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LA GENEROSA ACCOGLIENZA AI MIGRANTI
CHE I CALABRESI HANNO NEL PROPRIO DNA

Migranti in attesa di sbarco sulle coste calabresi

La Calabria è sempre stata terra d’accoglienza, soprattutto nei confronti di chi scappa dalla guerra. Un esempio lampante è Roccella Jonica che, negli ultimi tempi, nonostante le gravi difficoltà in cui si trova, non volta le spalle a chi ne ha bisogno. Ma prima dell’oggi, c’era un calabrese – o meglio reggino – che, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, ha formato più generazioni di reggini all’accoglienza ed al dialogo tra culture e religioni: don Domenico Farias.

Una storia, quella di don Domenico Farias che, insieme a quella del Beato Vescovo Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, anche se appartiene al passato, è quanto mai più attuale, offrendo una visione lucida e straordinariamente attuale delle dinamiche migratorie e del valore culturale, sociale, politico e religioso dell’incontro tra i popoli. È di questo che si è parlato nel seminario di studio Migranti ieri e oggi: persone, non numeri, organizzato dal Centro Diocesano “Migrantes” e dalle Cooperative Demetra e Res Omnia, nel giorno, il 21 maggio, in cui si fa memoria dell’approdo a Reggio di San Paolo, fondatore della prima comunità cristiana in Calabria. 

Don Domenico Farias è una figura che ha formato più generazioni di reggini all’accoglienza ed al dialogo tra culture e religioni; ha messo in relazione le persone; ha offerto alla società il suo fondamentale contributo di insegnante e pensatore e la sua lettura, potremmo dire profetica, degli eventi locali e mondiali. La sua casa di Via Palestino, lasciata in donazione all’Arcidiocesi reggina, è oggi luogo di accoglienza e sostegno spirituale e materiale di chi giunge nella nostra terra. E la comunità filippina lo ricorda sempre come colui che più seguì con amorevole dedizione i primi arrivati a lavorare come badanti e collaboratori domestici presso le famiglie di Reggio Calabria.

Il ricordo di Scalabrini e Farias offre un importante strumento di comprensione del presente e, quindi, di azione ancora più mirata ed efficace per giungere a quella che gli ultimi tre Papi hanno definito una “famiglia dei popoli”, in cui nessuno perde la propria identità ma aggiunge ricchezza col proprio patrimonio di valori culturali, sociali e religiosi. 

È stato Padre Gabriele Bentoglio, direttore del Centro diocesano “Migrantes”, a tratteggiare la figura del Beato Scalabrini, definito da Giovanni Paolo II “Padre dei migranti”. Pur consapevole delle ingiustizie e dello sfruttamento insiti nelle migrazioni, e condannando duramente gli agenti che lucravano sulle partenze, monsignor Scalabrini individuava in esse una sfida piena di speranza, «una delle leggi provvidenziali che presiedono ai destini dei popoli e al loro progresso economico e morale»; «una valvola di sicurezza sociale; perché apre i sentieri della speranza, e qualche volta della ricchezza, ai diseredati; perché offre concrete possibilità alla diffusione del Vangelo, allargando il concetto di patria oltre i confini materiali e politici, facendo patria dell’uomo il mondo».

Ne vide a migliaia partire verso l’America a fine Ottocento,  o spostarsi verso Lombardia e Piemonte per il duro lavoro nelle risaie. Il vescovo Scalabrini capì che bisognava intervenire a monte sulle cause dell’emigrazione e nelle terre di approdo con un’azione integrale di assistenza religiosa e tutela legale, morale, culturale, sanitaria e sindacale, attraverso tre figure cardine: i sacerdoti, i medici ed i maestri. Fondò i Missionari di San Carlo per assistere queste masse, ma si impegnò affinché tutti, clero, laici, la Santa Sede e lo Stato con leggi specifiche, operassero per la promozione dei migranti e la tutela dei loro diritti. Comprendendo di trovarsi di fronte una tematica complessa, cercò la concertazione di tutte le sinergie possibili ed i contatti con studiosi ed operatori dell’emigrazione internazionali, oltre a studiare appassionatamente il fenomeno, pubblicare i risultati delle sue analisi e divulgarli in visite pastorali e conferenze. Una metodologia attualissima, ancora oggi sollecitata dalla Chiesa, come ha sottolineato Padre Bentoglio.  

Particolare lungimiranza – e sintonia con la visione scalabriniana – dimostrò anche don Domenico Farias, indimenticato sacerdote reggino, scomparso nel 2002, di cui non è semplice tratteggiare la poliedrica figura: la propensione sconfinata per lo studio, lo sguardo aperto sul mondo pur nel radicamento convinto nel Meridione, la capacità di intessere relazioni tra culture e religioni, tra i vicini ed i lontani, di coltivare una generazione di giovani proiettata a comprendere e vivere la mondialità dalle rive dello Stretto.

Tanti ne mandò a Roma alla Caritas internazionale come obiettori di coscienza, ma anche in viaggio in Terra Santa, in Turchia, in Tunisia, abbracciando la visione ideale di legami duraturi e seri nel Mediterraneo.

«Voleva che ampliassimo il nostro orizzonte vitale e culturale, che ci sprovincializzassimo. Alcuni di noi hanno avuto con don Farias una frequentazione ed una sintonia superiore di quella avuta con i genitori», ha spiegato il magistrato Augusto Sabatini, che ha vissuto come un dono la lunga vicinanza al sacerdote, «un persona speciale, capace di grande penetrazione e stupore», definito anche atipico in quanto non operò mai in una parrocchia, ma si dedicò alla Chiesa attraverso l’insegnamento – prima Matematica e Fisica al Seminario di Catanzaro, poi Filosofia del diritto all’Università di Messina – la catechesi, la sollecitudine alla vita sacramentale e un’intensa attività di assistenza spirituale degli universitari della Fuci, dei medici e dei giuristi cattolici e del Movimento ecclesiale di impegno culturale. Nutrì la sua curiosità e l’attitudine allo studio ed al confronto attraverso l’amicizia con figure come Ivan Illich, il filosofo austriaco fautore della società conviviale, Maurice Borrmans, padre missionario curatore dei rapporti con l’Islam per la Santa Sede, il Cardinale Camillo Ruini, il vaticanista Luigi Accattoli.

Ai giovani inculcò quello che lui stesso incarnava: esercitare la mondialità come fondamento della presenza del cristiano nella vita della Chiesa. Nell’ultima fase della sua vita, don Domenico Farias evidenziò il processo che stava portando  alla caduta delle identità nazionali e alla mescolanza tra diversi popoli. Non parlò di multiculturalità, ma di policromia culturale, da coltivare, appunto, attraverso la bellezza delle relazioni, dell’amicizia e della conoscenza. Colse, nondimeno, l’impreparazione della Chiesa e dello Stato ad affrontare le nuove sfide e sottolineò l’importanza anche dei piccoli gesti, dei comportamenti, quando non si possono offrire servizi strutturati: una mensa in un locale parrocchiale, una camera data in affitto al giusto prezzo, un sorriso a chi ci lava il vetro, la prassi della carità come parte integrante dell’evangelizzazione. Don Domenico rilevò come il territorio della Diocesi fosse rimasto estraneo ad episodi di violenza, ma ricordò che violenza è pure lo sfruttamento del lavoro dei migranti, la clandestinità, i fitti esosi richiesti per abitazioni fatiscenti.

Se questa è la traccia lasciata dalle due luminose figure della Chiesa ricordate nel seminario di studio, naturale chiedersi cosa avviene oggi nella Diocesi reggina. La risposta ha il volto, finalmente sereno, di tante donne e uomini che sono stati accolti ed hanno impresso un corso diverso alla propria vita, attraverso la felice collaborazione tra laici e religiosi realizzata nel progetto Libero di essere me stesso, sostenuto economicamente dalla Conferenza episcopale italiana e curato dalle Cooperative Demetra e Res Omnia, con il Centro diocesano Migrantes ed i padri scalabriniani  della Parrocchia di Sant’Agostino. 

Le due cooperative nascono da giovani desiderosi di impegnarsi nella propria terra, mettendo al servizio della comunità le rispettive competenze, l’entusiasmo e la capacità di fare rete, trovare soluzioni insieme ed attivare risposte tempestive, elemento sicuramente non trascurabile in una società in cui si è abituati a fare da soli.

Libero di essere me stesso è l’ultimo segmento di un lavoro avviato da anni, con progetti già conclusi e proficue collaborazioni con altre realtà del sociale, come il Centro comunitario Agape, con cui Demetra e Res Omnia hanno avviato uno Sportello orientamento, da cui sono passate 1365 persone.

Bashir era ospite di una Comunità sulla jonica, senza speranze, malato, rinchiuso nello scoramento e nel silenzio. Il progetto l’ha preso in carico, ha creato su di lui un percorso di formazione ed inclusione ed oggi il ragazzo indiano ha ritrovato il sorriso e la fiducia in sé stesso, attraverso il lavoro agricolo sui terreni confiscati in contrada Placanica di Melito Porto Salvo. Kati, giovane georgiana, ha avuto aiuto per sé e i suoi figli. A Dam, arrivato dal Gambia, si sono aperte le porte di Casa Farias.

Resterà il tempo necessario per trovare una sistemazione stabile, intanto ha cominciato un tirocinio di lavoro. Ma non tutti i casi possono essere seguiti, tiene a precisare Cristina Ciccone, presidente della Cooperativa Demetra. È necessaria una scelta convinta da parte del migrante e la sottoscrizione di una sorta di accordo con l’equipe che ascolterà i suoi desideri, valuterà le sue inclinazioni e le sue capacità e con lui disegnerà un percorso di studio e di formazione con un approccio olistico, che mette al centro la persona nella sua dimensione bio-psico-sociale. I dati raccolti dal 2018 dicono che il 90 per cento di chi è stato inserito continua a lavorare e, di questi, l’80 per cento rimane nello stesso posto, da leggere anche come un’integrazione realizzata nella società reggina ed una capacità dei migranti di svolgere le mansioni richieste con professionalità e passione. 

«Le migrazioni ci inducono a comprendere che c’è un cambiamento in atto nella Chiesa» è stato il pensiero di Monsignor Franco Agnesi, vicario generale e vescovo ausiliare di Milano, membro della Commissione per le migrazioni della Conferenza episcopale italiana, giunto in riva allo Stretto per portare il suo contributo al seminario e per conoscere direttamente le esperienze di accoglienza nella Diocesi locale.

«A Reggio Calabria – racconta – ho trovato tanto calore ed entusiasmo, che denota un ricco vissuto ecclesiale e sociale. Qui si tocca con mano la volontà di non fare accoglienza banale, ma di rendere le persone capaci di trovare la propria strada, di diventare autonome, coltivare relazioni significative e migliorare le proprie vite». 

Per monsignor Agnesi, nella Diocesi di Reggio-Bova si è concretizzato quel percorso che passa dalla paura dello straniero alla relazione, quell’orientamento della Chiesa espresso efficacemente da Papa Francesco con i quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere, integrare. E non ci sono state solo le conclusioni del seminario di studio a testimoniarlo. La presenza all’incontro dell’Imam di Reggio Calabria è stata un abbraccio reale tra le comunità, mentre il pranzo con l’arcivescovo Fortunato Morrone e gli arcivescovi emeriti Vittorio Mondello e Giuseppe Morosini ha rappresentato un gioioso momento di convivialità e di conoscenza di sapori e culture diversi. (rrm)

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