimasti dei contemplativi. Nel passato questo era un pregio, oggi veramente è un difetto che definirei drammatico. […] Bisogna imparare a usare la mente insieme alle mani. Avere capacità di iniziativa privata. Se non siamo capaci di avere questa iniziativa imprenditoriale, se non saremo capaci di creare lavoro, è inutile sperare che venga lo Stato a crearcelo. […] Il lavoro dobbiamo crearlo noi. Qualsiasi tipo di lavoro onesto.  Può essere quello agricolo o quello turistico. Quello turistico potrebbe essere attivo in tutte le stagioni, quaggiù.  […] E’ sul turismo che bisogna puntare: fare un turismo intelligente e competitivo: ché se qui mi fanno pagare 100 mila lire per una camera e pensione e a Cattolica o a Viareggio ne pago 70 mila, bé in questo caso me ne vado a Cattolica o in Versilia dove sono tanti più attrezzati, dove ci sono più divertimenti. E da oggi, c’è da aggiungere, vi sono anche i Bronzi di Riace.

Saverio Strati, la Calabria, non la scrisse soltanto, la visse soffrendola. Con attaccamento spasmodico. Giorno dopo giorno. Su Ponte Vecchio guardava L’Arno, pensava allo Jonio e piangeva. Il suo è uno sguardo sincero che esce dai libri, e si pone al centro della vita dei paesi e degli uomini che in essi abitano e ivi vivono la loro storia. Oltre la metafora, si sofferma sulla realtà. La Calabria come fenomeno non solo geografico, geologico, ma come fenomeno storico. […] Una realtà sociale e storica a cui guardare realisticamente.

Ri-leggere Strati, a 98 anni dalla sua nascita, oltre il piacere della lettura porta con sé la necessità del sapere. Come leggere uno scrittore nato oggi. 

Attualizzare la letteratura è un compito a cui siamo tutti chiamati. Un processo necessario per non restare indietro. In Calabria ancor di più rispetto al resto del mondo.  (gsc)

L’ opinione della scrittrice Staropoli: Altro che festa, dei Bronzi sembra non importi a nessuno…

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Per recuperare l’identità morale, sulle basi della sua storia e della più intima tradizione, la Calabria ha bisogno necessariamente di uscire dal limbo della “strafottusissima” rassegnazione. Quello stato immateriale in cui si decompone miseramente ogni forma vita. È necessario, alla resistenza della specie, ch’essa si scolli nell’immediato dalla parte estrema del suo contorno grigio, e ritorni a vivere al centro dei colori. Distante dallo stato, che è luogo, onde stridono, dopo la vita, i morti col debito del peccato originale. È con la fine della condizione incerta e sospesa, che comincia l’assolutezza della determinazione. Diventare una regione credibile e affidabile. Un marchio di garanzia e un bollo di qualità, in grado di misurare la propria forza oltre il Pollino.

La grandezza di un Paese, infatti, non si quota sul suo stesso livello (regionale), ma su uno avanzato (nazionale e internazionale). Le capacità, le forze, le idee hanno bisogno di essere dimostrate. I valori, hanno necessità di essere praticati. E il coraggio di porsi a confronto, va censito. Alla presenza di nuove occasioni, queste non vanno mai ritornate al mittente, esse vanno colte e sfruttate. Rifiutata categoricamente, invece, va l’assistenza. È assistito, infatti, chi ha bisogno di cure, prestazioni, aiuto, soccorso. Un povero, quando non mistifica la sua povertà, non chiede mai l’elemosina. Ecco, la dignità di un popolo è frutto del suo lavoro. Della sua resistenza. Lavorare con dignità è un atto rivoluzionario, che non devono affermare le guerre, o i regimi totalitari, ma lo stato assoluto della democrazia. La Calabria, dunque, è una terra che va difesa, ma non compatita. E o si rialza la testa tutti quanti siamo, tutti insieme, adesso, o in questa terra, cara e amara, giunta è l’ora di chiudere le case, abbandonare le terre, mettere i lucchetti alle porte dei palazzi, ammainare le bandiere, scendere i lenzuoli bianchi dalle pareti dei comuni, imbavagliarle la storia, e partire. Al passo de Il canto dei nuovi migranti. In massa. Lasciandoci alle spalle il Pollino, i due mari, e anche la nostalgia.

Ma cos’è che passa davvero nella testa dei calabresi? Qual è la rotta che segue la nostra ragione? E perché a un certo punto del nostro cammino insieme, chi devia e chi abbandona?

Nonostante montano in noi, più vive e vivaci che mai, le fantasie degli dei, milioni di macchine targate Magna Grecia, lasciano il nostro paese. E chi esce, lo si sa, non torna più. Vi sono sirene ammalianti ovunque oramai, e il canto che stilla dalle loro bocche, è talmente lieto e grato da confondere ogni genere di gratitudine nei confronti delle patrie natali, con la più perfida e irrazionale sconoscenza.

Noi del Sud, ci siamo sempre lodati e imbrodati da soli, come gli infanti, cullandoci a modo nostro sulla classicità delle nostre radici. Che però non abbiamo mai convintamente mantenuto né gratificato.

Se dunque i panni sporchi si lavano in famiglia, io è che con noi (calabresi) che vorrei, non certamente sciacquarmi la coscienza, ma moderare, se possibile, quella collettiva che, o la si prende in carico tutti, o la si manda al macello.

Il giorno della Calabria, che è ogni giorno della sua storia, apre scenari su scorci romantici e straordinari, è vero, ma il danno che diventa beffa, e di cui noi calabresi è necessario ci riconosciamo primi responsabili, è che dagli stessi panorami romantici e straordinari essa si dissocia inesorabilmente. E non è che abdica, ripudia. E piuttosto che riconoscersi nella bellezza che per bontà del Creatore possiede, si dimena nelle annose diavolerie che sempre più l’hanno crocifissa, rilegandola al confino. Che Mentre Pavese, per esempio, in Calabria, al confino, in quel di Brancaleone, ci venne sì punito, ma con la bontà di riflettere su di sé e su di noi e sul resto dell’umano, allestendo pagine poetiche indimenticabili, essa si sconfessa inimicandosi persino la sua stessa storia, e sciupando, tra le altre cose, come fosse un capriccio da bambinetta, ogni bella stagione del suo tempo. Persino la sua maternità sacramentata. Il conto, infatti, in quest’attuale primavera, è proprio ai suoi due principali “patriarchi greci” che lo presenta. E quello che si ritrovano a pagare i Bronzi di Riace, per i cinquant’anni dal loro ritrovamento in mare, è davvero caro e amaro. Altro che festa! Niente versamenti in moneta, ma di sangue. Un massacro, se quantificato sulla base del loro splendore, o anche solo una tantum sulle tariffe del loro storico e artistico valore che, forse, meno male gli avrebbe fatto vedersi ributtare in mare.

Il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, che ospita i due storici guerrieri, manca di personale nella sua gestione. Accogliere i visitatori diventa un’impresa titanica. Tanto da dover sospendere la programmazione prevista per il mese di aprile. L’ouverture alla grande festa. Una questione quasi onirica, e che non saprei se raccontare più come dolore o come vergogna.

La solitudine inflitta alla storia è deplorevole, di più se indotta da una seria mancanza di presa di coscienza e di responsabilità.

Davvero bisognava arrivare fino a qui, a che il calendario segnasse cinquant’anni di scoperta, per essere colti impreparati? Ricordo, con molta onestà di patria, all’intero paese, che i Bronzi di Riace rappresentano una delle più grandi e valorose fortune del nostro patrimonio artistico culturale. Dunque, per una questione di giustizia storica e sociale, sarebbe bene capire a chi è che possa infastidire il dare adeguata riconoscenza alle due statue di bronzo. All’Italia, forse? Ai grandi musei nazionali, sui quali l’attenzione potrebbe venire meno? Alla ‘ndrangheta? A chi? A chi?

Le risposte potrebbero essere svariate, delle più varie, ma tutte, in egual misura, andrebbero a confluire nell’insieme comune. E dunque c’è una verità che emerge su tutte le altre: “dei guerrieri non importa niente a nessuno”. Nè all’appartenenza né all’identità né alla morale. Neppure ai calabresi stessi che, come i minchioni accozzano, e col basto carico di fottuta ignoranza, vanno avanti a testa bassa. E più il nervo frusta, più vanno. “To’, bestie! Bestie siete!”

Per l’ennesima volta, e duole forte il cuore, ci macchiamo di colpe grandi nei confronti della nostra stessa storia. E credetemi, un mazzetto di “soldanella” non sarà mai abbastanza per ricordarci chi siamo stati, chi siamo e chi “forse”, un dì, saremo. (gsc)

IL RICORDO / Giusy Staropoli Calafati: l’11 giugno di 66 anni fa moriva Corrado Alvaro

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – L’11 giugno 1956, esattamente 66 anni fa, in una notte di pioggia battente sopra i tetti di Roma, quasi al principiare dell’estate capitolina, moriva nella sua casa di piazza di Spagna, Vicolo del Botttino n. 10, lo scrittore di San Luca, Corrado Alvaro. All’età di 61 anni, nel pieno della maturità umana e letteraria, ci lasciava uno dei più grandi autori del ‘900 italiano ed europeo. Quasi una vita dietro l’uomo e le parole dell’uomo, il suo nesso tra l’essere e il non essere, la convivialità tra la terra e il cielo, le affinità tra le radici e i frutti. Il paese che trattiene e la città che chiama, il conflitto tra la civiltà contadina sospesa e opprimente e il progresso attivo e galoppante. 

“E ora che gran parte della vita è vissuta, che cosa ti dirò ancora per ingannarti? Ma che cosa dirò per ingannare me stesso? Perché certamente ho ingannato non soltanto te, ma anche me. Senza volerlo, s’intende. Non avrei mai potuto pensare che ci sarebbe toccato di vivere al tramonto d’un mondo. Proprio, ti chiedo scusa. Certo è ridicolo che io ti chieda scusa del tempo, del secolo, dell’epoca, del mondo come va. Ma ogni uomo è responsabile del suo tempo”.  

Alvaro colpito da un brutto male, si spegne nel centro del mondo, a Roma, Caput Mundi, lontano dalla sua Calabria, in città, distante dal suo paese. Ma il paese per quelli come Alvaro è il mondo. Le radici, le uniche sole lenti per poterlo osservare. 

Non soffre i finali, Corrado Alvaro, nella vita come nei suoi scritti è sempre reale, affronta, non fugge, e si affida al tempo ovunque egli decide di far traghettare i corpi e le anime che in essi vivono. 

La notte dell’11 giugno del ‘56, è una lunga notte. Piove su Roma, accanto allo scrittore morente, Cristina Campo, la donna(poetessa e scrittirce) che con Alvaro stringe una forte e intensa amicizia proprio negli ultimi mesi della sua vita, a ridosso dell’aspettata morte. È ella infatti che lo accompagna al trapasso. È Cristina che veglia Alvaro disteso nel suo letto, in attesa insieme a lui che la sua “quasi una vita” si faccia “una vita intera”.

Il 28 maggio del ’56 Cristina Campo scrive alla sua amica Margherita Pieracci: “Cara Mita […] Alvaro non sta né meglio né peggio. Vado ogni giorno a vederlo. Spesso l’affidano a me, nel pomeriggio. Non parla che poco, ma ci intendiamo con gli occhi. Ciò che riesce a dire è importante. […] Anch’io gli dico certe cose. Spesso lo faccio ridere: e quando ride chiude gli occhi ed è bello. – come un intaglio cinese – quelle poche parole che dice sono scelte, da scrittori. Quando gli do un sorso d’acqua e gli chiedo se è fresca mi sussurra: ‘Perfetta’… Dorme con un sorriso un po’ ironico, sapiente. Io, nella poltrona, leggo un suo libro. Da un lato il corpo, assopito, lontano. Dall’altra lo spirito appassionato che parla. Tutto è come un papiro lacerato, un frammento: lo spazio vuoto terza dimensione e ciò che rimane di una eloquenza, una forza da far tremare”.

Alvaro aspetta il suo turno. È come un bosso. Il legno duro e compatto, simbolo della fermezza, della perseveranza e dell’immortalità. Il simbolo perfetto del ciclo della vita. 

La malattia che lo logora è tutto ciò che Dio ora ha dirgli. Almeno così sembra. Egli lo ascolta Dio, fa tesoro dei suoi misteriosi sussurri, dei miti e suggestivi racconti, dei soffi che gli attraversano il corpo a tratti già spento. 

Alvaro, come ogni uomo malato, anche ad occhi chiusi, rivede tutta la sua vita, domandandosi per cosa sia stato punito. E va alla ricerca dei suoi errori e delle sue colpe. È un uomo, ed è nell’ultimo atto lecito delle domande che contempla la sua esistenza. 

Scrive Leonida Repaci nell’Omaggio a Corrado Alvaro a un anno della sua morte: […] Questi grandi spiriti non si lascian chiudere nelle tombe, ma sono liberi di prendere qualunque forma, montagna mare stella vigna ulivo quercia. Diventa natura e canto, erba e luce, risacca bionda e stormire di ulivo alla brezza che viene dal mare. […] Egli farà la croce sul pane che esce caldo dal forno, si chinerà sulla culla a sorridere al bambino che nasce. Poi il giorno che la Calabria-madre si sveglierà dal suo incubo, si vedranno le foreste camminare ingemmate e immemori dell’antico incendio di Antonello. Tra queste foreste in prima fila, quercia o ulivo secolare, sarà Alvaro. Al canto della terra risorta egli unirà la sua voce fatta di un verde sussurrio di foglie.”

66 anni fa, quando la pioggia batteva in notturna sui tetti di Roma, come fosse un lungo applauso alla notte di Medea, Alvaro lascia le sue mani ormai appassite in quelle ancora giovani di Cristina Campo, e saluta la vita. 

[…] Ero là tutta l’ultima notte, per molte ore sola con lui. La Signora, quella notte, non era in grado di assisterlo. Ebbe il grande eroismo (per una donna della sua tempra) di rimanere quasi sempre distesa, nella sua stanza, pregando. Fu una notte molto lunga ho ancora negli orecchi il brusio della pioggia e il tuono del suo respiro fino alle 4,50. […] Non so dirle se n’è andato sereno. Dalle 20,30 non era più cosciente (non almeno alla nostra presenza). Se n’è andato ad occhi chiusi, dopo una lotta che appariva una suprema concentrazione. […] Aveva quando è spirato, la febbre a 41,7. Lo tenevo tra le mie braccia, già esanime mentre la donna che ci aiutava gli infilava il pigiama azzurro: e ancora bruciava, bruciava tutto come i bambini che dormono con la febbre…

All’alba era tutto in ordine. La signora ha potuto vederlo nella sua bellezza, giovane come ai tempi del loro matrimonio. Lo ricopriva una coperta bianca, il sole giocava fra le rose del comodino. […] “Come un luogo sacro e amato, qualcosa di terribile e maestoso che ci ha fatto soffrire…”. La Signora lo baciava sulle labbra, gli diceva con un sorriso: arrivederci caro.”

La nenia della Campo per Alvaro come quella di mamma Antonia per il figlio Corrado. Roma piccina e raccolta sotto il cupolone, come San Luca appoggiata sulla schiena della montagna. I colli come l’Aspromonte. Il cielo lo stesso su entrambi. La morte identica in ogni parte di essi.

[…] E quando l’uomo non troverà un nuovo sapore, non farà una nuova scoperta, in ogni suo atto, quando d’ogni sua azione prevederà l’esito finale, allora la vita è veramente finita, allora è la morte. (c.a.)

L’11 giugno del 1956, la Calabria perde con Alvaro, di tutte le sue cime, la più alta (Leonida Repaci). Il mondo perde l’uomo mediterraneo e lo scrittore europeo. 

Ieri era l’11 di giugno. Nessuna “Requiem si primavera”. Ricordo Alvaro nella sua dimensione di uomo e di intellettuale, di scrittore, di drammaturgo, regista e giornalista. E mi rattrista non tanto l’assenza fisica a cui la sua opera letteraria ben supplisce (uno scrittore non muore mai), quanto la consapevolezza che egli continuerà a morire l’11 giugno di ogni anno, fino a quando a ricordarlo, oltre i riconoscenti e gli estimatori, non sarà la scuola italiana, inserendolo tra gli autori del ‘900 da far studiare ai nostri ragazzi nei programmi di letteratura italiana. 

Finalmente, disse, potrò parlare con la Giustizia. Ché ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio. (da Gente in Aspromonte)

(gsc)

Il successo di Jova è anche merito del regista calabrese Giacomo Triglia

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – La Regione Calabria e compagnia bella calabrese, celebrano un  “magno” Jovanotti per aver glorificato nel suo nuovo videoclip, la “Calabria meravigliosa”.  Razza di ipocriti!

Ancora una volta i calabresi nemici dei calabresi stessi. E vengo alla questione. È un fatto di onestà intellettuale.

Jovanotti, nella “questione Calabria”,  non ha altro merito se non quello di essere una grande star, un buon capitano, un grande comunicatore, e un esageratamente bravo cantante, e come tale essere lui il protagonista assoluto del bellissimo videoclip di “Alla Salute”, una molto bella e orecchiabile canzone che promette speranza e auspica rinascita. Così sincera e felicemente augurale soprattutto per la terra in cui il videoclip è stato girato. Chapeau!

Chi davvero celebra la Calabria, però, non è propriamente lui. E mi spiace per i ciechi, i sordi e i muti, che oltre non riescono a  vedere, sentire e dire, ma Il merito di questo elogio alla Calabria, nella sua forma più autentica, quasi viscerale, va riconosciuto altrove. A Giacomo Triglia . Il regista del videoclip. 

Triglia, in possesso delle sue autentiche radici, volte a mezzogiorno, con garbo, professionalità, competenza, e soprattutto conoscenza, sceglie i luoghi e li fa rivivere, come Ulisse con Itaca,  al suono di un inno lodevole che li carica di ulteriore sensazionale magia. Triglia individua Scilla e Gerace perché sa come narrarle. Non ha bisogno di istruzioni di come vivere la Calabria. Egli possiede la reminiscenza di Platone, conosce perché ricorda.  Jovanotti da solo si sarebbe fermato al fascino apparente. 

Magari una reminiscenza e basta. 

È Triglia che consegna al mondo la Calabria nelle sue fattezze umane. È lui che racconta i miti e le leggende. Il mare di Scilla, la banda di Gerace, i giganti Mata e Grifone. Jovanotti non avrebbe mai saputo fare questo miracolo da solo, sarebbe stata una muccinata garantita anche questa. La Calabria va conosciuta per essere interpretata, promossa, narrata. E Giacomo Triglia è calabrese.

E se la Calabria meravigliosa c’è, nel videoclip di Jova, e questo lavoro cinematografico ha la forza e la capacità di farsi addirittura spot di promozione turistica, è merito suo. Jova lo sa e soprattutto lo sceglie e lo esalta, Giacomo Triglia. Solo che la sua Calabria non lo celebra. E se lo fa è poco e niente. A riconferma del suo vecchio modo di fare nell’essere amante dei forestieri.

Io propongo un esame di coscienza di “certi” calabresi. E poi Giacomo Triglia alla promozione di questa terra. Altro che Jova testimonial del 50° del ritrovamento dei Bronzi, con tutto il rispetto che ho per lui, di cui mi dichiaro sfegatata fans. Ma a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio.

I nostri talenti, le nostre eccellenze vanno fuori. Si affermano. Quando tornano onorano la nostra Calabria, la celebrano e noi a fare il plauso a chi li accompagna.

Un po’ di orgoglio. E che cazzo!

Jova è Jova, ma Triglia è Triglia. (gsc)

TERRA STRAORDINARIA, MA TRASCURATA
CON IL PESO DI UN’IDENTITÀ CHE FA INVIDIA

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Se dovessi scrivere alla Calabria, scriverei a me stessa, allora scrivo ai calabresi, e più precisamente a quelli che, con nomine amicali il più delle volte, siedono in Cittadella regionale o giù di lì. 

Scrivo al Presidente della Regione Calabria e alla sua Giunta. Ai social media manager a cui è affidata la promozione regionale, e a quanti per “bontà dei cuori sciancati di questo e di quello”, si trovano nel circuito a correre la corsa per ogni genere di poltrona dirigenziale.

Cari voi tutti,

Vi scrivo perché se nascere in Calabria non si sceglie, essere calabresi sì. E la domanda che mi preme di porvi al quanto discreta, è la seguente: “Che genere di calabresi siete?”

Troppo qualunquemente viene trattata questa terra, ed io d’essere complice di questa ingratitudine, non me la sento. E mi dissocio. Sempre dalla parte della Calabria, ma non obbligatoriamente da quella dei calabresi (nemici dei calabresi stessi). 

Quando venne istituito il concetto di “terra dei padri”, nel 2021, dentro di me profondamente radicato partire dal ’78, che è l’anno in cui nacqui, e testimoni ne sono i miei scritti e le mie battaglie, sentii fiorirmi il cuore di soldanella. All’epoca nessuno o pochi sapevano cosa fosse questo fiore.  Ma io fiorivo dentro di me, perché la Calabria, che come aveva scritto Edward Lear ha già nel suo nome tanto di romantico, sembrava finalmente, voler riconquistare la propria identità perduta, riscoprendosi quel che è sempre stata: “terra dei padri”. 

I risvolti, però, furono deludenti e tristi. La terra dei padri, venni a scoprire mano mano, era una mera propaganda commerciale che mai poteva coincidere con la verità umana e morale, civile e culturale della Calabria. Serviva un approfondimento che non c’era stato. 

I 100 marcatori distintivi identitari con cui la terra dei padri intendeva proporsi al resto del mondo, facendo conoscere la propria storia, mancavano di tanti pezzi importanti. Dalla Certosa di Serra San Bruno, alla voce di Corrado Alvaro, ai giganti processionali Mata e Grifone, al Codice Romano Carratelli, e così via. 

Mi chiesi cosa fosse l’identità per la politica regionale. Se questa fosse una pratica manuale corrispondente al sogno di un pugno di amici, o invece l’urgente necessità di un intero popolo volta al bene di un’intera regione. Perché vedete, il resto del mondo, e lo sappiamo bene tutti, non aspetta altro che farci il culo, e quando la mancanza non c’è se la inventa. Figurarsi a servirla su un piatto d’argento. E non c’è da andare molto lontano. 

Tutti o quasi abbiamo avuto il piacere, io profonda ripugnanza, di leggere quanto nei giorni scorsi è stato pubblicato su “Visit Veneto”. Una campagna pubblicitaria che pur di sponsorizzare i siti veneti, denigra addirittura la Magna Grecia, definendola rovina. Una propaganda certamente ignobile, fatta sulla pelle della Calabria, ma ahimé, malgrado la ciotìa dei calabresi, la cui amministrazione si presenta sempre più approssimativa, improvvisata e qualunquista.

Alla Calabria Film Commission, mandiamo uno stilista. E sapete perché? Lui stesso lo dice: sono un grande amico del Presidente Occhiuto. Non avevamo per caso eccellenze a cui affidare la nostra cinematografia? Hai voglia se ne abbiamo. Forse ci rompevamo solo il cazzo ad andarle a cercare, individuarle, intercettarle. Ma che fesserie che andiamo facendo, e che perdite che facciamo gravare su noi stessi. Sul presente, sul futuro, sulla nostra storia. Sui nostri figli.

Per il 50° dal ritrovamento dei Bronzi di Riace, viene presentato un logo che, per dirlo alla Sgarbi, fa davvero cagare. “Capre, capre, capre”. Non potevamo bandire un concorso internazionale, per la creazione di un logo unico, coinvolgendo grafici da tutto il mondo? 

Ci sono errori che qui si compiono, e che si continuano ostinatamente a reiterare, e che la terra dei padri la trasformano in terra dei ciucci. E quelli come Zaia, lo sanno bene che a lavare la testa al ciuccio, si perdono acqua e sapone. E allora infilano il coltello nella piaga. Tanto sanno che noi sappiamo bene come fare a essere la piaga di noi stessi. 

Ma quando arriverà mai il giorno della Calabria? Con tutto quanto abbiamo, ci saremmo dovuti mangiare il mondo. E invece rieccoci qui, ancora una volta, a fare i conti con l’incapacità, l’approssimazione, le offese gratuite… Davvero magre consolazioni per chi nella Calabria crede e investe tutto ciò che ha. L’anima, lo spirito, il lavoro, i risparmi, la storia, la famiglia, la terra. Tutto. 

I padri dovevano essere l’esempio, la strada, il percorso, il viaggio. La rinascita, lo sviluppo, il riscatto. Con essi e per essi, bisognava partire dal concetto di Calabria come magnissima Colonna, dispensatrice di doti e di doni. Con uomini e donne a difesa della sua storia.

Una Calabria identitaria vera dunque, che sin dai nastri partenza abbia il vantaggio di appoggiarsi allo stato d’animo di chi la governa, e non sulle poltrone su cui ci si siede per governare. 

Avete idea, Presidente, assessori, consiglieri, dirigenti, ecc. di quanto genio dispone questa terra?

Io sì! Non avrei redatto altrimenti il Manifesto inviato al Miur, e anche alla Regione (da cui attendo ancora risposta), affinchè gli autori calabresi vengano studiati nelle scuole italiane. 

È tra quelle righe che chiedo venga istituita una legge regionale che preveda lo studio a scuola degli autori del ‘900; la prima Book Commission regionale, con la quale attraverso le opere dei nostri maggiori narratori vengano attuati progetti di sviluppo culturale e turistico; un ente regionale per la tutela della letteratura calabrese. 

Guardiamo per un attimo appena ai nostri vicini. Ai dirimpettai siculi. La Sicilia, vanta addirittura di un assessorato all’identità regionale. Difende i suoi autori, li fa studiare, mantiene la sua lingua siciliana, la protegge e la conserva… A che serve parlare di terra dei padri, quando i padri non vengono fatti rivivere nella vita politica, sociale, civile e culturale del paese? 

E qui la chiudo. Nei giorni scorsi, e quasi potrei gridare allo scandalo, l’assessore al Turismo della regione Calabria, pubblica sui suoi profili social, una poesia di Pablo Neruda, riportata su una sorta di carta intestata con il logo di Calabria Straordinaria, il nuovo progetto della Regione per lo sviluppo turistico del territorio. 

Bene direte. Io invece dico male, anzi malissimo. E boccio, assumendomene tutte le responsabilità, l’assessore Fausto Orsomarso, pur riconoscendogli in campo, un impegno che in pochi hanno avuto prima di lui. 

Ma davvero, caro assessore, serviva ricorrere a Neruda, che tra l’altro tanto amo come poeta, per raccontare una Calabria Straordinaria? 

Una terra vera, reale, va raccontata con le sue voci. Per essere identitaria, la Calabria, va fatta parlare con le parole dei suoi artisti. Diceva Saverio Strati, che do per scontato sappiate tutti chi sia, in altro caso Google vi sarà d’aiuto:  “Un popolo per capirsi deve conoscere i suoi artisti, altrimenti rimane indietro”. E allora, con tutto il rispetto per Pablo Neruda e la sua poesia, la Calabria Straordinaria, vi prego, raccontiamola così: 

Un arancio
il tuo cuore
succo d’aurora,
rosa nel bicchiere
(Franco Costabile)

Noi non sappiamo
da che anima nata
e sei da per tutto indifesa.
Io mi diffondo
per obbliviosi porti
ed imparo di te
l’azzurro e il sereno.
(Lorenzo Calogero)

Alla domanda: Chi siete? I nostri figli, ricchi di sapere e di conoscenza, con orgoglio, già oggi, dovranno poter rispondere: “La regione più bella del mondo”. Sempre più straordinaria, e meno sbronza. (gsc)

Terra Santissima, romanzo di Giusy Staropoli Calafati

di ENZO CICONTE – La Calabria, vista da fuori, ha l’immagine di una terra di mare. Tutto è mare, dall’azzurro al verde azzurro al cristallino, a quello dai mille colori che s’inseguono cavalcando piccole onde ed è trasparente al punto da far vedere il fondale da altezze elevate – chi non ricorda la terrazza sul mare di Tropea? – con albe dai raggi dorati sulla costa jonica e tramonti incantati, spettacolari sulla costa tirrenica. In ogni caso tutto mare.

E invece la Calabria è altro, molto altro. La Calabria la si comprende fino in fondo se si conoscono le sue montagne. Che sono tante: il Pollino, la Sila grande, la Sila piccola, il Reventino, le Serre vibonesi, l’Aspromonte che si protende nella punta più estrema dello stivale quasi a voler acciuffare la Sicilia, senza mai riuscirci, per fortuna! Ogni montagna con le sue caratteristiche, i suoi profumi e i colori, la lucentezza delle piante e degli alberi che hanno molte varietà, e gli animali che vivono all’aria aperta e che fanno parte del paesaggio in un’immensa distesa delle tante variazioni di verde; una più bella delle altre queste montagne. Quale sia la più bella nessun calabrese lo sa davvero, perché è legato alla montagna della sua infanzia; io amo le serre perché sin da piccolo i miei genitori mi portarono lì e ci ritorno ancora anno dopo anno. Arrivai per la prima volta a Serra San Bruno che avevo pochi mesi. Ci andai a “cambiamento d’aria” come si diceva una volta e come consigliò il medico di famiglia preoccupato per la gracilità del mio corpicino.

Tutte le montagne hanno le loro leggende, a cominciare da quelle dei famosi briganti, immortalati nella loro giovinezza, aitanti e belli, fascinosi e misteriosi che facevano innamorare tutte le donne, ma proprio tutte, dei tanti paesi; queste sognavano di essere rapite da uno di loro o, almeno, di incontrarlo una volta, anche solo una volta, tra i boschi al riparo da occhi indiscreti e pettegoli.

Di montagna hanno parlato in tanti, calabresi e non calabresi. Corrado Alvaro, che era di San Luca, ha parlato del suo Aspromonte. “Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare” scriveva nel suo famoso incipit in Gente in Aspromonte pubblicato da Le Monnier nel 1930. E di Aspromonte parlò Umberto Zanotti Bianco nel suo Tra la perduta gente pubblicato da Mondadori nel 1959. Ancora l’Aspromonte, anzi: Africo!, è il cuore di un libro famosissimo di Corrado Stajano il cui titolo era proprio Africo, pubblicato da Einaudi nel 1979.

Non solo quelli appena ricordati, ma tanti altri hanno scritto sull’Aspromonte (l’elenco sarebbe davvero lungo) e con una caratteristica inconfondibile: sono tutti uomini. Adesso, a parlarci di questa immensa, straordinaria, misteriosa, affascinante montagna c’è Giusy Staropoli Calafati con il suo romanzo Terra santissima, edito da Laruffa nel 2021.

È un libro complesso, a più strati, scritto bene, che si legge d’un fiato. È un libro d’amore. D’un amore speciale, particolare: che non è solo quello tra un uomo e una donna. C’è anche questo amore, naturalmente, che tiene incatenati i due cuori e quelli dei lettori tesi a seguire gli alti e i bassi di un rapporto che è complicato dal carattere dei due giovani, dalla loro storia che è diversa, lei una giornalista che arriva da Milano pur essendo calabrese e lui un figlio di quella montagna, dai diversi progetti di vita dei protagonisti, progetti che vanno in frantumi dopo una gravidanza complicata  che non si conclude con la felicità dei genitori, ma con un lutto devastante e un dolore immenso, inenarrabile, talmente potente da spezzare i cuori e le viscere dei due giovani amanti, da sconvolgere le menti e da condizionare il futuro di entrambi.

Sono pagine di straordinaria empatia ed emotività. E come si può descrivere un amore così intenso, a tratti delicato, se non immergendosi nella lettura delle pagine del libro? Se non seguendo passo dopo passo i sentimenti, gli incontri con le donne, gli uomini, i ragazzi, le emozioni, i sogni, i pensieri di lui e di lei, e i genitori di lei che giocano un ruolo importante?

Ma c’è un amore ancora più profondo ed intenso di quello tra lui e lei. È l’amore di Giusy Staropoli per la Calabria, per la sua terra, per questo Aspromonte che affascina e attrae nonostante la vita aspra, dura, difficile, complicata, a tratti insopportabile, piena di segreti, di misteri, di favole, una vita a tratti splendente a tratti tenebrosa, feroce e delicata, amara e dolce.

 Un amore forte, quello della protagonista del romanzo, assoluto, che non ammette tradimenti nonostante la presenza prima ovattata, in sottofondo, impalpabile, poi sempre più visibile e inquieta dei malandrini e delle loro regole barbare, antiche e moderne insieme, di una ‘ndrangheta di montagna che ha avuto la destrezza di adattarsi ai mutamenti e diventare sempre più forte e pericolosa al punto da commettere una strage a Duisburg nel cuore dell’Europa. E quel fatto di sangue ha un risvolto importante e imprevedibile in tutta la storia dei due protagonisti principali.

La giornalista Simona Gatto scopre la Santa, questa recente mutazione della ‘ndrangheta più misteriosa, pericolosa, oscura, accattivante ed avvolgente che mette paura e soggezione, che induce all’omertà ed è una forza potente perché si appoggia ed è appoggiata dai potenti, da poteri occulti intrecciati a logge massoniche deviate. E le parole contro la ‘ndrangheta sono inequivocabili, ed anche questo è un tratto positivo del libro.

E poi c’è il vero amore: San Luca, il santuario di Polsi avvolto nella leggenda e nel fascino della Madonna della montagna venerato da tempo immemorabile e richiamo irresistibile per tutti i fedeli della provincia di Reggio Calabria. E da questo comune incastonato nel cuore profondo dell’Aspromonte, lo scrigno dov’è nato Corrado Alvaro, arriva un faro di speranza. Una luce che illumina il percorso della giovane giornalista che arriva dalla lontana Milano per un’inchiesta e decide di rimanere per sempre su quella montagna. Una scelta controcorrente. (eci)

[Enzo Ciconte, storico, scrittore e docente universitario]

TERRA SANTISSIMA
di Giusy Staropoli Calafati
Laruffa Editore, ISBN 9788872219805

LA NUOVA NARRAZIONE DELLA CALABRIA
UN MODELLO TRA ORGOGLIO E PREGIUDIZI

di SANTO STRATI – Tra orgoglio e pregiudizi, è assolutamente necessario tentare la via di una nuova narrazione della Calabria. Accanto all’efficienza dimostrata dal presidente Roberto Occhiuto e dalla sua squadra di Giunta, risulta evidente che non si ossa fare a meno di mettere mano alla reputazione della regione. Questa terra è stata maltrattata, vilipese, stravolta da cattiverie gratuite, la sua immagine compromessa. Il suo racconto fatalmente deviato, quasi a voler accentuare un distacco inevitabile, un divario incolmabile. E sappiamo che non è così.
Occorre ricostruire, rigenerare (questo verbo così di moda negli ultimi tempi) l’immagine della nostra meravigliosa terra perché i calabresi lo chiedono, lo pretendono (giustamente), ne sentono l’assoluto bisogno. E non è facile.
Per anni la Calabria è stata al centro dell’informazione di media nazionali e internazionali soltanto in occasione di morti ammazzati, clamorosi processi di mafia, disastri: tutto il resto è stato bellamente ignorato, a lungo, e senza ritegno, soprattutto dai media nazionali e dalla tv. Solo negli ultimi anni le sollecitazioni prodotte da più parti (e consentiteci di mettere anche le pagine di Calabria.Live) hanno destato nuova curiosità, nuova attenzione.
Come si fa una nuova narrazione? Usando prima di tutto gli strumenti della cultura. Abbiamo un modello, un esempio luminoso che può indicare il percorso ideale per rigenerare l’immagine della Calabria, il libro di Giusy Staropoli Calafati Terra Santissima (editore Laruffa) che offre un’immagine diversa della Calabria. La sua scrittura è straordinaria: la candidatura al Premio Strega è più che meritata e anche entrare nella dozzina dei finalisti sarebbe il minimo dovuto per una scrittrice di Calabria che rivela capacità e maturità letteraria di grande respiro. La storia è “calabrese” ma il racconto è universale, anzi l’ambientazione aspromontana conferisce al racconto un’inedita introspezione sia per chi questa terra la conosce bene, sia per chi ha sempre e solo associato la montagna reggina alla ‘ndrangheta. Ma anche a chi nemmeno immagina che spettacolo della natura sia tutto l’Aspromonte, con un Parco poco reclamizzato, poco conosciuto dagli escursionisti e dagli amanti del trekking.
Ricadiamo sempre nel classico errore che in 50 anni di Regione nessuno ha mai voluto risolvere e affrontare: serve una comunicazione “intelligente” (e costante) che possa dare un’immagine positiva della Calabria, ma allo stesso tempo occorre mettersi in condizione di poter accogliere quanti restano poi suggestionati da un’efficace narrazione di luoghi e genti. Quello che fa la Staropoli Calafati: “La Calabria… nessuno te la leva via di dosso. Non ti salvi da lei – scrive nel suo bellissimo romanzo –. Se la odi, o la ami, poco conta. Un giorno ti si scopre dentro e ti accorgi che ti ha sempre posseduta. Tenuta con lei. Noi siamo come gli alberi. Ogni albero è attaccato alla terra dalle radici… Perché il Sud è un destino dentro al cuore che ti prende e non lo sai lasciare…”. Bastano queste poche righe per spiegare a un non calabrese lo straordinario senso di appartenenza che contraddistingue la nostra gente, quella calabresità che va raccontata agli altri per far scoprire – come dice il presidente Occhiuto – “la Calabria che non ti aspetti”.
La Calabria è caratterizzata da tre regole di vita: partire, restare, tornare. Un modus che solo i calabresi riescono a interpretare in maniera adeguata. Soprattutto per quello che riguarda il ritorno. La “restanza” è già un atto di coraggio che nobilita il senso di appartenenza, l’amore filiale verso una madre troppo spesso matrigna con i suoi figli e invece assai più generosa con gli estranei. In questa terra si sono arricchiti tutti i “forestieri”, ma solo qualche calabrese ha avuto qualcosa in più delle tradizionali briciole. Terra di conquista, di colonizzazione, nonostante gli splendori della civiltà magnogreca e una storia millenaria fatta di caparbia resistenza al nemico e all’invasore e di un sentimento che sarebbe sbagliato chiamare rassegnazione.
La protagonista del romanzo di Giusy Staropoli Calafati è una giornalista calabrese cresciuta a Milano che “torna” e riscopre la “sua” Calabria. I modelli letterari di ispirazione sono Alvaro, Strati, Perri, La Cava, ma la scrittura della Giusy non succube ad alcuna “cambiale” dei suoi autori preferiti (e stra-amati): c’è il forte senso dell’orgoglio che è l’elemento dominante di tutto il racconto. C’è la descrizione di un Aspromonte selvaggio e affascinante, dove i pastori (di cui Alvaro ci descriveva la “dura vita”) i pochi pastori rimasti non si tramandano il lavoro, ma il legame indissolubile alla propria terra. Ed è semplicemente geniale che l’autrice faccia innamorare la protagonista di un pastore vero (che però tiene i libri vicino al letto e cioè non inculturato) ma ricco della sua coscienza di calabrese autentico, di genuino figlio della sua terra.
È la descrizione di Polsi, del culto della Madonna della Montagna che indica come raccontare le attrazioni naturali (e mistiche) di questa terra: “Tutti tenevano giunte le loro mani. Il santuario della montagna era un luogo di fede e di preghiera. Nessuno stringeva pistole o zaccagne. Le mani degli uomini e delle donne erano mani semplici, fessuriate dai calli, stanche dalla fatica. Mani sporche della terra verso cui la Madonna guardava, ed ella stessa riempiva di promesse e di grazie. Polsi sapeva come far star bene l’anima”.
Non ci sono anime nere (che più avanti nel racconto emergeranno per raccogliere il disprezzo di chi legge) ma una partecipata narrazione di volti, di gente, di case e di mulattiere (si aspetta ancora una strada asfaltata che porti al Santuario). E la considerazione che la scrittrice mette in bocca alla protagonista Simona Giunta (Esisteva una Calabria che andava vista con gli occhi e la profondità del cuore) riempe di significato quest’idea condivisibile di una terra che è anche Italia, anzi che ha dato il nome alla penisola e non merita l’abbandono e l’indifferenza cui è ancora troppo spesso costretta.
Non sono più i tempi di “non si affitta ai meridionali” in quella Torino resa fortunata nella fabbriche da centinaia di migliaia di calabresi, ma ancora esistono stupide logiche di superiorità e razzismo. Nord opulento e Sud povero e dimenticato: ma se non ci fosse il Mezzogiorno a chi venderebbero i loro prodotti le aziende del Nord? Per questo solo uno stupido non comprende che se va avanti il Sud va avanti tutto il Paese. E per questo, accanto alla restanza e alla partenza, esiste la molla della speranza, il ritorno.
Il romanzo della Giusy è un grande inno alla speranza proprio perché il “ritorno” non solo significa riappropriarsi della terra che ha dato i natali, ma creare sviluppo e crescita e soprattutto futuro per le nuove generazioni. Dice la protagonista: “La gente come noi, al Nord, non apparterrà mai. La Calabria ce la portiamo dentro fino alla tomba”.
Per questa ragione, la nuova narrazione della Calabria deve essere rivolta a chi la Calabria ce l’ha nel cuore (e quindi esulta per la prospettiva del ritorno) e a chi la deve scoprire. “Questa terra – scrive la Staropoli Calafati – va riconquistata, rimessa a nuovo, perché il mondo le riconosca finalmente la sua grandezza e la malavita non l’affossi uccidendola.”.
Esprime la scrittrice il sentimento di orgoglio che deve contraddistinguere ogni calabrese: il suo libro è il racconto non solo di un amore tradizionale (o non convenzionale9 tra un uomo e una donna, bensì lo straordinario amore che lega alle origini, alla propria terra.
Una terra dove la “Santa”continua sì a imperversare, ma perde ogni giorno protagonisti, gregari e soprattutto potere, grazie a magistrati e forze dell’ordine, ma anche a tantissime persone perbene, che pagano il loro impegno antimafia con intimidazioni, minacce non velate, qualche volta con la vita. Ma accanto a questa terra che non è stravolta dalla ‘ndrangheta (non in misura superiore di quando avviene nel resto d’Italia e del mondo, dove la criminalità organizzata perde colpi, ma continua a imperare) c’è un’immagine positiva fatta di persone e cose, paesaggi di sogno, mari da favola, tesori inestimabili vestigia d’un passato che fa inorgoglire anche il più scettico dei calabresi. Soprattutto quelli che vivono al di fuori della Calabria e non dimenticano, sognano, immaginano il ritorno.
Sono i testimonial d’una campagna di reputazione che non costano nulla e che aspettano solo di poter dare il proprio contributo. La diaspora calabrese ha portato in ogni angolo della terra i figli di Calabria, i quali, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno conquistato il successo, raggiungendo ruoli di prim’ordine in ogni campo. Nell’ambito della scienza (si pensi al Premio Nobel Dulbecco), della cultura, delle istituzioni. Perché il calabrese che va via (un tempo per scelta, oggi per necessità – visto che ai nostri giovani laureati non si offrono opportunità) sa che dovrà lottare il doppio rispetto a chiunque altro per superare i pregiudizi e mostrare le proprie capacità. La Calabria alleva geni (all’Unical escono giovani informatici contesi da ogni grande azienda in ogni parte del mondo), spende un sacco di soldi per formarli e dar loro le giuste competenze che poi non sarà in grado di utilizzare, a tutto vantaggio delle regioni furbe del Nord e della multinazionali che individuano subito le capacità. Ci sono centinaia, migliaia di medici, ingegneri, scienziati, esperti in tecnologia, pronti a ritornare, purché ci siano le condizioni di vita e di welfare che ancora oggi appaiono come un miraggio. E le donne, sottopagate, sfruttate, messe in disparte o, peggio, emarginate. È questa la narrazione che serve alla Calabria dove – diceva Pasolini, citato nel romanzo della Staropoli – “è stato commesso il più grave dei delitti, di cui non risponderà mai nessuno, è stata uccisa la speranza pura, quella anarchica e un po’ infantile, di chi vivendo prima della storia, ha ancora tutta la storia davanti a sé”.
Ma la speranza non è morta, anche se ci hanno provato in molti a spegnerla. Ce lo racconta questo bellissimo romanzo che dovrebbe essere fatto leggere nelle scuole, non solo calabresi, e dovrebbe diventare il manifesto della possibilità di farcela. Di raggiungere il risultato. Non sappiamo se i giurati del Premio Strega si faranno affascinare fa questo straordinario e intenso racconto d’una Calabria di 40 anni fa e dei nostri giorni, dove l’amore non trionfa, ma la speranza riluce. Quella che fa dire alla protagonista: “Quella terra è governata da tutte le specie di uomini. Essi le hanno levato via la dignità, negato ogni forma di bene, e le cose belle che aveva gliele hanno infrante selvaggiamente. Ma non la speranza e neppure il futuro”.
La Calabria scopre un’altra “vera” scrittrice, da collocare accanto ai grandi di questa terra. Giusy Staropoli Calafati merita tutto l’onore e l’orgoglio dei calabresi e la stima del mondo letterario.

Giusy Staropoli Calafati / Se l’uomo è forte la donna è fortissima

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – “L’uomo è forte”. Con questa espressione potremmo ben cominciare il racconto della genesi del genere umano. Parafrasando una delle più belle opere di Corrado Alvaro, dove però, la forza del genio maschile è frutto dell’ostinazione e della resistenza umana in generale, e non della forza in quanto mezzo che consente di svolgere una certa azione, a un determinato elemento, di un certo sesso. 

‘L’uomo è forte’, è un’espressione antica e al contempo fortissima, che sentivo ripetere spesso a mia nonna quando ero bambina, nei racconti della sua giovinezza, nei tracciati che faceva delle guerre in cui l’uomo aveva sofferto, ma che grazie alla sua forza aveva superato. Lo sentii ribadire poi anche a mia madre, quando per esempio vi fu il primo sbarco sulla luna. ‘L’uomo è forte’, disse a gran voce. 

Tutti casi in cui con la parola ‘uomo’, banalmente nome comune di persona, viene indicato l’individuo di sesso maschile della specie umana. Nessuno, a ritroso nella storia, ha mai avuto il coraggio di dire che l’uomo è forte grazie alla donna che sin dalla genesi gli è stata posta accanto. E che la forza che esso, a tutt’oggi dispone, e che da essa gli proviene, è la sola in grado di modificare lo stato di quiete o di moto che lo interessano, e si chiama amore. O meglio ancora, dicasi più precisamente: individuo di sesso femminile della specie umana. Che sia essa sua madre o la sua amata. 

Dunque, l’uomo è forte, tradotto nella pratica quotidiana della sopravvivenza della specie, significa che “la donna è fortissima”. Secondo la più antica delle leggende bibliche, Dio si servì della costola dell’uomo per creare la donna. Una figura emergente destinata ad accompagnarlo nelle sue gioie e nelle sue peripezie. 

Finanche il Creatore avverte, dunque, la priorità di dare all’uomo una compagna. Mettergli accanto un altro essere vivente di sesso opposto al suo. E quindi completare la sua esistenza.

Dio avrebbe potuto fare la donna allo stesso modo di come aveva fatto l’uomo. Con lo stesso criterio e lo stesso mistero. Invece no. È da una costola di lui che plasma lei. E le dà vigore, e le concede bellezza. Mettendola in risalto sopra ogni cosa, all’interno del creato. Ma l’uomo, sempre così troppo autoritario ed ossessivo nel sentirsi ‘il primate’ tra i viventi, di questa identità che Dio concede, non come grazia ma naturale dono, alla donna, arriverà a vendicarsi crudelmente di lei. Tanto che aver dato per ella la sua costola, diverrà un fatto talmente distante, passato e sconclusionato, che della donna ne farà oggetto di bordello.

Passata la creazione, l’uomo, oramai in possesso delle sue piene virtù, figura indipendente dall’opera del Creatore, rompe e corrompe, con precise sciabole comportamentali, il mondo in cui opera, allestendolo di controfigure. E di quella creatura così bella e così audace, irresistibilmente attraente, che avrebbe dovuto sotto il suo braccio essere protetta, se ne approfitta. Ne abusa e la usa. Se ne serve e la sfrutta. La impiega e la comanda. La costringe a soggiacere a lui, arrendevolmente. La donna diventa improvvisamente un anello fragile della catena, e limita la sua presenza nella società a quel po’ di chiaranza in cui riesce ancora a vedersi viva. 

I ritratti che incorniciano le varie epoche storiche compiute e vissute dall’uomo, non mutano mai più la condizione della donna, anzi, la confinano in spazi sempre troppo piccoli, mai abbastanza ampi, e per nulla capienti. Come in una noce. Essa diventa una, nessuna e centomila. Vittima di una crisi identitaria in cui, pur rimando essa stessa l’unica figura della famiglia in cui accresce la fede, soggiace al volere del maschio, nella misura di padre e di padrone. Un destino alieno nelle cui membra imperfette le donne si scoprono mano mano perfettissime, e oltre il quale, rianimarsi diventa una scelta e un atto di coraggio.

Guardando mia nonna, ho sempre pensato che senza di lei, il nonno non valesse nulla. Un uomo bastardo e irregolare come tutti. Il valore di lui, era dato dalla forza di lei. Un teorema che conferma la precisa meccanica della vita. Ricompone il quadro originale del Creatore.

Osservando mio padre, ho sempre sostenuto che i suoi successi portavano, e per esteso, il nome di mia madre. La sua audacia, la sua profonda ribellione, il senso altissimo dell’onore che ella, per pudore, responsabilità e morale, non aveva mai tradito. 

Da mia nonna e da mia madre, ho capito quanto era valso essere nata donna anch’io. Ma al contempo, e sempre da loro, ho preso coscienza che la nostra posizione andava difesa. Che non era una squalifica essere nate donne, ma una condizione che aveva tutte le ragioni per metterci in discussione. 

Mia nonna aveva lavorato come un mulo, altro che uomini. Le mani le aveva aperte, spaccate per la fatica che avevano sopportato, e davanti alla quale non si erano mai ritratte.  Eppure la sua bocca non aveva mai osato parlare. Controbattere. Mai neppure un lamento. Solo e sempre muta sopportazione. Era stata una brava madre, mia nonna. Una perfetta moglie, un vero angelo del focolare domestico. Ma non aveva realizzato null’altro. I sogni erano impediti a quelle come lei. 

L’emancipazione femminile la considerava una frottola di quattro spostate rivoluzionarie. Ella il coraggio della rivoluzione non l’aveva mai avuto. Infatti morì con i piedi scavati nella terra. Con il voto dell’obbedienza a Dio e all’uomo che aveva sposato.

Mia madre ha rinunciato a sentirsi donna parecchie volte. Quando ancora ragazzina mio padre la portò via con lui e dovette lasciare la scuola. Che al primo anno di Segretario d’azienda, aveva già concluso la sua istruzione. Quando le offrirono il posto come segretaria nella scuola del paese, e mio padre rifiutò per lei.

Mia madre però, non ha mai pensato di dover morire con i piedi nella terra come la nonna. Anzi, quella morte così indegna, si era giurata di doverla riscattare. E così un pizzico di quella emancipazione farlocca, davanti alla quale la nonna, ignorando il suo ruolo reale, l’aveva sempre messa in guardia, lei la mise in atto sul serio. Prese la patente prestissimo, mia madre. E soprattutto acquisì la sua autonomia. 

Certo, era ancora tanta la strada da fare, ma le donne, in Italia, a partire dal 46, avevano fatto grandi passi in avanti. Da semplici individui di sesso femminile, erano diventate donne. Con una identità, e una precisa personalità. Lavoratrici riconosciute con i propri nomi e cognomi. Donne apprezzate e ammirate. Contemporaneamente simbolo del focolare domestico e madrine del grande progresso.

La donna esce dalla sua noce scura, con gradualità. Poco alla volta conquista la sua indipendenza. Senza però, mai riuscire del tutto, a porre fine alle annose differenze di genere.

Un retaggio antico ma di cui vittima è fondamentalmente l’uomo che, complessato per natura, sfoga su di essa le sue frustrazioni. I complessi atroci dell’inferiorità, di una forza sovrumana che la donna ha ma l’uomo non riesce a fronteggiare. 

La donna resta, infatti, il principio assoluto di ogni cosa. Contro ogni ostilità, essa è il battesimo e l’iniziazione. La concezione è tutta raccolta dentro al suo grembo. E fonda la terra e garantisce la vita. 

Si pensi alla madre di Gesù. Davvero è credibile che sia il Cristo, in quanto uomo, il vero protagonista della storia dell’umanità?

Sul palcoscenico c’è solo e sempre Maria. Ella comincia ed ella finisce. Da lei tutto parte e a lei tutto torna. L’angelo andò da lei; Ella concepì per opera dello Spirito Santo; a lei una spada trafiggerà l’anima. 

La verità è che la donna è l’unica vera generatrice del mistero. La donna è la radice. E alla radice non si fa torto. Se si maltratta la radice, l’albero muore. E se muore l’albero nessun fiore farà il frutto che darà il seme per far crescere l’albero per fare il tavolo attorno al quale radunare chiunque. La famiglia, le grandi nazioni, i potenti del mondo, il mondo intero.

E’ questione di attenzione e di sensibilità. Di analisi di pensiero. 

La donna senza l’uomo non può esistere. Ma laddove l’uomo è l’idea, ecco che la donna diventa progetto. E la contemplazione di entrambi dona vero compiacimento. C’è un comandamento che Dio dona all’uomo sin dalla sua creazione. “La tua libertà”, gli dice il Signore, “finisce dove incomincia quella della tua donna. Va e non sbagliare”. 

Nessuno lo scrive mai, nessun uomo lo cita. Ma basta ricordarsi che ogni cosa ha le sue regole da rispettare. Anche la vita. Che è straordinariamente donna.