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L’OPINIONE / Raffaele Malito: La popolarità, in discesa, del sindacato

Bandiere sindacali Cgil-CIsl-Uil

di RAFFAELE MALITONei grandi cambiamenti globali sociali, economici e culturali dei paesi dell’occidente a storica, solida democrazia liberale ci sono, nei tempi che viviamo, anche quelli che riguardano la popolarità e il rapporto tra masse popolari e il Sindacato: mai negli Usa i sindacati dell’auto, la potente United Auto Workers, aveva goduto della popolarità di questi giorni, il 71%, secondo la Gallup. Al punto che Biden, in vista delle prossime elezioni presidenziali, ha colto l’occasione per andare, con il megafono, tra gli operai e sostenere, a spada tratta, le loro consistenti, remunerative rivendicazioni salariali.                                                                                                           

Una situazione rovesciata In Italia: un sindacato- associazione, ancora fortissimo, con 11,5 milioni di iscritti a Cgil-Cisl-Uil ha, al contrario, una popolarità piuttosto  bassa nei sondaggi universalistici, ben lontana dai picchi americani. Il contesto italiano è molto diverso: il contratto  dei metalmeccanici scadrà  nel prossimo anno e solo  nei giorni scorsi nell’assemblea della Federmeccanica si è cominciato  a parlare di  un rinnovo, con una discontinuità  importante, di un contratto, cioè, ESG (Environmental Social Governnance) che ponga la compatibilità tra i fattori ambientali, sociali, finanziari e investimenti, nel medio e lungo termine, delle aziende con un nuovo metro di valutazione delle imprese e della loro organizzazione.                                                                                                                        

Al momento al centro del sistema industriale c’è la vertenza della Magneti Marelli, lo stabilimento che produce il motore endotermico e che il proprietario ( il fondo americano Kkr) vuole chiudere. La vicenda desta preoccupazione perché potrebbe essere la prima di una serie, nel  triangolo industriale italiano, e falcidierebbe con la chiusura o il ridimensionamento la componentistica  interessata alla transizione nell’elettrico.

Il leader di Azione, Carlo Calenda, ha puntato il dito contro la Cgil e il suo segretario, Maurizio Landini, accusandolo di non aver fatto nulla contro la deindustrializzazione del settore metalmeccanico. Scarsa politicizzazione, dunque, di questa vertenza, proposta, in coerenza con la propria vocazione movimentista, solo dalla segretaria del Pd Elly Schlein – è da verificare con quanta efficacia – che è andata a testimoniare la solidarietà ai 290 operai in lotta contro la chiusura dello stabilimento.                                                                                                   

Un tempo gli autunni caldi erano caratterizzati dalle grandi vertenze per il lavoro e sviluppo che metteva di fronte operai e i datori del lavoro delle grandi aziende: oggi la stagione sociale “calda” delle vertenze potrebbe riguardare – con qualche sorpresa – i difficili, o inesistenti, rapporti tra le grandi confederazioni sindacali, Cgil e Cisl.

Il dilemma è tra sindacato-movimento o Associazione: la Cgil ha promosso per il prossimo 7 ottobre  un grande corteo a Roma, senza le altre sigle sindacali ma con circa 100 a associazioni grandi e piccole del terzo settore. È una classica manifestazione “movimentista” dentro la quale ci sono la difesa della Costituzione,  i temi della legge di bilancio, insomma, temi squisitamente politici del tutto coerenti e rivelatori dell’ orientamento di Landini e delle sue aspirazioni leaderistiche in un campo non più sindacale  ma squisitamente politico: contro il governo Meloni, certamente, ma anche fuori degli schieramenti partitici, anche quelli di sinistra, tutta la politica che Landini  ritiene delegittimata dall’astensionismo elettorale.                  

Il corteo di Roma è una prova delle possibilità di successo dello sciopero generale, previsto dalla Cgil, ma non ancora deciso. La Cisl ha già fatto sapere che non lo condivide e non aderirà. L’Uil, incerta, non ha ancora fatto conoscere le proprie valutazioni. La Cisl, restando nei binari squisitamente sindacali, rifiuta gli scioperi generali di protesta e, coerentemente con la mobilitazione dei mesi pre-estivi  vuole vedere le carte: se il governo conferma il taglio del cuneo fiscale e la detassazione delle tredicesime sarebbe difficile motivare uno sciopero di otto ore. Insomma l’idea di uno sciopero di otto che, costa 70 o 80 euro a ogni lavoratore, è prematura,  dura da sopportare e destinata a scarsa adesione. Si ripeterebbe quanto  è accaduto con lo sciopero, proclamato dalla Cgil, e fallito contro il governo Draghi: servirebbe solo a sventolare bandiere identitarie di una singola confederazione.   

A dividere le due grandi confederazioni sindacali c’è anche la diversità di posizione sul salario minimo. Il segretario della Cisl Sbarra ha sempre difeso la contrattazione collettiva  e considera un tradimento la scelta della Cgil di una legge destinata esclusivamente al lavoro povero. E ripropone il tema della partecipazione dei lavoratori alle decisioni di impresa e ai consigli di amministrazione, lanciando una proposta di legge d’ iniziativa popolare che porterà, con le necessarie 50mila firme, all’attenzione dei gruppi parlamentari. Sarà interessante verificare, dopo tanti elogi a mezzo stampa, quali partiti  saranno pronti a sostenere l’iter di approvazione di un provvedimento  legislativo che ricorda e ripeterebbe  la tradizione tedesca che prevede, in alcune grandi aziende, la cogestione con la partecipazione agli utili e al destino delle imprese.

Anche su questo grande tema c’è  grande divisione: La Cgil mugugna e non ha deciso alcunché. Insieme con l’Uil, ha preferito sorvolare come se la proposta di legge del Cisl non esistesse. Un’ennesima prova delle pesanti divisioni che si vivono nel mondo sindacale. Che resteranno tali se non si scioglie il dilemma tra  Sindacato-movimento con mire e destini puramente politici, rappresentato da Landini e Associazione, puramente sindacale, rappresentata da leader come Luigi Sbarra. È la chiave che apre e spiega i tanti perché della scarsa popolarità del Sindacato  italiano e di una buona parte dei suoi dirigenti. (rm)

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