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PONTE, RUOLO FONDAMENTALE PER MERCI
E COSÌ PREFERISCONO PENALIZZARE IL SUD

Il rendering del progetto del Ponte sullo Stretto

di ROBERTO DI MARIA – Al Ponte di Messina si pensa soprattutto come infrastruttura utile al passaggio delle persone da una sponda all’altra dello Stretto, trascurandone il ruolo, fondamentale per lo sviluppo economico di entrambe le regioni nell’ambito del trasporto merci.

Anche i più agguerriti nemici del Ponte non possono negare che un sistema di traghettamento, per quanto ben organizzato, rappresenta un oneroso collo di bottiglia per camion, tir, autoarticolati e per il cosiddetto trasporto Ro-Ro che tanto è cresciuto negli ultimi anni attraverso l’Adriatico. Con l’aggravante che imbarchi e sbarchi dei mezzi commerciali avvengono in maggioranza dal nuovo porto di Tremestieri, infelicissima e costosissima scelta a causa di prevedibili insabbiamenti che ne limitano l’utilizzo. 

Il trasporto dei pochi carri merci – oltre il 90% del trasporto merci si svolge su gomma, a dispetto delle raccomandazioni dell’Ue – è curato dalla flotta Rfi e subisce i rallentamenti derivanti dalla scomposizione e ricomposizione dei convogli prima dell’imbarco e dopo lo sbarco. Un traffico talmente limitato da risultare ormai residuale. Non potrebbe essere altrimenti: l’inevitabile lentezza delle operazioni e la relativa rottura di carico appesantiscono il sistema, sia in termini di tempo che, soprattutto, in termini di costo.

Proprio questo è il principale obolo che la Sicilia paga quotidianamente per un’insularità facilmente superabile, determinando quel “buco” di sei miliardi annui sottratti alle tasche dei siciliani, secondo le stime dell’istituto Prometeia. Questa “tassa” sul trasporto merci determina conseguenze nefaste per Sicilia e Calabria, tali da rendere oggettivamente impossibile rispettare la prescrizione dell’Ue di trasferire da gomma a ferro il 30% del trasporto merci entro il 2030. E il 50% entro il 2050.
Per l’incomprensibile gioia degli ambientalisti italiani, evidentemente lieti di inquinare pur di evitare la costruzione del Ponte.

Quanto esposto è un quadro ancora parziale delle conseguenze negative della discontinuità territoriale tra Sicilia ed Europa. È l’intero sistema logistico meridionale a pagarne le spese. Si pensi all’impossibilità di esercitare la funzione gateway agli scali siciliani perché il traghettamento “strozza” il flusso dei container. Rendendo irridente la definizione di “Sicilia hub del Mediterraneo”.

Porti come il Pireo, Algeciras e Valencia, che “guardano” verso Suez e il Nord Africa, analogamente a quelli del nostro Mezzogiorno, sono riusciti ad attrarre quantitativi di merci doppi o tripli rispetto a quelli di Genova e Trieste. Intorno a questi scali si va sviluppando la Logistica connessa alle nuove “catene del valore corte”, che attraendo i grandi Edc (European Distribution Centre) e la manifattura ad essi sempre più collegata, finiranno per dare un colpo mortale alla Pmi lombardo-veneto-emiliana. Un disastro economico facilmente prevedibile già anni or sono, verso il quale i governi nazionali conducono il Paese con colpevole incoscienza. 

Spagna, Grecia, Turchia, Egitto, Marocco e Cina lavorano alacremente per interfacciare i corridoi Ten-T europei con i futuri grandi assi trasportistici africani e mediorientali, che irradieranno sviluppo in territori abitati da centinaia di milioni di giovani ansiosi di crescere economicamente, socialmente e culturalmente. Ci vorranno decine di anni ma la programmazione geoeconomica va fatta ora, considerati i tempi lunghi necessari per realizzare le reti infrastrutturali necessarie.
I porti siciliani senza Ponte e quelli calabresi e pugliesi senza Av/Ac ferroviaria sono tagliati fuori da questi progetti planetari. 

Appare persino superfluo spiegare che nessun armatore, sano di mente, scaricherebbe i propri containers in un qualsiasi porto siciliano, sapendo che gli stessi dovrebbero essere re-imbarcati a Messina e re-sbarcati a Villa S. Giovanni per proseguire il loro viaggio verso l’Europa. Operazione che renderebbe impraticabile, dal punto di vista economico, questa soluzione, senza considerare le complicazioni in termini di strutture e navi da coinvolgere.

Possono comprendersi, in questo modo, le conseguenze che l’assenza del Ponte comporta non soltanto per la Sicilia, ma per l’intera Nazione, che perde l’occasione di sfruttare appieno le proprie regioni meridionali, protese come un enorme molo verso il Mediterraneo, su cui transita il 25% del traffico mondiale di containers.

La pianificazione della logistica sposata dall’attuale governo e dai precedenti, ha invece cristallizzato la sua attenzione su Genova e Trieste, destinandovi la quasi totalità dei fondi previsti del Pnrr per la portualità su tutto il territorio nazionale.

Per far piovere alcuni miliardi su Genova, l’Italia rinuncia a tentare di rivestire un ruolo chiave nell’ambito del sistema mediterraneo, condannando all’irrilevanza aree potenzialmente straordinarie come Augusta, Gioia Tauro e Taranto. Scali che – inseriti in un contesto locale ricco di opportunità (nuove Zes) – potrebbero generare un enorme valore aggiunto sia in fase di realizzazione che in esercizio. Valore aggiunto che, senza Ponte, resterebbe in buona parte inespresso. 

Ancora una volta, quindi, ci rendiamo conto di quanto assurdo e miope sia il benaltrismo del “prima le strade” o “prima le ferrovie” se non addirittura “prima i porti del Nord”. Perché tali infrastrutture hanno un senso soltanto se danno continuità al sistema infrastrutturale continentale. Condizione molto, ma molto più importante di quanto non si creda. 

Ciò che sorprende è che, in un mondo che resterà globalizzato ancora per tutto questo secolo – pur se in modalità più evolute di quelle viste alla fine del secolo scorso – l’Italia non riesca a cogliere l’importanza della connettività e qualcuno arrivi a considerare l’isolamento come un valore da mantenere. Un’idea che sta scavando la fossa alla Sicilia, coinvolgendo, come abbiamo visto, l’intero Paese. (rdm)

(Roberto Di Maria è ingegnere dei Trasporti)

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