di AMALIA BRUNI – Cara Giusy,
non ci conosciamo personalmente ma, entrambe, siamo due pezzi di tanti (o pochi?) calabresi rimasti abbarbicati in questa terra come le radici di una quercia antica, di un olivo o di un platano millenario che sopravvive a dispetto di tutto in un territorio ostile.
Anch’io figlia, di un padre coraggioso e illuminato, moglie, di un medico dall’umanità profonda e dallo spirito di servizio incollato come una pelle, madre, di figli già andati via che guardano a questa terra con un misto di amore e orrore, medico e ricercatore che avrebbe voluto, e continua a desiderare, e a sperare forse contro tutte le evidenze, che in questa terra si possa innescare un processo di cambiamento.
Ho sempre pensato, e per questo sono tornata, che, con il mio lavoro, avrei potuto contribuire alla crescita de mio Paese. Dopo tanti anni e dopo aver costruito conoscenze e competenze che altre regioni hanno preso immediatamente, con avidità, facendone tesoro, mi rendo conto che nulla (o molto poco) è servito per aiutare un processo di cambiamento di cui la Calabria ha bisogno come l’ossigeno perché sta morendo.
Sta morendo nonostante le cose buone che esistono ma sono piccole, o meno piccole, molecole disperse che non fanno sistema che non creano il cambiamento come non lo ha innescato il mio lavoro… È per questo che ho accettato questa sfida “titanica” della candidatura. Io che non ho fatto mai politica nei partiti, io che ho sempre combattuto come don Chisciotte contro i mulini a vento e contro la nebbia delle Istituzioni. Un dovere morale, il senso di una donazione totale, un Servizio a questa terra con la speranza di “innescare la speranza”. Di riaccendere il senso di orgoglio e di appartenenza, il desiderio di non sentire mai più i giovani e meno giovani che fuori “ si vergognano” di dire che sono calabresi. Il desiderio di far rialzare la testa e non subire più, di riprogettare un sistema tra e con persone sane di principi che vanno avanti a costruire rispetto ad un unico obiettivo, senza personalismi, che è quello di cambiare pagina anzi, capitolo, anzi iniziamo un nuovo libro.
Ce la metto tutta, anche di più, con l’apertura mentale che mi viene dal profondo amore della medicina che mi ha insegnato il rispetto per l’uomo; della scienza che mi ha insegnato guardare lontano. Alto e lungo, ho detto sempre ai miei collaboratori, deve essere lo sguardo. Solo la proiezione nel futuro ci consente di ri-costruire un presente, una collettività che impara a rispettare e a rispettarsi, che si responsabilizza e che abbandona il pensiero fisso che «è sempre colpa degli altri» di quello che accade.
Una collettività che diventa “politica” e innesca tutti i processi per trattenere i figli (due generazioni intere – intere abbiamo perso, andate ad arricchire il resto del mondo) o per farli tornare perché riesce a ri-progettare il lavoro, il diritto ora negato) alla salute, al vivere con una qualità di vita che da troppo tempo è sotto terra. Ho il sogno di costruire una regione normale che proprio perché Calabria sarà speciale, perché ce l’ha nel dna questa nostra terra (lo dico con consapevolezza scientifica). Tuttavia, c’è un ma, Giusy, che è quello della responsabilità a cui ognuno di noi è chiamato.
La responsabilità collettiva è la sommatoria della responsabilità dei singoli. La mia saggia mamma mi diceva che «ognuno di noi è artefice del proprio destino». Dobbiamo crederci tutti che questa terra possa invertire la rotta e comportarci di conseguenza.
Abbandonare il senso di fallimento, la sfiducia (sono tutti uguali, qui non cambia mai niente), i comportamenti di disinteresse, sostituire l’io al noi. Andare a votare, non è solo un diritto ma un dovere di tutti. (am)