Site icon Calabria.Live

LA CALABRIA DI CONTE CHE POI NON VOTA
E QUELLA, DISILLUSA, CHE VUOLE SOGNARE

Giuseppe Conte

di SANTO STRATI – A sette giorni dal voto di domenica prossima dove 1.893.606 elettori calabresi sono chiamati a scegliere il nuovo Presidente della Regione e il colore del futuro governo regionale, si può trarre una semplice e amara constatazione: non s’era mai vista una campagna elettorale così arida, così insulsa, così vuota. Dove attaccare l’avversario è stato l’unico leit-motiv ricorrente, giorno dopo giorno, al posto di presentare progetti, programmi e, soprattutto, idee. Sappiamo già che contro quest’affermazione insorgeranno i candidati, ognuno facendo valere il proprio impegno, indicando i km percorsi, le persone incontrate, i comizi e i confronti, ma la sensazione che si coglie nel popolo calabrese, tra gli elettori della regione, è prevalentemente di sconforto, quando non di amarezza e sdegno. Se c’era stato un timido riavvicinamento alla politica poco prima delle passate elezioni (dove peraltro le astensioni hanno raggiunto il 55,67 per cento), oggi la disillusione e la non fiducia nella classe politica hanno raggiunto livelli impensabili. Sono arrivate in redazione telefonate di “compagni” del vecchio Pci che, con le lacrime agli occhi e la voce strozzata hanno detto: «Non vado a votare, a che serve?».

Ci sarà pure una ragione per questa disaffezione alla politica che non è legata al lockdown forzato dell’anno scorso o al rinvio continuo delle elezioni, quanto piuttosto all’assoluta assenza di una classe politica dirigente locale in grado di emergere e farsi valere. Il gioco della ricerca di un candidato (forse sfogliando la rubrica del telefono) da parte del Partito Democratico non è piaciuto agli elettori della sinistra e ha finito per alimentare nuove amarezze e disillusioni. Il ticket Spirlì “imposto” da Salvini (manco fosse il tutore speciale del futuro della Calabria) ha generato, dall’altra parte un forte risentimento in chi si è sentito, ancora una volta, materia di scambio e non corpo elettorale, di cui difendere ideali e sogni. Lo stesso vale per il balletto De Magistris-Tansi della prima ora, finito con insulti e reciproche accuse di slealtà su un progetto che era fatto solo di dichiarazioni programmatiche. E, infine, l’ardimentoso quanto inutile e sofferto tira-e-molla dell’ex presidente Oliverio alla ricerca di legittimazione e del dovuto rispetto da parte del Nazareno, quanto meno per la sua storia politica, sfociato in una candidatura al singolare, col ruolo di guastafeste della sinistra (ma quale sinistra?).

Se si prova a fare un mix di queste realtà vissute prima e durante la campagna elettorale, il frullato che viene fuori è imbevibile e immangiabile (politicamente parlando): è la triste conferma che la politica in Calabria ha accettato di scomparire, alimentando disillusione e rabbia in tutti gli schieramenti. E pensare che, singolarmente, pure emergono personalità, dall’una e dall’altra parte, che hanno dignità e spessore per meritare attenzione e consenso, solo che si sono fatti stritolare da un ingranaggio diabolico, servito a rendere impossibile qualsiasi riscatto (con buona pace dell’indovinato slogan elettorale di Falcone/De Magistris) slegato dai compromessi partitici.

La sensazione più diffusa, tra i calabresi (almeno che coloro che non tengono a riposo il cervello), è di una terra che non interessa a nessuno, salvo a essere utilizzata come merce di scambio nel puzzle nazionale del bieco partitismo. L’incastro di interessi e opportunità non fanno il gioco della Calabria, tant’è che dall’alto sono state prese le decisioni su uomini, strategie e indirizzi, sempre ignorando il territorio, tradendo la base, dimenticando che non si governa su stupidi sudditi, ma è necessaria la condivisione di idee e soprattutto non può mancare il confronto con un elettorale che è molto più intelligente di quanto i politici pensino. Ma il confronto con il territorio non c’è stato, la prima fugace visita di Enrico Letta ha tenuto radicalmente lontana la base, e si è dovuto aspettare i riempi piazze come Salvini, Meloni e, da ultimo, Conte, per avere la sensazione (attenzione solo la sensazione) di un contatto diretto con il popolo. È vero che De Magistris e la Falcone hanno fatto un’ottima campagna sul territorio incontrando persone, imprenditori, lavoratori, studenti, ma anche qui si ha come la sensazione che l’area civica abbia vellicato più la rabbia popolare che stuzzicato sentimenti di buona politica. Ma è già qualcosa, dopotutto.

E non ci si faccia ingannare dagli affollati comizi dell’ex premier Giuseppe Conte, con la sua “toccata e fuga” (al pari di altri leader nazionali): l’assembramento (pur proibito e, ovviamente, largamente invidiato dagli avversari) non equivale sicuramente a consenso. Conte ha fascino, glamour, piace alle cosiddette “bimbe di Conte” che senza vergogna arrivano persino a offrirsi (in tutti i sensi), ma la notorietà non basta in politica, smuove al più qualche punto in percentuale, ma nulla di più. La gente – a nostro modesto avviso – ha affollato le piazze di Cosenza, Catanzaro, Reggio e delle altre città non per riaffermare la primazia politica dei CinqueStelle (conquistata inopinatamente nel 2018 e malinconicamente smarrita nel corso di questi anni) bensì per vedere e toccare l’idolo delle folle, alias Giuseppi (come l’ha ribattezzato Donald Trump), alla stessa stregua di quelli che sono andati a vedere Zucchero, Massimo Ranieri o un qualsiasi altro personaggio del mondo (solamente luccicante) dello spettacolo. Più per curiosità che per serio convincimento politico. Se Conte decidesse di fare monologhi a teatro riempirebbe certamente le sale come il suo aedo Marco Travaglio, peccato che nelle piazze calabresi abbia semplicemente recitato un copione vuoto e colmo solo di lapalissiane promesse. Ha replicato in ogni occasione – senza convincere molto – cose dette e ridette, ovvero promesse e illusori impegni che i calabresi hanno già classificato come tali. Basti pensare alla risposta che l’ex premier Conte ha dato a chi gli chiedeva dell’Aeroporto di Reggio, destinato a perire ingloriosamente per l’ignavia dei politicanti locali: «È un argomento da prendere in seria considerazione». Fine del film.

Con queste premesse i calabresi hanno, a ben vedere, mille ragioni per non nascondere il disgusto per questa politica, che si occupa più di poltrone e seggiole da assegnare piuttosto che puntare su competenze e capacità, che – ripetiamo –, in verità, ci sono, ma quasi sempre vengono messe da parte per far posto a scelte amicali, tra opportunismi e interessi di partito. Difficile non capire questo sentimento di sfiducia e di profonda mestizia che si rivela a prima vista tra gli elettori calabresi, né lo capiranno in questi sette giorni, i boss della politica che arriveranno a frotte a riempire gli spazi del popolo degli indecisi. A conti fatti, la volta passata, il 26 gennaio 2020 votarono 840.563 elettori (su 1895.990), ovvero il 44,33%. Quest’anno gli iscritti a votare sono 926.956 uomini e 966.650 donne e di questi ben 378.583 vivono all’estero (e non votano). Tra le tante corbellerie di questo governo “provvisorio” l’unica cosa seria (spingere per ottenere il voto per corrispondenza) non è stata fatta, né l’assemblea di Palazzo Campanella ha ritenuto di modificare la legge elettorale inserendo il voto disgiunto (in modo da poter votare per un presidente e contemporaneamente per una lista politica diversa): troppo facile, troppo comodo, a rischio per l’una e l’altra parte. Ma chi può sostenere che, al di là dell’interesse della destra e della sinistra, il voto disgiunto, in una campagna elettorale aspra e sterile come questa, non avrebbe fatto – stavolta sì – gli interessi dei calabresi? (s)

Exit mobile version