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L’OPINIONE / Franco Cimino: Classi differenziali, la cultura disabile e i nuovi pedagoghi inabili all’amore

Al Sud la scuola gravemente penalizzata dall'Autonomia differenziata

di FRANCO CIMINO – Ho fatto nelle mia vita le due attività umane più belle. Per tutta la mia vita le ho fatte. Non un anno o un giorno in meno. Ho fatto il docente e il militante politico. Cioè, la Scuola e la Politica. La fisicità di questi due spazi, mai chiusi vicendevolmente, possono essere abbandonati per poco e provvisoriamente, o per sempre.

Ma ciò che sei stato lì dentro, la ragione e la funzione per cui lo sei stato, non si dismetterà mai. Un maestro e un politico, è per sempre. Così, sono io. Chi insegna, infatti, sta sempre in cattedra o tra i banchi. E chi fa politica, resta sempre in “piazza”.

Quali le caratteristiche fondamentali di questi due ruoli? Ne rimarco solo uno per ciascuno. Il maestro ha il senso della vita. Il politico quello delle istituzioni. Sono le due qualità speciali che non si insegnano e non si imparano. Si sentono. Soltanto questo. Si vivono. Dentro. Il maestro, la vita la scopre ogni giorno nei ragazzi che gli vengono affidati. In tutti e in ciascuno. Ne scopre l’essenzialità. E non come funzione ineliminabile dell’organismo, se respiri e ti batte il muscolo cardiaco vivi, altrimenti non ci sei. Neppure come diritto, obbligo agli altri, cioè, che quella condizione dell’essere ti sia assicurata.

Ci mancherebbe che in una società civile non fosse così! Il maestro sente la vita nella sua capacità straordinaria di riconoscere la qualità della stessa. Nella sua singolarità e in quella della relazione con gli altri. Per lui, ogni bambino, ogni ragazzo, ogni giovane, è speciale. Un essere speciale. Non un alunno particolare, ma una ricca della sua particolarità. Per il maestro non vi è la diversità intesa come condizione di una ridotta capacità rispetto alle abilità considerate “ giuste”.

Non esiste questa poiché non esiste la normalità. Anche perché nelle culture dominanti, “economicisticamente”orientate, la normalità è considerata un valore rispetto al concetto di forza abilitata alla produttività materiale di beni e ricchezza. Per l’insegnante, invece, esiste solo la diversità, essenziale qualità umana. Anzi, le diversità. Esse sono considerate non la condizione di inferiorità di un bambino rispetto agli altri. Ma come la somma delle tante specificità individuali. Ciascuno alunno è un pezzo della perfezione umana. Ogni alunno è valore assoluto in quanto portatore di un valore intrasferibile, la Perdona. La sua. L’insieme delle diversità, quali somma delle peculiarità individuali, sono la ricchezza della società. Sono patrimonio dell’umanità per la parte che ogni piccola comunità saprà dare ad essa. Compito della Scuola è principalmente riconoscere questo.

La prima capacità del docente sta, pertanto, nella fatica di mettere insieme le diversità, valorizzando in ciascuna ciò che essa può donare agli altri. Il maestro che sceglie tra i discenti, la scuola che seleziona e distribuisce gli alunni tra le classi differenziandoli e differenziandole, sono brutti. Anche a vedersi. Sono dannosi all’opera pedagogica. Pericolosi in tutto. Sono gli artefici di una società e di un mondo che legittima non solo la diversità nel suo differenziarsi negativo. E neppure della regola della diseguaglianza come necessità sociale. Ma il principio della forza e della prevalenza di essa su chi quella stessa forza non possiede.

Un principio dal quale discenderebbe l’obbligo “politico” della discriminazione e la necessità sociale dell’emarginazione delle persone. Un orrore, accostabile solo a quello del razzismo. E della violenza più assurda consumata in suo nome. Sono stato a Scuola, uscendone per obbligo e con rammarico, per quarantasei anni. In cattedra, la mia, che si muove tra i banchi fino a sedervisi senza scambiarla. O rinunciarvi, pur se per pochi minuti.

Non c’è mai stato anno scolastico senza che in una o più classi io non avessi un alunno cosiddetto “disabile”, per dirla con quei nuovi pedagoghi che aspirano a un seggio in Parlamento d’Europa per insegnare come si possa fare la nuova scuola “democratica”. Di questi “generali” delle nuove guerre, politici improvvisati sulle stellette che si staccano dalla divisa per rendere più elegante il doppio petto grigio della nuova ordinanza, non parlo qui, per non aiutarli a pubblicizzare gratuitamente la loro campagna elettorale. Dico a quanti li hanno ascoltati e li ascolteranno, a coloro che sono tentati di votarli e a quanti li voteranno, che se differenza c’è a scuola è solo quella tra le classi. Non altra. Posso documentare e lungamente argomentare, che quelle che hanno avuto un ragazzo o una ragazza “speciale”, sono le migliori. Tutti gli alunni diventano ragazzi speciali.

La loro intelligenza vola. E diventa creatività straordinaria. La loro sensibilità si tende come un arco da cui si lanciano velocissime le frecce della bontà, della solidarietà, del rispetto dell’altro. E quelle del riconoscimento altrui quale proprio simile a cui guardare anche per migliorarsi. Per apprendere qualità che ancora non gli appartengono. Per poi comprendere che c’è tanta bellezza nell’altro e negli altri, che la propria, da modelli esterni perfezionata, è nulla. Per sentire che ciò che fa belli è la diversità. L’essere ciascuno, a modo suo o a quello della natura, diverso perché speciale. Quei ragazzi e quelle ragazze di quelle classi sono migliori. Più educati. Più civili. Sono democratici nell’animo. Rifuggono dalla violenza perché istintivamente contrastano l’aggressività che li accompagna fino a un attimo prima di entrare nell’aula.

Tra di loro fanno a gara a chi aiuta il compagno/a speciale. E lo fanno con una sottile “furbizia” giovanile. Sanno di ricevere da quel compagno/ a molto più di quanto offrano. Si prenda, ad esempio, lo spazio della cosiddetta “ ricreazione”, quei dieci minuti che non vogliono far finire mai, quando al suono della campanella come un razzo si lanciano verso la porta per raggiungere il corridoio o il cortile. I venti e più alunni di quelle classi non si muovono se non lentamente. E mai senza quel compagno, il quale se ha difficoltà aggiuntive non resta mai solo in aula. I ragazzi di quelle classi non litigano tra loro. Per non disturbarlo/a, non concependo egli tensioni e inimicizie, quelli non urlano. Non si gridano contro. Soprattutto, cosa assai importante, rispettano le regole. Quelle comuni. E le altre che loro stessi si danno. Come rinunciare all’invidia per favorire l’aiuto dell’uno verso ciascuno e l’intera classe.

Nessuno resti in difficoltà se non ha un rendimento soddisfacente. Questo il loro motto stampato nell’animo, Nessuno venga lasciato indietro se per ragioni diverse il suo passo si è dovuto allentare. In quella classe si svolge una gara quotidiana in cui vince il Bene. Il Buono. La Bellezza dei ragazzi. Aggiungo due altre cose. Quei ragazzi, tutti della classe, studiano di più e rendono meglio. E io, prof, polemizzando a volte con i colleghi che mi accusavano di una certa larghezza valutativa, di quelle che farebbero danno al merito, aumentavo i cosiddetti voti e non di poco. E mai “bocciando” nella materia alcuno di loro. L’altra. Se sono stato un buon prof, se sono cresciuto come persona, se sono stato un buon padre, ammesso che un padre si possa auto-valutare, sono stato un cittadino serio e un politico onesto, se sono stato un figlio educato, tutto questo lo devo a quelle classi straordinarie.

In particolare, a quei ragazzi delle cui cure mi sono fatto carico con la pedagoga più antica e non ancora diffusamente applicata, la Pedagogia dell’Amore. Da tutti i miei studenti ho imparato molto. Dai quei “soldatini” che un generale, uomo “normale”, uomo forte, non porterebbe nelle sue nuove guerre, ho imparato molto di più. (fc)

 

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