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SANITÀ PRIVATA, IN CALABRIA È ALLARME
CONTI SALATISSIMI E POCHE PRESTAZIONI

SANITÀ PRIVATA, PER CALABRIA È ALLARME CONTI SALATISSIMI E POCHE PRESTAZIONI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Quasi 50mila euro per operare un tumore al seno in Calabria, circa 400 euro per un check up cardiologico nella stessa regione, 1.500 euro al giorno per un ricovero a bassa complessità e quasi 30mila euro per una degenza di due settimane ad alta complessità nel medesimo territorio. Sarebbero questi gli effetti che si avrebbero se in Calabria la sanità fosse privata. Numeri che «fanno rabbrividire» e che sono emersi da un recente studio della Uil e condotta dal segretario confederale Santo Biondo, «finalizzato a mettere in evidenza gli effetti che subirebbero i bilanci delle famiglie, nell’ipotesi in cui per curarsi, in presenza di un progressivo smantellamento della sanità pubblica, si fosse costretti a rivolgersi alla sola sanità privata pura».

Per lo studio sono state prese in considerazione la Lombardia, il Lazio e la Calabria, calcolando i costi medi di alcune prestazioni sanitarie più comuni, sulla base dei tariffari di alcune strutture sanitarie private, ubicate nei territori osservati.

«In sintesi – si legge – si può evincere che una persona che necessitasse di un ricovero per bassa complessità assistenziale, in assenza del Ssn, dovrebbe sostenere una spesa giornaliera che varia da un minimo di 422 euro fino a un massimo di 1.178 euro in Lombardia, da un minimo di 435 euro a un massimo di 1.278 nel Lazio e da un minimo di 552 euro a un massimo di 1.480 euro in Calabria. Se il ricovero fosse ad alta complessità assistenziale, la somma aumenterebbe e, al giorno si andrebbe da un minimo di 630 fino a 1.470 euro in Lombardia da un minimo di 530 a un massimo di 1.800 euro nel Lazio e da un minimo di 570 a 1.800 euro in Calabria.

Nel caso di un check up cardiologico, invece, tenendo conto che le tariffe sono variabili a seconda di età, sesso ed esami previsti, il costo in regime privato varia da un minimo di 220 a un massimo di 295 euro per donna e uomo in Lombardia, da un minimo di 234 a un massimo di 275 euro per una donna, e da 235 a 275 euro per un uomo nel Lazio, da un minimo di 373 a 400 euro per una donna, e da un minimo di 343 a un massimo di 397 euro per un uomo in Calabria.

Per un intervento chirurgico, come l’asportazione del tumore alla mammella, il più delle volte seguita dalla radioterapia, se si dovesse ricorrere come unica soluzione al servizio privato, si dovrebbe sostenere una spesa che può arrivare sino a un massimo di 29.400 in Lombardia, di 32.400 nel Lazio e di 48.400 euro in Calabria. Infine, per la chirurgia pediatrica, per risolvere un’occlusione intestinale del neonato o per affrontare casi più gravi come quelli correlati a una spina bifida, il costo, oltre la parcella dovuto al chirurgo, varia da 4.300 a 9.000 euro in Lombardia, da 6.100 a 9.000 euro nel Lazio, e da 6.400 a 11.000 euro in Calabria.

Un quadro desolante che indica come il Sistema sanitario nazionale sia vicino al collasso, ma non solo: per la Uil, infatti, «il Governo per strizzare l’occhio alla sanità privata, volta le spalle alla sanità pubblica. Tutti i provvedimenti dell’Esecutivo Meloni in materia di sanità, a partire dalle leggi di bilancio per finire al recente decreto “abbatti liste”, vanno nella direzione di un rafforzamento della sanità privata a discapito di quella pubblica. Direzione che aggrava sempre più “il malessere economico” di molte famiglie italiane, le quali sono costrette a modulare il proprio bisogno di cura, in funzione delle proprie disponibilità reddituali».

Cosa fare, allora? Per il sindacato si deve investire sui due assi fondamentali del Servizio sanitario nazionale: personale e territorio, ,ma non solo:«occorre: fermare la legge Calderoli, impropriamente definitivo regionalismo differenziato; attestare il rapporto Pil/spesa sanitaria sui livelli della media europea; combattere gli sprechi delle Regioni evidenziati, ormai da diversi anni, dalle sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti» e «occorre – viene ribadito – far maturare nelle persone una maggiore consapevolezza sull’importanza di avere un sistema sanitario pubblico e universale. E, per raggiungere questo obiettivo, abbiamo scelto di utilizzare l’oggettività e l’evidenza dei numeri».

Dall’analisi comparativa tra le Regioni osservate, infatti, emerge come al diminuire dell’offerta sanitaria privata, rispetto alla domanda di cura, crescano le tariffe. Il che potrebbe configurare un regime di monopolio con poche cliniche private che definiscono condizioni di “cartello”, i cui effetti ricadono sui cittadini in termini di prestazioni più salate. Questo spiega perché i costi di alcune prestazioni in Calabria risultano più alte delle stesse attenzionate in Lombardia e nel Lazio. Al Sud, infatti, con la scarsa presenza sul territorio di cliniche private e in assenza di dotazione di personale sanitario, si verifica ciò che viene definito un aumento di “payment for performance”, ossia un aumento del costo della prestazione.

«Pertanto, con il nostro approfondimento – si legge nella nota – abbiamo voluto sottolineare, che tra le tante sue funzioni il nostro Ssn, svolge anche quella di “tranquillizzante” sociale. Il suo carattere pubblico e universale, infatti, garantisce alle persone, che si trovano ad affrontare un problema di salute, una forma di protezione a prescindere dalla loro condizione economica e reddituale. Nel nostro Paese dal 1978 ad oggi, la salute rappresenta un diritto costituzionale, riconosciuto a tutti i cittadini, grazie alla presenza del Servizio sanitario nazionale».

«Ciò non è scontato e pertanto, per noi non è banale ribadirlo – viene evidenziato –. Come tutti i diritti, anche quello legato alle cure del cittadino di fronte alla malattia, è un diritto che per essere mantenuto va sorvegliato socialmente, rivendicato continuamente e difeso collettivamente. Nella nostra Costituzione, il diritto alla salute è riconosciuto alla persona in quanto tale e il suo esercizio non può essere condizionato al lavoro che si svolge oppure alle disponibilità economiche. La salute del singolo è un bene della collettività. Per tale ragione, il cittadino partecipa al finanziamento del nostro sistema salute in proporzione alle proprie possibilità e lo stesso ne usufruisce, al verificarsi di un suo bisogno di cura: questa è l’universalità garantita.

«Per quanto concerne poi, il rapporto tra sanità pubblica e quella privata – viene evidenziato nello studio – occorre fare la seguente riflessione. Nell’ ipotesi in cui le famiglie per curarsi avessero come scelta obbligata la sanità privata, in un contesto in cui vi è una costante perdita di potere d’ acquisto di salari e delle pensioni, la rinuncia alle cure per alcune categorie di lavoratori e pensionati sarebbe una via obbligata. Pertanto, il progressivo arretramento della sanità pubblica è, con evidenza, un colpo mortale per i bilanci delle famiglie e un ridimensionamento del diritto alla salute».

«Occorre, perciò– dare applicazione al decreto attuativo n. 305 31/12/2022, il quale in continuità con quanto disposto dalla normativa contenuta nella Legge Concorrenza 2021 (legge 118/2022), definisce le nuove regole del gioco, che all’interno del sistema salute del nostro paese, dovranno sovrintendere al rapporto pubblico/privato. Le nuove regole, improntate al principio della trasparenza pubblica e della leale concorrenza tra le parti, stabiliscono nel sistema degli accreditamenti regionali, criteri omogenei e standardizzati su tutto il territorio nazionale. In riferimento a ciò, la legge sulla concorrenza rimane inattuata per volontà legislativa dell’ultimo decreto mille proroghe varato dal governo, il quale concede alle Regioni la possibilità di derogare, fino al 31 dicembre prossimo, all’applicazione della stessa legge».

«Le Regioni, pertanto, in modo interessato – conclude lo studio – sul tema accreditamento della sanità privata, continuano ad andare in ordine sparso. Il che vuol dire perseguire interessi che non sono dei cittadini, dato che dai primi approfondimenti, è riscontrabile che molte strutture private ad oggi accreditate, non dispongono dei reali requisiti relativi ai volumi (definiti dal Dm 70/2015), all’adesione al Cup e all’alimentazione del fascicolo sanitario». (ams)

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