di GIOVANNI MACCARRONE – Prenotare una prestazione sanitaria all’interno del nostro Paese è abbastanza semplice. Una volta ricevuta la prescrizione medica dal proprio medico di base, è possibile contattare telefonicamente il Centro Unico di Prenotazione (Cup) e verificare così la lista d’attesa.
Per le visite specialistiche e gli esami diagnostici con la lettera D (differibile), gli esami o le visite specialistiche dovrebbero essere fatte tra i 30 e i 60 giorni, mentre per quelle con la lettera U (urgente) gli esami o visite specialistiche dovrebbero essere fatte entro le 72 ore.
Sta di fatto che frequentemente per queste ed altre categorie la lista d’attesa supera di gran lunga questi tempi.
Per cui, il cittadino, per ricevere il servizio con tempi più rapidi, ricorre spesso ai servizi intramoenia (o in regime “intramurario”): l’attività libero-professionale che avviene all’interno delle strutture sanitarie, senza dover pagare il medico come “privato”, corrispondendo solo il ticket.
Altre volte, invece, preferisce utilizzare le strutture private convenzionate che possano offrire lo stesso servizio nei tempi previsti o comunque di qualità superiore a quello fornito da istituzioni pubbliche (Asl, Ao ecc.).
Altre volte ancora si preferisce, invece, andare lontani da casa per curarsi, quasi sempre dal Sud in direzione Nord, nella speranza di ricevere le cure migliori per la propria malattia.
Si stima che i «viaggi della salute» interessino, in un anno, circa un milione di italiani. Nel 2022, solo i ricoveri effettuati fuori Regione sono stati quasi 630 mila (contro i 498 mila nel 2020, anno della pandemia) come rilevano i dati dell’Ufficio statistica e flussi informativi sanitari di Agenas, l’Agenzia nazionale dei servizi sanitari regionali.
Quindi, approssimando i conti, senza voler far delle vere stime, potremmo tranquillamente dire che le spese sanitarie per le famiglie sono annualmente molto elevate.
È vero che, per rispetto del dettato dell’articolo 32 della Costituzione, agli indigenti devono essere comunque in ogni caso garantite le prestazioni sanitarie gratuite, ma è anche vero però che, per quanto detto sopra, costantemente i cittadini sono tenuti ad affrontare ingenti spese per la salute.
Le famiglie già finanziano il sistema sanitario italiano tramite il fisco e, in particolare, per il 36% dall’Iva e dalle accise sulle benzine, il 28% dall’Irap e dall’addizionale Irpef, il 14% dai pagamenti diretti (prezzi), il 3% dai ticket e un altro 5% da premi di assicurazioni e mutue integrative; il restante 11% da altri tipi di tributi.
Tra l’altro, a seguito della crisi finanziaria in atto e` molto probabile che le famiglie saranno chiamate in futuro a un maggiore sforzo fiscale per finanziare il Ssn, sia sotto forma di aumento dell’addizionale Irpef (prevista fino al 3% dal D. Lgs. 68/11 sul federalismo fiscale), sia di maggiori compartecipazioni alla spesa sanitaria (+2 miliardi di euro, secondo la L. 111/11).
Va poi considerato che, data la consistenza dell’evasione e dell’elusione fiscale che ancora permangono nel nostro sistema tributario, i costi della sanità sono sopportati essenzialmente dal mondo del lavoro, che – come si è appena potuto notare – è quello che fornisce essenzialmente gli utenti della sanità pubblica
Insomma, è come il “cane che si morde la coda”, che è un modo elegante per dire che è un circolo vizioso, una situazione senza via d’uscita.
A questo proposito, bisogna considerare che quasi venti milioni non fanno la denuncia dei redditi. Il 48 % non versa neppure un euro. Quasi il 90% dell’Irpef è pagato da lavoratori dipendenti e pensionati. Dal 2024 la no tax area salirà a 13 mila euro. Sarà un aiuto per i veri poveri ma un paradiso fiscale per i finti poveri. Viene tartassato chi guadagna 50 mila euro lordi (poco più di duemila euro netti), con una tassa del 43% più le varie addizionali comunali e regionali, mentre i ricchi portano all’estero la sede delle aziende e la loro residenza fiscale. Solo 35 mila persone dichiarano più di 300.000 euro all’anno.
Quindi – stando a quanto sopra – attualmente il Servizio Sanitario Nazionale si regge grazie al finanziamento dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, i quali, tra l’altro, ricevono spesso un salario annuo lordo medio inferiore a 11.000 euro (secondo uno studio condotto dall’Ufficio Economia dell’Area Politiche per lo Sviluppo della Cgil Nazionale, più di 5,7 milioni di lavoratori si trovano in questa situazione).
Con questo salario devono pagare soprattutto tasse, luce e gas, spese di locazione, spese condominiali, spese per mantenere una macchina, spese per la benzina (il prezzo della benzina in Italia come in tutto il mondo ha subito fortissimi rialzi nel 2022 a causa della guerra in Ucraina, arrivando anche a sfondare il tetto dei 2 euro al litro), ecc.
Se a queste spese aggiungiamo anche le spese per curarsi, si capisce il vero motivo per cui frequentemente qualcuno rinuncia alle cure (l’aumento delle spese per la salute riguarda tutte le macro-aree del Paese: al Centro e al Sud si registrano aumenti di oltre 100 euro a famiglia).
Purtroppo, questo fenomeno è molto più frequente nelle Regioni del Mezzogiorno, proprio quelle dove l’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza è inadeguata: di conseguenza, l’insufficiente offerta pubblica di servizi sanitari associata alla minore capacità di spesa delle famiglie del Sud condiziona negativamente lo stato di salute e l’aspettativa di vita alla nascita, un indicatore che vede tutte le Regioni del Mezzogiorno al di sotto della media nazionale.
Un indicatore che – come viene solitamente commentato sulla stampa – è il risultato del “monitoraggio Lea”; si tratta di una serie di indicatori (perlopiù di struttura e di processo) volti a cogliere il rispetto dei Livelli Essenziali di Assistenza nelle Regioni italiane (il monitoraggio viene effettuato dal c.d. Comitato Lea, Comitato permanente per l’erogazione dei Lea, istituito presso il Ministero della Salute).
L’indicatore non consente di tornare a vent’anni fa ma, dal 2012 al 2019 (l’anno pre-pandemia), il “punteggio Lea” è sensibilmente migliorato in tutte le Regioni a Statuto Ordinario, ad esclusione della Calabria (che ha avuto un calo da 133 a 125), ed in tutte le Regioni a Statuto Speciale, ad esclusione della Sardegna (per la quale i dati si raccolgono dal 2017 e che ha visto un calo da 140 a 111 in tre anni).
Sulla base di questo indicatore non sarebbe quindi azzardato concludere che la qualità delle cure sia peggiorato, soprattutto nelle regioni sottoposte a piano di rientro e commissariamento (le procedure di commissariamento riguardano ben quattro regioni, tra cui la Calabria dal luglio 2010).
Ecco perché il 55% delle persone che negli ultimi anni hanno ricevuto una visita specialistica e il 40% di quelle che hanno avuto accesso a un trattamento riabilitativo abbiano coperto completamente a proprie spese il costo della prestazione.
Questa è una situazione inaccettabile che può essere superata solo ed esclusivamente con una nuova governance delle aziende sanitarie, con maggiori assunzioni di responsabilità economica da parte di amministratori regionali e direttori aziendali e maggiore flessibilità nella sfera operativa.
Inoltre, maggiori controlli sui manager delle Asl e delle Ao potrebbe in particolare agevolare l’attuazione delle misure di contenimento della spesa assunte ai vertici del governo centrale e regionale.
Senza dimenticare, infine, che il Pnrr ha destinato alla Missione Salute 15,63 miliardi, pari all’8,16% dell’importo totale, per sostenere importanti riforme e investimenti a beneficio del Servizio sanitario nazionale, da realizzare entro il 2026.
Poi “Tutto il resto è noia”, come dice Califano.
Speriamo bene. (gm)