di FRANCO CIMINO – No, non posso tacere. Per rabbia, per dolore rabbioso, per rabbiosa vergogna, per paura di sentire rabbia, dolore e vergogna, non ho scritto e non ho detto nulla della strage di povericristi sul mare davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro.
Morte assurda, incontrata a soli cento metri, forse meno, dalla riva. Ma, dopo la lotta politica intrisa di verbosità sterile e di accesa propaganda su quegli stessi morti, che saranno molto più dei sessantasette finora contati, (anche se fosse stato uno soltanto) dopo il rimpallo di responsabilità seguenti alle prime dichiarazioni che le negavano tutte, dopo le dichiarazioni assurde di incerti uomini di governo e quel pietismo opportunistico che ha compreso anche la gara a prendersi nei propri cimiteri già saturi il cadavere più bello, non posso restare in silenzio.
Non posso io, che da lontani anni mi batto per un mondo più giusto in cui sia finalmente debellata ogni sorta di violenza. Specialmente di quella che, nascendo dai nostri egoismi e dalle più becere lotte di potere, genera continuamente le guerre mondiali di diverso genere. Anche quelle che facciamo finta di non vedere, quali la fame, la siccità e le carestie, le dittature sanguinarie, i terremoti che squarciano la terra e ne polverizzano tutto ciò che vi sta sopra. Queste, le guerre che chiamiamo con un altro nome. Di chi è la colpa dell’ultima strage? È la domanda per la distrazione dei popoli.
Degli stessi delle prime e delle precedenti, è la risposta. Ed è una, una soltanto e senza ombra di dubbio. Per esserne più sicuro, applico un principio che ho già richiamato nelle morti delle piazze delle manifestazioni e nelle carceri delle detenzioni. Oppure, negli “incidenti” ferroviari e similari. E nei crolli di ponti e di strade. E di palazzi. Questo il mio principio: quando in un luogo sottoposto al pieno controllo dello Stato, cittadini e persone tutte, cadono vittime innocenti di un qualsiasi atto violento, quelle morti si appartengono, quale prima responsabilità, allo Stato. A quel determinato Stato. Dire che le morti in mare sono procurate dagli scafisti o addirittura degli stessi migranti che hanno la doppia responsabilità di portare a morire i figli, sia pure per disperazione, e di aver abbandonato il proprio Paese senza essersi posti neppure la domanda kennedyana di cosa potessero fare loro per aiutarlo, equivale ad affermare che responsabili di un assassinio sono il coltello o la pistola che hanno ucciso.
Dire inoltre, cosa cervellotica, che chi lascia il proprio Paese è un vile traditore punibile magari penalmente per il reato di evasione dalla propria responsabilità civica, è come accusare chi viene colpito duramente del dolore che prova. Se hai fame e i tuoi figli la soffrono fino a morirne, devi restare nel tuo paese. Se il tuo paese è in guerra da decenni, la tua casa é stata distrutta dai bombardamenti, i tuoi cari uccisi, i tuoi figli non hanno scuole ma come unica prospettiva solo uno di quei campi profughi in cui manca tutto e dove a milioni sono costretti esseri umani provenienti da diverse regioni di quel continente già devastato da guerre, terremoti e povertà, tu non devi spostarti da lì.
Questo è il motivo leggero, che viene recitato nelle politiche dure dei respingimenti o delle chiusure di porti e confini a quanti vengono chiamati clandestini o irregolari, o in altro similar modo. Quest’ultima strage di povericristi mi sembra un banco dell’ipocrisia, posto davanti alle bare e nelle piazze o davanti alle chiese e i portoni chiusi delle istituzioni. Ci sono i morti, e tanti e ne ne parla. Diffusamente. E questi morti, nello stesso tavolo dell’ipocrisia, vengono utilizzati come strumento di pressione di una politica debole, quella italiana, presso Bruxelles, ancora sorda al richiamo di quella stessa Europa dell’antica cultura democratica perché umanista e viceversa. I morti, ecco i morti, i povericristi necessari per testimoniare il dramma più grave che possa esistere sulla terra, mi ricordano le parole pronunciate da una vittima della mafia-‘ndrangheta in un recente incontro pubblico.
L’imprenditore, ferito alcuni anni fa in un attentato per essersi rifiutato di pagare il pizzo, ha detto testualmente: «come per i magistrati più valorosi, per essere considerati, dallo Stato e dalla gente, vittime della mafia, bisogna morire uccisi». Ecco, per capire il dramma di chi lascia tutto, paga una cifra enorme ai mercanti di carne umana, per poter raggiungere una costa “pacifica” e umanizzata, e la speranza, soltanto la speranza, di una vita diversa per i propri figli, ci vogliono i morti annegati o quelli bruciati sulle carrette del mare che prendono fuoco. Ogni volta di più tanti più morti ne occorrono per superare l’assuefazione di quelli già contati precedentemente.
Altrimenti, di quei povericristi che hanno avuto la fortuna, e sono migliaia e migliaia, di raggiungere la terra ferma della vita nuova, non ne parla nessuno. Soltanto quei politici da salotti televisivi che li usano per le contrapposizioni delle loro ridicole propagande. Osserviamo meglio le scene di questi giorni, e le ultime di stamattina con la visita del presidente della Repubblica. Tutti dietro di lui, il nostro pur sincero capo dello Stato e uomo onesto e profondamente sensibile. Ma dove siamo stati, tutti noi anche attraverso i nostri occhi puntati sulle televisioni? Siamo stati al palazzetto dello sport, quella nuda chiesa areligiosa di fredde alte pareti, dove sembra non esserci entrato l’unico Dio di tutte le fedi. Qui c’erano le sessantasette bare, di cui le cinque bianche dei bambini.
E un po’ di parenti a piangerle. Subito dopo, il lungo corteo si è spostato all’ospedale dove stavano ricoverati quei povericristi feriti, che, io credo, non vorrebbero più spostarsi da lì. Da quelle amorevoli cure, da quei letti. Da quelle stanze calde. Da quei pasti completi e sicuri. E caldi. Un rapido saluto di Mattarella e il corteo si scioglie via via che le auto presidenziali raggiungessero l’aeroporto. Al Care di Isola di Capo Rizzuto, dove stipati come sardine a quelli che c’erano già da prima, si trovano i sopravvissuti a quella inspiegabile e, perciò, inaccettabile tragedia dell’altro ieri, i circa cento povericristi più terrorizzati che contenti, più disperati che sollevati, non vi è andato ancora nessuno. Eppure, sono loro quelli che hanno più bisogno di aiuto. Il primo, quello della garanzia di restare in Italia, e di non essere rinviati ai lager da cui sono fuggiti, come vorrebbe, per la gran parte di quei povericristi, la nostra legge.
In quei lager, “stazione” finale della lunghissima attesa dopo la “ traversata del deserto”, dentro i quali si consuma su tutti ogni crudeltà, mentre si aggrava la violenza indicibile su quei poveri corpi, specialmente femminili e infantili, attrattivi delle peggiori e disumane forme di pulsioni. Nelle guerre classiche d’occupazione si chiamano elegantemente stupri di guerra. In quest’altra guerra, potremmo chiamarli il diritto acquisito dei mercanti di carne umana, che in quel luogo incontrollato si fanno carcerieri dei prigionieri, padroni degli schiavi, titolari della vita e della morte di ciascuno di quei povericristi.
L’altro aiuto che chiedono è di poter vivere degnamente, di non essere costretti, le giovani donne alla prostituzione e i bambini all’accattonaggio, a una vita non meno miserevole di quella lasciata nel paese d’origine. Di non essere scelti, come si fa al mercato degli animali, sui criteri di convenienza del potere economico, per i quali, come è stato recentemente richiesto da alcuni vertici aziendali al governo, è necessario una certa quantità di forza lavoro per poter mantenere o accrescere la produttività delle proprie aziende. Anche questo quei povericristi, nella lingua che presto dimenticheranno, chiedono all’Italia.
Chiedono all’Europa. E alle società democratiche. Lo chiedono alla nostra cultura e tradizione cristiana, che sono patrimonio e guida della nostra civiltà. Dalle risposte che sapremo dare a quei vivi, avremo la dignità di rispettare i loro morti. Se daremo “pane” buono ai sopravvissuti, avremo donato la più degna sepoltura a chi non ce l’ha fatta a raggiungere la spiaggia di Steccato di Cutro. E non per colpa del mare agitato. Ché il mare non è mai assassino. (fc)