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NESSUNO DISTINGUE TRA IL REGIONALISMO
“DIFFERENZIATO” E FEDERALISMO FISCALE

Roberto Occhiuto e Roberto Calderoli

di ETTORE JORIO – L’iter parlamentare del Ddl Calderoli sta diventando – da una parte – più complesso nell’essere giudicato approfonditamente, a seguito delle analisi effettuate dagli organismi di assistenza tecnica di Senato e Camera, e – dall’altra – un po’ trascurato dalle minoranze parlamentari nella proposizione di integrazioni e modifiche nel senso di implementarlo sensibilmente.

Per il resto, si registra una critica, per lo più politica, che si ripete da tempo, confondendo spesso il regionalismo differenziato con il federalismo fiscale. Quanto a quest’ultimo – affidato unitamente alla individuazione dei Lep per materie o ambito di esse, ad una istituita Cabina di regia (art. 1, comma 792, legge 197/2022), quanto alla determinazione dei costi e dei fabbisogni standard che andrebbero finalmente a sostituire il criterio della spesa storica – si registra un contributo di poco conto.

In proposito, sta invero accadendo quanto avvenuto sin dal 2011, nonostante l’adozione del d.lgs. n. 68 attuativo della legge nr. 42/2009: quella inattività, parlamentare e burocratica, che ha fatto perdurare l’attuale stato di finanziamento del sistema autonomistico territoriale fondato sul costo storico.

Quel criterio che assicurava (e ancora assicura) alle Regioni un finanziamento pari a quello trasferito alle stesse dallo Stato l’anno prima,  perpetrando così le anomalie erogative che hanno caratterizzato i disservizi vissuti in tema di diritti sociali, a partire dalla sanità e
dall’assistenza sociale.

Dunque, rispetto al Ddl Calderoli sul regionalismo differenziato si registra ben poca cosa a sostegno della ineludibile previsione della disciplina della perequazione ordinaria, ma anche di quella infrastrutturale indispensabile perché le Regioni possano iniziare il nuovo percorso partendo dallo stesso start.

Di recente, sono stati due gli episodi di critica costruttiva registrati dall’esordio dell’iniziativa Calderoli (A.S. 615) all’esame del Senato della
Repubblica. Il primo riguarda il dossier a firma del Servizio di bilancio, per l’appunto del Senato, destinato a contribuire agli approfondimenti che si rendessero necessari ai parlamentari e loro organi.

Un tale lavoro, curato in alcuni particolari, è soprattutto intervenuto principalmente sulla sua ricaduta istituzionale del regionalismo
asimmetrico, asserendo che l’applicazione a regime di quanto previsto dal Ddl Calderoli determinerebbe un rilevante trasferimento di funzioni amministrative alle Regioni richiedenti derivante da un diverso e differenziato trattamento delle competenze legislative, ex art. 116, comma 3, della Costituzione. Tutto questo – sottolineato e presunto in una ovvia via ipotetica, a commento dell’art. 4 (“nel caso di un consistente numero di funzioni oggetto del trasferimento”) – comporterebbe per realizzare le sue aspettative una sensibile acquisizione delle risorse umane, strumentali e finanziarie corrispondenti alle materie differenziate.

Di conseguenza, farebbe registrare, tenuto conto del principio dei vasi comunicanti, un decisivo incremento dei bisogni economico-finanziari dei rispettivi bilanci regionali a spese di quello statale, tanto da mettere in forse l’esigibilità dei Lep nelle «regioni non differenziate».

Un fenomeno, questo, che potrebbe causare una sorta di catastrofe finanziaria delle Regioni «con bassi livelli di tributi erariali maturati nel proprio territorio», tanto da non potere «finanziare… le funzioni aggiuntive». Non solo. Una tale situazione, generativa di una ovvia
distribuzione sussidiaria delle nuove funzioni amministrative agli enti locali, impedirebbe alle Regioni differenziate di potere godere delle economie di scala, a causa dell’obbligo di sostenere comunque «costi fissi indivisibili legati all’erogazione dei servizi la cui incidenza aumenta al diminuire della popolazione».

Questi sono stati i rilievi che emergono dal contenuto della “Bozza provvisoria non verificata” del 16 maggio scorso, a firma dei tecnici del Senato, cui si è fatto riferimento. In essa si danno per scontati alcuni dati senza però considerare la imminente diversità della anzidetta metodologia del finanziamento fondata su costi e fabbisogni standard peraltro funzionali a rendere sostenibili i Lep di prossima definizione (legge di bilancio per il 2023, commi 791-801).

Nonostante ciò, i tecnici del Senato pervengono a preoccupanti conclusioni in presenza però di diverse incognite imprescindibili per pronosticare ragionevolmente il futuro in assenza dei fattori di costo/servizio fondamentali, del tipo: quali saranno le materie oggetto di legislazione differenziata scomponibili in livelli essenziali di prestazioni, a fronte delle quali saranno determinate le funzioni amministrative da attribuire al sistema autonomistico; in che cosa consisteranno materialmente i Lep, da assicurare uniformemente in termini di esigibilità alla popolazione nazionale tutta (ad oggi si conoscono solo i Lea, con tanta difficoltà ad attualizzarli sul fabbisogno epidemiologico variabile per sua natura); quali saranno le risorse occorrenti per assicurarli, indipendentemente dal regionalismo differenziato, derivanti, in primis, dalla messa a terra del federalismo fiscale (determinazione dei costi e dei fabbisogni standard) e, in secondo luogo ma di certo non meno importante del primo, da come sarà disciplinata la perequazione, alla quale sia il Ddl Calderoli che la relazione del Servizio di bilancio del Senato fanno appena un timido riferimento non affatto esaustivo rispetto all’importanza che le assegna la Costituzione (art. 119, commi 3 e 4).

Quanto e per quali materie o ambiti di esse varrà la perequazione al 100%, a totale copertura della differenza tra il gettito territoriale e quanto occorrerà per sostenerli, calcolato sulla base dei fabbisogni discriminati; per quali Lep ci sarà invece una copertura diversa dal 100% e come sarà calcolata tenuto conto del principio generale alternativo della capacità fiscale media per abitante, con evidenti e ineludibili rimedi da offrire a valle per darne certezza erogativa ovunque; se e come sarà deciso l’intervento di perequazione infrastrutturale – con l’utilizzo delle risorse di cui al comma 5 dell’art. 119 della Costituzione, del d.lgs. 88/2011 e del D.M. 26 novembre 2010 (G.U. nr. 75/2011) – a tutela della differenza di patrimonio fisso che, se non compensata velocemente, renderà impossibile alle Regioni di essere uguali ai blocchi di partenza del federalismo fiscale.

Per pervenire ad un giudizio più ponderato, fondato su previsioni ragionevoli frutto di un accurato esame complessivo delle ricadute dell’attuazione coordinata e combinata degli artt. 116, comma 3, 117, comma 2, lett. m) e p), e 119 della Costituzione, occorrerebbe elaborare le adeguate risposte agli anzidetti sei interrogativi, pena il ricorso a presunzioni immotivate.

Certo è che da una siffatta accorta analisi dovrà emergere la necessità di prevedere, in sede parlamentare, emendamenti mirati a disciplinare bene quantomeno le garanzie perequative tanto da pervenire all’approvazione in aula di un testo ragionevolmente integrato in tal senso, di certo successivamente alla definizione dei Lep per materia e alla determinazione dei costi e fabbisogni standard secondo i dettami della legge di bilancio per il 2023.

Pertanto, prima di spingersi a valutazioni previsionali, per alcuni versi catastrofiche, sarebbe il caso di acquisire due elementi importanti, peraltro rispettosi dell’autonomia che la Costituzione assegna alle Regioni, senza se e senza ma. Essi dovrebbero riguardare, ed è qui il vero nocciolo della situazione, una verosimile previsione delle Regioni a statuto ordinario che aderiranno, ricorrendovi, ad un federalismo a geometria variabile e una corretta valutazione, fatta di severi numeri arabi e non sentimentali, della ricaduta del regionalismo differenziato sul livello territoriale. Magari, pensando a quali riforme strutturali mettere mano nella contemporaneità.

L’ultimo evento è riferibile all’audizione dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb) tenuta il 6 giugno scorso presso la Commissione Affari costituzionali del Senato per voce del consigliere Giampaolo Arachi. Una relazione competente e misurata nella quale sono stati evidenziati i punti di forza e quelli di debolezza dell’intera impalcatura del Ddl Calderoli, ritenuto condivisibile quanto alla necessità di definire le procedure attuative del regionalismo differenziato ispirate alla fissazione dei criteri regolativi dei «rapporti finanziari con le Regioni che accedono a ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (Rad)».

Più precisamente, facendo seguito alla audizione UPB (Zanardi) del 10 luglio 2019 afferente alle bozze di intesa intervenute nel 2018 tra Governo e il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna che evidenziavano estraneità con la disciplina attuativa dell’art. 119 della Costituzione, sono state sottolineate le incongruenze del testo messo in relazione alla determinazione delle risorse umane, strumentali e finanziarie da assegnare alle Regioni differenziate per fa sì che le stesse possano adempiere alle loro sopravvenute maggiori attribuzioni.

Sono state sancite le basi, quantomeno sul piano dei principi fondamentali, per applicare le regole del cosiddetto federalismo fiscale con la previa determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni riferite ai diritti civili e sociali nonché con le funzioni fondamentali degli enti locali. Ciò in linea con quanto fissato dalla Costituzione all’art. 117, comma 2, lettere m) e p).

Sul tema della loro esigibilità indifferenziata, prescindendo quindi dall’attuazione del regionalismo asimmetrico, l’Upb ha posto un problema serissimo ovverosia ha sottolineato l’incognita sui possibili maggiori costi che dovranno essere affrontati nel suo complesso per assicurare le prestazioni essenziali e i servizi pubblici fondamentali uniformemente. Un rilievo serio cui occorre individuare una metodologia garante di erogazione sia nelle regioni differenziate che in quelle che non ricorreranno all’opportunità offerta dall’art. 116, comma 3, della Costituzione.

Mentre nelle prime sarà infatti compito delle Regioni medesime assicurare prestazioni/servizi derivanti dalle nuove materie acquisite in legislazione esclusiva, le altre – quelle che rimarranno così come sono oggi – dovranno continuare ad essere assistite da strutture e funzioni statali piuttosto che da quelle decentrate. Ciò vale ovviamente solo per alcune delle 23 materie soggette a differenziazione, atteso che molte di queste sono già assistite da risorse attribuite alle Regioni, sanità in primis.

L’Upb esaurisce la sua analisi in senso comunque positivo rispetto alle anzidette Intese del 2018 e ai Ddl elaborati da Boccia (2019) e Gelmini (2022), fermo restando la necessità di individuare «adeguati presidi per garantire il coordinamento della finanza pubblica tra i diversi livelli di governo».

Una modalità ineludibile che deve rendersi garante della rivisitazione periodica delle risorse a tal punto da renderle adeguate al soddisfacimento dei fabbisogni, ricorrendo al fondo perequativo. Ciò a garanzia delle naturali differenze di gettito fiscale delle Regioni più
povere incapaci di sostenere il costo autonomamente afferente alle prestazioni essenziali nello spessore indicati dai Lep.

L’osservazione conclusiva dell’UPB ha riguardato la preoccupazione che, a valle della autonomia legislativa differenziata, si genereranno di certo attribuzioni legislative diverse con conseguente eterogeneità delle relative funzioni amministrative. Il tutto con la concretizzazione di uno scenario istituzionale parcellizzato con tante Regioni obbligate ad esercitare funzioni amministrative differenti, afferenti ai Lep e ai finanziamenti corrispondenti.

Un problema, questo, sollevato anche dalla Confindustria con l’esigenza di pervenire ad una esaustiva “sostenibilità amministrativa”,
oltre a quella economica, che dovrà rintracciare la soluzione nel corso dell’iter parlamentare. (ej)

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